31/03/15

chiesa di San Nicola dei Caserti


FACCIATA IN DEGRADO


PARTE SUPERIORE


QUELLO CHE RESTA

sorge a Napoli, in via San Nicola dei Caserti.

Storia e descrizione

Venne fondata nel XIII secolo dalla nobildonna Purinella Sicola, nel corso dei secoli venne ceduta alle Monache di San Sebastiano e nel 1636 ai Preti della Dottrina Cristiana, che rimaneggiarono l'edificio in stile barocco. Tuttavia, durante la seconda guerra mondiale l'edificio fu gravemente danneggiato.

La facciata, che ancora porta i segni delle distruzioni belliche, presenta frammenti di portali inglobati nella fabbrica ed una parte di un portale è posto sulla sinistra di quello principale. L'interno, a navata unica con cappelle, è coperto da una volta con cupola; nell'edificio erano conservate opere di notevole valore artistico.

La chiesa è chiusa al pubblico ed è inaccessibile; nel 1999 è stato realizzato un restauro di consolidamento dell'edificio.

fonte: Wikipedia

strage di Ustica

STRAGE DI USTICA: IL DELITTO GIORGIERI, IL NAUFRAGO E IL PHANTOM






di Gianni Lannes

La verità? Un’altra storia. Pezzo dopo pezzo, con ostinata determinazione, ho sgretolato il famigerato muro di gomma. 27 giugno 1980: l’ammaraggio del Dc 9 Itavia al largo di Ponza, e non di Ustica, come si è sempre erroneamente detto e scritto. Ecco la testimonianza di un ex sottufficiale della Marina Militare italiana, imbarcato sulla nave Andrea Doria, a proposito del recupero in mare di un giovane carabiniere:

«In tanti abbiamo visto un ragazzo tirato fuori dall’acqua praticamente intatto; non era gonfio d’acqua come gli altri, non era sfigurato dalla lunga permanenza in acqua. Aveva i jeans ed una camicia dalle maniche lunghe. Quella destra era arrotolata, quella sinistra era strappata ed era legata sopra il ginocchio destro, quasi come un laccio emostatico. Il ragazzo era senza il piede destro: quella manica di camicia forse era servita a fermare un’emorragia».


Il 21 gennaio 1992 Alfredo Galasso, l’insigne avvocato dei familiari delle vittime di Ustica, ha dichiarato a Radio Radicale: «Le indagini in corso dimostrano che il Dc-9 Itavia è arrivato integro in mare». Ha aggiunto che «i soccorsi sono stati probabilmente ritardati». E infine ha affermato: «Ci troviamo alle soglie dell’omicidio volontario».

A Roma, il 20 marzo 1987  muore in uno strano “agguato terroristico” il generale dell’Aeronautica militare Licio Giorgieri. Uno sparatore in sella a una moto guidata da un complice, lo fredda a bordo della sua auto. All’epoca Giorgieri era il responsabile degli armamenti dell’Arma azzurra e stava lavorando al progetto delle guerre stellari, imposto attraverso la NATO dal presidente Reagan. Sulla carta è questo il motivo pubblicizzato dalla sedicenti unità combattenti comuniste (ucc) con un volantino di rivendicazione dell’omicidio. Però, fin dalle prime battute, il delitto Giorgieri appare un omicidio terrorista parecchio anomalo. Infatti, era quello un periodo in cui i terroristi nostrani telecomandati dall’estero, avevano ormai da tempo deposto le armi. Anche la moglie dell’ufficiale, fin da subito ha dichiarato di non credere alla matrice dell’omicidio propinata dalle autorità. La vicenda acquista contorni ancora più sospetti, quando si apprende che a far sgominare la banda degli assassini eterodiretti del generale, al quale solo pochi giorni prima era stata negata la scorta di polizia, è un giovane terrorista che lavora come archivista al ministero dell’Interno. In seguito, non ha fatto clamore la decisione di un giudice di scarcerare appena tre anni dopo, gli assassini di Giorgieri sia pure condannati a pene pesantissime.

Singolare coincidenza. All’epoca della strage di Ustica, Licio Giorgieri era inserito nei vertici del Rai, il Registro aeronautico italiano, l’ente che per primo fu investito dalla tragedia. E responsabile del Rai all’epoca era il generale Saverio Rana. Fu proprio Rana, pochi giorni dopo la strage, che riferì al ministro dei Trasporti Rino Formica, la presenza di un caccia accanto al Dc-9 Itavia. Rana, morto d’infarto, aveva a disposizione tre fotocopie di tracciati radar  ricevute proprio da Giorgeri. Carriere in riscossione? Dell’omicidio Giorgieri si è occupato in passato anche il giudice Giorgio Santacroce (figlio di un magistrato militare), denunciato dalle parti civili al Csm per la palese inerzia ed inconcludenza delle indagini sul disastro di Ustica, allontanato dall’incarico di pubblico ministero, ma comunque promosso a presidente della Cassazione in tempi recenti. A proproito: la procura di Roma non aveva alcuna competenza, ma scippò comunque il procedimento alla procura di Palermo (pm Guarino).

Il 21 gennaio del 2000 il peschereccio Bartolomeo di Gaeta tira a galla la coda di un aereo a 150 metri di profondità. Bianco e azzurro i colori dominanti. Una cosa è sicura la sigla 157303, ben visibile sulla fusoliera. A stretto giro d’ambasciata viene fatto sapere attraverso il Naval Safety Center che il numero corrisponde a un Phantom precipitato il 23 ottobre 1974. La ricostruzione ufficiale Usa, recita che due caccia decollati per una missione dalla portaerei Saratoga rimasero senza carburante. Il tempo pessimo impedì loro di forare le nuvole ed atterrare a Capodichino. Inoltre, la nebbia impedì all’aereo cisterna di rifornirli. Persa ogni speranza, al momento del “flame out”, la prua dei due caccia era orientata verso il mare. I piloti, quattro in tutto, si lanciarono e furono salvati da un elicottero. 




Questo caccia multiruolo della McDonnels Douglas è realmente precipitato nel 1974?Ad una prima verifica salta fuori un fatto bizzarro. Il 24 ottobre 1974, ovvero il giorno successivo al presunto incidente, è Il Mattino di Napoli a dare notizia di un caccia precipitato. Si tratta proprio di un Phantom, decollato precisamente dalla Saratoga. Però, si è schiantato al suolo a Campobasso, in mezzo alle montagne del Molise. Tanto è vero che il pilota è stato ricoverato in condizioni gravissime al locale ospedale, mentre il secondo, un sergente maggiore, è stato subito prelevato da un elicottero della Navy. Una versione che non collima affatto con la storiellayankee. Oltretutto, nell'archivio del nosocomio molisano è spuntata la cartella clinica del pilota nordamericano. Che c’entra la strage di Ustica? C’entra eccome. Infatti, la sera del 27 giugno 1980, i carabinieri di Pozzuoli telefonano al radar di Licola (lo dicono gli stessi radaristi militari parlando tra loro) informandoli di aver visto un aereo sfrecciare a velocità elevatissima a bassa quota sulla zona di mare antistante. Nel radar di Poggio Ballone tre militari parlano a lungo (nelle registrazioni acquisite dai magistrati) di un Phantom decollato da una portaerei. Tracce della conversazione rimarranno registrate e giungeranno fino al giudice istruttore Rosario Priore. «Se è un Phantom chi lo prende?», si chiedono i militari dell’Arma azzurra italiana. Terzo elemento, una serie di conversazioni registrate in partenza dal radar di Ciampino. I controllori di volo che stavano contattando l’ambasciata Usa dopo l’incidente, a un certo punto si interrogano sull’utilità di chiamare addirittura Sigonella. C’è un punto nel dialogo in cui uno degli ufficiali sbotta: «Aò, ma quando cade un Phantom, loro che fanno?».

Allora, può un velivolo civile con 81 persone a bordo (tra cui due neonati) cadere nello spazio aereo sottoposto al controllo dell’Aeronautica militare italiana, e contemporaneamente alla tutela del sistema integrato difesa aerea della Nato (Nadge), nell’ombrello di osservazione di due aerei radar (di cui un Awacs della Nato), praticamente sulla verticale della sesta flotta United States of America, davanti ad una flotta della NATO in esercitazione segreta (compresa nave Vittorio Veneto a cui viene ordinato immediatamente di far rotta verso la Spezia e di non prestare soccorso in mare), senza che nessuna autorità militare e gerarchia militare sia in grado di spiegare perché? Possono gli alleati francesi e nordamericani impiegare 35 anni per rispondere a singhiozzo o affatto sulle rogatorie dei magistrati tricolori, che chiedono conto di mezzi navali e aerei intorno alle nostre coste, di serbatoi di caccia ritrovati tra i resti del Dc-9, di foto satellitari che quella notte dormono o non vedono, di telefonate tra i centri dell’Aeronautica militare nostrana e le loro sedi diplomatiche nell’immediatezza e nelle settimane successive alla strage, di carteggi segreti con migliaia di pagine intercorsi tra ambasciate, governi e servizi di sicurezza?

Quella sera sul Tirreno sfrecciavano almeno una dozzina di caccia militari a velocità mach 2, controllabili da postazioni radar italiane, francesi e Nato. Che però, come le  scimmie, non vedono, non sentono e non parlano. Dopo 35 anni non c’è alcuna giustizia. Eppure, la responsabilità materiale della strage è ben nota ai governi della repubblichetta delle banane a stelle e strisce. Non plus ultra: nel 2007 Francesco Cossiga ha mandato in onda l'ultimo depistaggio, amplificato da alcuni pennivendoli rampanti. Come mai la magistratura non ha mai sfiorato il livello politico dell’affare? Non si è trattato di un banale errore. L'aereo civile italiano, con tutti i suoi passeggeri e l'equipaggio è stato sacrificato sull'altare degli affari indicibili di Stati. Ecco la ragione della resistenza alla verità dopo tutto questo lasso di tempo, quasi sepolto dall'oblio.




fonte: sulatestagiannilannes.blogspot.it

30/03/15

le "imprese" di Ludovico il Moro alla Sforzesca di Vigevano


La Sforzesca presso Vigevano com'era nella metà del XIX secolo - Litografia dal vero di F. Cavallasca in "Vedute della città di Vigevano", Pagani 1846
La Sforzesca presso Vigevano com’era nella metà del XIX secolo – Litografia dal vero di F. Cavallasca in “Vedute della città di Vigevano”, Pagani 1846
Un’impresa è generalmente una figura allegorica od emblematica, che fa riferimento in modo evidente od ermetico ad un fatto storico d’una signoria, d’un prelato, o ad un’impresa ideata o compiuta, o ad un proposito di virtù. Si allude insomma a ciò che si vuole intraprendere oppure ad un evento già accaduto. Spesso le imprese divengono figure araldiche e qualche volta sono conferite dai principi a famiglie benemerite, che le inseriscono negli scudi. Sono degne di nota le molte imprese, dette anche divise, dei Visconti, degli Sforza, degli Estensi, dei Gonzaga, dei Savoia.
Le imprese sono ordinariamente costituite da una figura e da un motto o leggenda, che si integrano; la prima fu chiamata “corpo” dell’impresa, la seconda “anima”. (1)
In particolare per gli Sforza il “corpo” dell’impresa traeva ispirazione soprattutto dagli oggetti di uso quotidiano, mentre “l’anima”, cioè il motto, era forgiato ricorrendo spesso anche a parole dialettali.
La molteplice varietà di “imprese” viscontee e sforzesche create nel tempo avevano l’intento di consolidare il complesso patrimonio della tradizione dinastica. Quelle sforzesche si ponevano come proseguimento di quelle della dinastia viscontea. I singoli membri, sentendosi però anche privilegiati portatori, aggiungevano le proprie suggestioni leggendarie, vicende storiche, private ed invenzioni fascinose. Nobilitando la figura del “pater patriae” Francesco, con una sorta di leggendario alone, accreditavano la magnificenza della famiglia Sforza presso le altre corti e i potentati dell’epoca.
All’interno di questo quadro Ludovico, ricollegandosi all’antica tradizione del proprio casato e, avvalendosi del metodo comunicativo basato sulla centralità delle immagini, espletò il controllo dell’arte a scopi del tutto autocelebrativi, affermazione d’individualità anche riguardo ai membri della sua stessa famiglia. Un programma politico il suo che si espresse attraverso immagini in un’azione che poté trovare la sua realizzazione con l’aiuto di alcuni intellettuali del tempo che lo supportarono e testimoniarono l’alto livello dottrinale del proprio committente.
Allo scopo, gli emblemi araldici, veicolarono la sua forte identità, codificando gli impegni e il senso di tutta la sua esistenza attraverso un segno.
Famoso è il dipinto del XV sec., attribuito a Giovanni Antonio Boltraffio, dove si può ammirare Ludovico il Moro ritratto con una veste ricamata con le imprese da lui preferite; la scopetta, il morso, la scure, il radia magna, la colombina, lo stemma inquartato con il biscione e l’aquila imperiale.
Al centro ritratto di Ludovico il Moro attribuito a Giovanni Antonio Boltraffio (Milano, 1467 – Milano, 1516) Tavola, collezione privata. Ai lati particolari del dipinto.
Al centro ritratto di Ludovico il Moro attribuito a Giovanni Antonio Boltraffio (Milano, 1467 – Milano, 1516) Tavola, collezione privata. Ai lati particolari del dipinto.
Ma “motti” e “imprese” furono anche utilizzati come elementi decorativi da apporsi su scudi, libri miniati ed edifici e nello specifico territorio vigevanese ricordiamo quelli che compongono la decorazione della Piazza Ducale e la Sforzesca.
Su quest’ultima sono raffigurate le “imprese” della scopetta e del morso sforzesco.
Villa Cascina Sforzesca, Vigevano. Colombarone di nord/ovest, facciata nord. Frammenti di decorazione pittorica attorno a una finestra del piano terra.
Villa Cascina Sforzesca, Vigevano. Colombarone di nord/ovest, facciata nord. Frammenti di decorazione pittorica raffiguranti le imprese di Ludovico il Moro, oggetto del nostro attuale restauro, attorno a una finestra del piano terra.
Il significato dell’impresa della scopetta, immagine simbolica che fu propria del Moro già in gioventù, è spiegato nel ” Dialogo dell’imprese militari e amorose “ di P.Giovio . L’erudito comasco rammenta che Ludovico il Moro ” aveva fatto dipingere in Castello l’Italia in forma di reina che aveva in dosso una veste d’oro ricamata a ritratti di città che rassomigliavano al vero e dinanzi le stava uno scudiero moro negro con una scopetta in mano. Perché dimandando l’ambasciator fiorentino al Duca al che serviva quel fante negro, rispose che scopettava quella veste e le città per nettarle d’ogni bruttura, volendo che s’intendesse il Moro essere arbitro dell’Italia e assettarla come gli pareva “.
Allegoria dell'Italia nettata dal Moro tratta dal libro "Dialogo dell'imprese militari et amorose" di Paolo Giovio, Lione 1574.
Allegoria dell’Italia nettata dal Moro tratta dal libro “Dialogo dell’imprese militari et amorose” di Paolo Giovio, Lione 1574.
Quindi il significato simbolico di voler ripulire il ducato di ogni bruttura e quale miglior raffigurazione se non una bella scopetta? Il tutto unito dal nastro col motto MERITO ET TEMPORE. Il motto sul nastro, “per merito e con tempo”, mette in evidenza la grande tematica del tempo e della giustizia, centrali sia per i Visconti che per gli Sforza legata all’ansia di legittimazione da parte dell’autorità imperiale. E’ il tempo che darà ragione alla fine, che va oltre le prove di forza e di dominio e potenza, il giudizio verrà comunque col tempo, lasciando spazio anche al fato e alla provvidenza.
A sinistra - Impresa della scopetta scolpita su un clipeo in Santa Maria delle Grazie a Milano. A destra - L'impresa della scopetta.
A sinistra – Impresa della scopetta scolpita su un clipeo in Santa Maria delle Grazie a Milano. A destra – Disegno dell’impresa della scopetta.
L’invenzione dell’impresa del morso per cavalli, detta anche “moraglia”, col motto in tedesco “Ich vergies nicht” (io non dimentico) è attribuita a Giangaleazzo Visconti duca di Milano dal 1387 al 1402. Il morso è un simbolo tradizionalmente associato alla virtù della temperanza indicando moderazione e dominio di sé. Significa quindi, in questo contesto, che è necessario frenare i propri impulsi e attendere il momento opportuno per far valere le proprie ragioni. Unito alle briglie è un attributo della giurisprudenza a voler ribadire quanto sia necessario soffermarsi a riflettere lasciando che il giudizio finale sia dato dall’applicazione delle leggi.
L'impresa del morso sforzesco scolpito su un clipeo della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.
L’impresa del morso sforzesco scolpito su un clipeo della Chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano.
Piazza Ducale di Vigevano - Facciata rivolta a sud - L'impresa del morso sforzesco  dipinta a finto rilievo sull'aggetto del fregio sopra i capitelli.
Piazza Ducale di Vigevano – Facciata rivolta a sud – L’impresa del morso sforzesco dipinta a finto rilievo sull’aggetto del fregio sopra i capitelli.
La scopetta e il morso furono le imprese predilette dal Moro probabilmente perché furono quelle che Francesco Sforza scelse tra tutte per essere rappresentate sulle monete del ducato da lui coniate. Ma allorché divenne duca di Milano Ludovico preferì di gran lunga al morso l’impresa dei fanali (2) non rinunciando mai alla sua prediletta scopetta.
Ecco perché sono soprattutto rappresentate, scopetta e morso, sulle superfici murarie della Sforzesca, opera architettonica che lo Sforza realizzò nel 1486, undici anni prima della sua legittimazione dinastica nel ducato.
Villa Cascina Sforzesca Vigevano - Colombarone di sud/ovest. Frammenti di decorazione pittorica sotto la finestra del primo piano.
Villa Cascina Sforzesca Vigevano – Colombarone di sud/ovest. Frammenti di decorazione pittorica sotto la finestra del primo piano.
Dipinte nel fregio del marcapiano e attorno alle finestre del piano terreno e del primo piano, scopetta emorso sono intervallate da un ondato di verde e di giallo. Questo attributo araldico a forma di campanelle rovesciate, ordinate in colonne verticali affiancate e alternate, prende il nome di “vaio in punta” solitamente rappresentato d’argento su campo azzurro.
Araldica - Vaio in punta
Araldica – Vaio in punta
Villa Cascina Sforzesca, Vigevano - Colombarone di Nord/Ovest, facciata nord - Vaio in punta nella fascia decorativa dipinta attorno alla finestra del piano terra.
Villa Cascina Sforzesca, Vigevano – Colombarone di Nord/Ovest, facciata nord – Vaio in punta nella fascia decorativa dipinta attorno alla finestra del piano terra.
Il “vaio” è utilizzato in araldica come pelliccia che può ricoprire parte dello scudo. Il disegno stilizzato di pezzi blu e bianchi rappresenta la pelle del piccolo scoiattolo grigio siberiano o, più precisamente, di quella chiara della pancia e di quella più scura del dorso – ed è, insieme all’ermellino, una delle due pellicce presenti in araldica, di gran lunga la più usata. Sebbene non comune nelle insegne italiane, la scelta o la concessione di questa nel proprio stemma è indicativa di grande dignità e nobiltà.
La linea che disegna il vaio viene detta “ondato”. Il fasciato ondato inquartato col rosso fu la divisa assunta da Muzio Attendolo Sforza, capostipite della casata fin dall’epoca del servizio presso la compagnia Alberico da Barbiano.
Ritratto equestre di Muzio Attendolo Sforza (Cotignola, 1369-Pescara, 1424) in una miniatura di G. P. Birago (1480 ca.) Paris, Bibliothèque Nationale De France (Library). Ai lati delle colonne i due paggi indossano una cotta d'armi con l'emblema del fasciato andato sforzesco.
Ritratto equestre di Muzio Attendolo Sforza (Cotignola, 1369-Pescara, 1424) in una miniatura di G. P. Birago (1480 ca.) Paris, Bibliothèque Nationale De France (Library). Ai lati delle colonne i due paggi indossano una cotta d’armi con l’emblema del fasciato andato sforzesco.
Divenne poi patrimonio comune di tutta la famiglia. Su questo elemento base, o meglio, sui campi di rosso, i diversi appartenenti alla famiglia aggiunsero di volta in volta (ma non sempre) altre figure, per lo piùimprese.
Sull’uso del termine ondato si sofferma a lungo Cambin, che la definisce “impresa” (G. CAMBIN, Le rotelle milanesi, pp. 208-218). Egli afferma che l’ondato, figura comune in araldica, con l’adozione da parte della casa sforzesca divenne tipica dei duchi di Milano e più in generale dell’araldica lombarda. Gli Sforza lo applicarono, a fianco del biscione, come loro emblema preferito. La mancanza però di una codificazione precisa ha portato ad una incertezza terminologica in merito.
Come figura araldica di possibile derivazione dalle “onde”, l’ondato viene anche paragonato a delle “grosse onde montanti” a rappresentare le tumultuose vicende che gli Sforza dovettero attraversare per consolidare il loro potere politico.
La scelta non poteva cadere in modo più appropriato nei confronti di Ludovico e della sua tanto agognata legittimazione al ducato. Lascia perplesso la scelta del colore verde su campo giallo (a simulare l’oro degli smalti) dipinto alla Sforzesca.
Potrebbe essere stata una scelta dettata da un’esigenza di accostamento cromatico con le restanti decorazioni. Doveroso è ricordare che i frammenti di decorazione visibili oggi giorno sulle superfici esterne della Sforzesca risalgono ad un restauro pittorico dei primi del novecento realizzato prendendo spunto da alcuni bozzetti che Casimiro Ottone ideò partendo dalle tracce sopravvissute al tempo di un precedente intervento ottocentesco. Difficile poter stabilire, in mancanza di documentazione certa e sulla base delle pochissime tracce oggi sopravvissute, quanto questi due interventi siano restati fedeli all’impianto decorativo quattrocentesco e quanto invece è stato aggiunto o interpretato. Non possiamo perciò escludere che originariamente l’ondato fosse dipinto d’argento su campo azzurro come per esempio si trova raffigurato sul voltone d’ingresso al Cortile della Rocchetta nel Castello Sforzesco di Milano, opera interpretativa che fu di Luca Beltrami nei primi anni del secolo scorso, ricordando che il famoso architetto, per le sue ricostruzioni, non mancò di avvalersi di documenti originali facendo anche riferimento a costruzioni coeve tra le quali anche il Castello di Vigevano.
Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milano. Voltone d'ingresso al cortile. Decorazione pittorica molto simile a quella della Sforzesca di Vigevano.
Cortile della Rocchetta, Castello Sforzesco, Milano. Voltone d’ingresso al cortile. Decorazione pittorica molto simile a quella della Sforzesca di Vigevano.
Numerose testimonianze artistiche, com’è prevedibile data la diffusione dell’impresa, recano l’ondato sforzesco.
Rappresentato nello stemma del Moro quando ancora era duca di Bari lo incontriamo per esempio nel cassone dipinto detto “dei tre duchi” dove sono dipinti i duchi di Milano Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Bari Ludovico Maria Sforza fratello del primo, zio e tutore, del secondo. Ciascun cavaliere è accompagnato da uno scudiero ed è contrassegnato, oltre che dagli stemmi posti sulle gualdrappe, dal relativo nome. Lo storico Pietro Ghinzoni, che aveva rinvenuto e acquistato il cassone, lo ritenne eseguito dopo il 1479, anno in cui a Ludovico Maria Sforza venne concesso il titolo di duca di Bari, e entro il 1494, quando il Moro divenne duca di Milano.
Cassone dei Tre Duchi - Cassone dipinto, sul fronte, con i tre duchi - 189 cm x 43 cm - Milano (MI), Raccolte Artistiche del Castello Sforzesco. Museo delle Arti Decorative
Cassone dei Tre Duchi – Cassone dipinto, sul fronte, con i tre duchi – 189 cm x 43 cm – Milano (MI), Raccolte Artistiche del Castello Sforzesco. Museo delle Arti Decorative
Non solo; lo stesso stemma si trova anche raffigurato nel frontespizio miniato da G. P. Birago nel Commentario di G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium ducis Commentarii,conosciuto anche come Sforziade, ove si celebrano le gesta del duca Francesco Sforza. Il Moro colse nell’opera il potenziale propagandistico per l’intera casata e per il proprio personale progetto politico e che per questo ne incrementò la duplicazione tra manoscritti ed edizioni a stampa. Lo stemma compare nella copia che si ritiene essere appartenuta a Ludovico, oggi custodita nella British Library di Londra, dipinto insieme ad altre sue imprese e al profilo dello stesso Sforza all’interno di un medaglione.
Frontespizio della "Sforziade" miniato da G.P. Birraio (1490) Londra British Library. In basso scudo araldico di Ludovico Maria Sforza.
Frontespizio della “Sforziade” miniato da G.P. Birago (1490) Londra British Library. In basso scudo araldico di Ludovico Maria Sforza.
Un quadro di Giulio Campi, nella chiesa di San Sigismondo a Cremona, raffigura Francesco Sforza indossante una cotta d’araldo inquartata più volte con due delle sue imprese favorite: il fasciato ondato e ilcane sotto il pino.
Giulio Campi (1539) Madonna in gloria con Bianca Maria e Francesco Sforza, con i santi (da sin. ) Daria e Sigismondo, Girolamo e Crisante, pala d'altare. Cremona - Chiesa di S. Sigismondo - Abside
Giulio Campi (1539) Madonna in gloria con Bianca Maria e Francesco Sforza, con i santi (da sin. ) Daria e Sigismondo, Girolamo e Crisante, pala d’altare. Cremona – Chiesa di S. Sigismondo – Abside
Francesco Sforza (1401-1466), padre di Ludovico. Dettaglio della Pala di S. Sigismondo, Cremona. Campi Giulio (1539)
Francesco Sforza (1401-1466), padre di Ludovico. Dettaglio della Pala di S. Sigismondo, Cremona. Campi Giulio (1539)
Anche sullo stendardo di Massimiliano Sforza è visibile il fasciato ondato alternato nella bordura ad altre imprese del ducato. Inoltre era spesso rappresentato sulle divise, cotte d’armi, gualdrappe e rotelle (scudi rotondi) che servivano in battaglia come insegne ai singoli gruppi di militi in modo da poter essere viste e riconosciute anche da lontano.
Stendardo di Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico, (1512-1523)
Stendardo di Massimiliano Sforza, figlio di Ludovico, (1512-1523)
I tratti distintivi della corte milanese di Ludovico il Moro furono senza ombra di dubbio il lusso e l’esibizione della ricchezza. Una ricchezza dispensata per colpire l’immaginario di alleati e oppositori e messa in atto per costruire la propria immagine di potere di cui egli stesso si sentiva in difetto. Per questo non mancò mai di far rappresentare, con ogni tecnica e modalità, le simbologie araldiche che più gli appartenevano. L’arte venne utilizzata, usando una terminologia moderna, come “pubblicità mediatica” allo scopo di celebrare, amplificandola, la figura del Duca. Una propaganda promozionale che si manifestò in modo evidente nell’affannoso percorso verso l’investitura imperiale del ducato di Milano ma che era già parte della sua personalità tanto da aver voluto ideare la decorazione della villa Sforzesca di Vigevano con fregi e cornici raffiguranti alcune delle sue iconografie araldiche. Va ricordato che ancora per tutto il quattrocento l’araldica, pur avviandosi verso una regolamentazione delle forme, non sottostava ancora a quelle rigide codificazioni tecnico scientifiche che le diedero i trattisti del cinquecento e seicento. Il Moro ebbe quindi ancora grande libertà nell’ideazione di stemmi ed imprese e non possiamo escludere che alcune di esse non siano state ancora interpretate correttamente o per lo meno secondo il suo preciso volere come lo è per esempio l’ondato sforzesco.
Paola Mangano
Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico - 1478 - Impresa del velo annodato detto "Capitergium cum gassa" con tessuto decorato con il fasciato ondato sforzesco come parte della bordura.
Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico – 1478 – Impresa del velo annodato detto “Capitergium cum gassa” con tessuto decorato con il fasciato ondato sforzesco come parte della bordura.
Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico - 1478 - Scudo con l'ondato sforzesco
Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico – 1478 – Scudo con l’ondato sforzesco
Targa circolare, Milano, Castello Sforzesco - Civiche raccolte d'arte antica - Scudo partito con figure araldiche e imprese di Ludovico Maria Sforza e di sua moglie Beatrice d'Este - Da Le rotelle milanesi
Targa circolare, Milano, Castello Sforzesco – Civiche raccolte d’arte antica – Scudo partito con figure araldiche e imprese di Ludovico Maria Sforza e di sua moglie Beatrice d’Este – Da Le rotelle milanesi
Note
1). Per meglio comprendere le imprese riporto dal Felice Tribolati “Grammatica Araldica” che in appendice sulle imprese riprende a sua volta un testo di Monsignor Paolo Giovio, che detta le 4 regole fondamentali per le imprese:
1° giusta proporzione di anima e corpo
2° ch’ella non sia oscura, di sorte abbia ch’abbia mestiero della Sibilla per interprete a volerla intendere: nè tanto chiara che ogni plebeo l’intenda.
3° che soprattutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra, entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti meccanici, animali bizzarri ed uccelli fantastici
4° non ricerca alcuna forma umana
5° richiede il motto, che è l’anima del corpo, e vuol essere comunemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa, perchè il sentimemto sia alquanto più aperto. Vuole anco esser breve, ma non tanto, che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo eccetto se fosse in forma di verso, o integro o spezzato.
2). L’impresa dei fanali rappresenta due fari posti su scogli separati da onde in tempesta. Sono probabilmente i fari del porto di Genova, la città conquistata ai tempi dell’arcivescovo Giovanni, dalla quale erano giunte a Milano due antenate celebri: Isabella Fieschi, una delle tre mogli di Luchino, e Valentina Doria, la moglie di Stefano. Nel motto, che potremmo tradurre “Non mi dispiace faticare per non perdere un simile tesoro”, leggiamo parole di lucido ottimismo per un navigatore in angustie sì ma non disorientato. La stessa impresa compare sul basamento esterno dell’abside di S. Maria delle Grazie, destinata da Ludovico a divenire il mausoleo di famiglia. Qui il tesoro al quale si allude è di sicuro più alto e vale certo tutti i travagli della vita terrena.
Bibliografia:- La “sforziade” e le miniature del birago: l’epopea sforzesca e il destino tragico di Gian Galeazzo Sforza, Carla Glori, in Fogli e Parole d’Arte, 11 maggio 2014
– Allegoria matrimoniale Sforza Visconti di Caravaggio-Aldobrandini nel Castello di Galliate, Gianfranco Rocculi, in Atti della Società Italiana di Studi Araldici, Torino 2011
– Dialogo dell’imprese militari et amorose di Monsignor Giovio, 1559
– Testimonianze sforzesche nella villa Gnecchi Ruscone di Inzago, Carlo Gnecchi Ruscone, in Storia in Martesana n. 4, 2010
– “Grammatica Araldica ad uso degli italiani”, Felice Tribolati, Hoepli Milano 1904
– “Luca Beltrami e il restauro del Castello Sforzesco di Milano” CONFRONTI 3/2012, Studi, ricerche e documenti
– Ludovicus Dux, a cura di Luisa Giordano, Società Storica Vigevanese 1995
– Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico – 1478 – Stemmi – imprese – insegne, Gastone Cambin, Società Svizzera di Araldica 1987

fonte: passionarte.wordpress.com

Figaro non fumava il sigaro



credere, esibire, ripetere. Credere, esibire, eludere. Mi valgo della facoltà di non rispondere.
Sei asociale se non mostri il fisico, sei una stupida se hai un difetto fisico.
Gli italiani sbagliano la coniugazione dei verbi irregolari, scatenano diverbi coi profughi irregolari che sbarcano sui nostri mari, ma se dici agli italiani che i mari sono fatti di vino se li bevono come il frizzantino.
Destinatario al contrario, Stato destinato al commissariato. Se non hai seminato al contrario, sei uscito dal seminario. Perfetto l'imperfetto, peccato per il difetto che ha l'indicativo presente il quale mi fa presente l'incastro col leader maximo non collimi col gladiatore Proximo. Congiuntivo, non passato prossimo. Il merito è dello scheletro che segue il feretro.

29/03/15

la danza orientale



in arabo raqs al sharqi, رقص شرقي, danza orientale, è praticata in molte varianti, tra cui il Baladi, una danza del ventre da cabaret esclusivamente egiziana, l'Arabiya (l'orientale), anche noto come danza del ventre, e il Saidi, anch'esso esclusivamente egiziano. Quest'ultimo comprende il Tahtib, praticato solo da uomini, e il Raks Al Assaya, lo stile maschile che viene insegnato alle ballerine occidentali.

Storia

La danza orientale è una danza originaria del Medio-Oriente e dei paesi arabi, eseguita soprattutto, ma non esclusivamente, dalle donne. È considerata come una delle più antiche danze del mondo, soprattutto nei Paesi del Medio-Oriente e del Maghreb, come Algeria, Tunisia, Libano, Irak, Turchia, Marocco, Egitto.

In senso stretto, il termine indica la danza classica orientale che si è sviluppata nelle corti principesche del Medio-Oriente ma non solo. In un senso più vasto, può indicare tutte le forme che si conoscono al giorno d'oggi.

Durante la Campagna d'Egitto di Napoleone, i soldati francesi vennero a contatto con questa danza: provenendo da una società relativamente puritana, il movimento sinuoso dei corpi delle danzatrici veniva percepito come un potente afrodisiaco. È da questo motivo, ancora oggi associato alla danza, che dipende il termine "danza del ventre".

Danza Orientale

La danza orientale è tradizionalmente praticata dalle donne poiché esprime interamente femminilità, vitalità e sensualità. La danza orientale è unica nel suo genere: esistono diversi stili che cambiano a seconda del Paese d'origine, come la danza col velo. In generale, questa danza è caratterizzata dalla sinuosità e dalla sensualità dei movimenti: è di effetto sia con musiche ritmate che lente. Di solito è praticata da danzatrici professioniste.

La pratica della danza orientale è giunta in Europa e in America grazie ai cabaret degli anni trenta e quaranta: è da questo periodo, ma soprattutto dagli anni novanta, che questa danza è diventata famosa in tutto il mondo.

La danza orientale è particolarmente adatta al corpo femminile, perché aumenta la flessibilità e la tonicità del seno, delle spalle, delle braccia, del bacino, ma soprattutto della pancia: gli addominali sono coinvolti profondamente nei movimenti, modellano la linea e giovano agli organi interni. Tonifica le cosce, migliora l'agilità delle articolazioni e sembra ritardare l'osteoporosi, migliora la postura e rafforza il pavimento pelvico. Inoltre, la danzatrice orientale ha il diritto di essere in carne - le danzatrici formose sono le più apprezzate - e può mostrare le proprie forme, come una statua di Maillol. Quello che importa non è la rotondità ma la sensualità, la grazia e la sinuosità dei movimenti.

Le danze popolari

Nei villaggi algerini, la danzatrice professionista è CHATTAHA. Dei popoli nomadi di Oulad Nail, Qui abbiamo grande nomi El Hasnawia, Jamila Atabou, Warda Chawuiya, Saliha , Taous, Khoukha Che hanno avuto un successo notevole in Siria e soprattutto in Egitto. La maestra di Samia Gamal è stata Khoukha di origine algerina in preciso da Orano la città di Cheikha Rimiti.

La bibliografia di riferimento, si basa prevalentemente sulle opere redatte dai "visitatori" occidentali che nel secolo scorso esplorarono, avidi di sapere un mondo straordinario ed a loro quasi sconosciuto. L'opera che ad avviso di molti costituisce la pietra miliare sulle "riscoperte" per uno studio delle tradizioni culturali dell'Egitto è sicuramente quella dell'inglese Eduard W. Lane. In questa opera un vero spaccato di vita sociale sono riportate utilissime informazioni sulla vita quotidiana in Egitto ai primi dell'Ottocento. Relativamente alla specifica trattazione, sulle danzatrici Ghawazee, esistono però diverse interpretazioni che, messe in relazione con altri testi dello stesso periodo, creano non poca confusione. Il punto in questione è rappresentato dalla confusione che nasce dalle due contemporanee ma ben distinte figure professionali quali le Almeh e le Ghawazee. Le prime, come già ampiamente descritto nella sezione a loro dedicata "Musica, canto e danza delle Almeh d'Egitto" a differenza delle Ghawazee, come appartenenti ad una più elevata classe sociale non erano solite esibirsi in rappresentazioni pubbliche e di strada. Cosa questa invece ampiamente frequente nelle narrazioni e gli incontri spesso riportati nelle bibliografie classiche di riferimento. Le Ghawazee

Senza approfondire troppo l'argomento vista la complessità, le contraddittorie e poco certe fonti di provenienza credo sia più logico accennare solo per grandi linee alle ipotesi formulate in merito alla presenza delle Ghawazee, come di altre popolazioni nomadi sia nel bacino del Mediterraneo che in Europa. Alcune teorie formulano l'ipotesi di una grande migrazione costituita da un possibile unico ceppo etnico ma linguisticamente diverso che abbandonando le regioni dell'Asia centrale mosse su direttrici diverse. Uno in direzione della penisola Arabica, con la successiva penetrazione nel territorio Nord Africano e forse attraverso questo proseguì l'accesso in Europa attraverso la Spagna.(Il nome inglese "Gipsy" e quello Spagnolo "Gitano", hanno infatti per lungo tempo fatto pensare alla possibile provenienza degli "zingari" dal territorio Egiziano - cosa anche questa ancora da dimostrare)

Un altro flusso, spostandosi invece verso le coste dell'Anatolia, risalì i Balcani per raggiungere il cuore dell'Europa Centrale. In questo caso la presenza di Zingari detti "Cingene" in territorio Turco è databile intorno al XII secolo e le successive migrazioni verso l' Europa centrale vengono indicate intorno al 1300.

A differenza di altre popolazioni zingare quali i cingene dei quali esistono ben documentate tracce della loro presenza durante la originaria espansione dell'Impero Ottomano, in quanto oltre che ad essere presentii nella vita sociale, facevano anche parte delle regolari truppe militari impegnate contro gli eserciti Cristiani, delle citate Ghawazee si hanno invece notizie molto più tarde e documentate solo a partire dalla fine del XVII secolo. Dal periodo della spedizione Napoleonica (1798) in poi, la presenza delle "Ghawazee" diviene sempre più ricorrente ed a loro si attribuisce la più viva tradizione popolare Egiziana nel settore della Danza.

Con l'arrivo delle truppe Napoleoniche al Cairo, come già ampiamente illustrato, l'altra categoria di Danzatrici-musiciste, le Almee, abbandonò i luoghi di origine per non esibirsi alla presenza di un pubblico invasore e principalmente maschile. Questa condizione invece non turbò affatto le Ghawazee che contrariamente alle prime e per tradizione artiste di strada, familiarizzarono con le truppe Francesi. Lo stretto contatto con le truppe militari fu anche segnato da terribili episodi che portarono al conseguente allontanamento delle troppo "disponibili" danzatrici dalla città del Cairo.

Quattrocento Ghawazee furono "giustiziate" (decapitate e gettate nel Nilo) allo scopo di dare un esempio al fine di sedare i ripetuti incidenti che si verificavano tra le truppe. Questo atto di terribile "barbarie" legittimato dai generali francesi portò gradualmente tali personaggi, ritenuti scomodi ed indecorosi, agli occhi dell'invasore occidentale, verso l'allontanamento dai grandi centri. La "sorte" delle Ghawazee, ed il loro definitivo allontanamento dalla vita e le rappresentazioni nei grandi centri urbani quali Il Cairo, venne segnata dall'allora reggente Muhammed Ali, che nel 1834 ne ordinò l'allontanamento immediato verso le campagne e le città del sud, infliggendo pene severissime a chiunque contravvenisse al divieto imposto.

Di questa particolare condizione, creatasi assai fortunosamente, a trarne gran vantaggio furono i "Kocek (danzatori uomini, che in abiti femminili interpretavano danze e ruoli destinati alle donne), banditi anche loro nello stesso periodo per motivi di ordine pubblico dalla vicina Turchia dal Sultano Mahmut II. Quando, gli esuli "Kocek" arrivarono in Egitto si integrarono con un'altra schiera di danzatori "simili" e già presenti in Egitto, conosciuti con il nome di "Khawals". La presenza dei Khawals egiziani è stata anche documentata dallo scrittore E. W. Lane nel suo già citato testo. Questi nuovi "particolari" soggetti, i Kocek, furono rapidamente accettati, in quanto assai raffinati nel vestire, dai modi gentili e padroni nell'arte della danza, si integrarono ed a volte sostituirono le danzatrici Ghawazee allontanate dalle aree metropolitane. Non è poi affatto raro che in questo stesso periodo alcuni dei numerosi visitatori occidentali abbiano assistito a spettacoli di danza eseguiti da uomini credendoli delle "autentiche" danzatrici egiziane. Una analoga circostanza è anche descritta nel libro del 1929, The Woman of Cairo, dallo scrittore G. de Nerval che fu incredulo e stupefatto spettatore di uno spettacolo simile.

La condizione sociale delle Ghawazee, risulta dalle informazioni in nostro possesso, simile a quella di tutte le popolazioni "zingare", una vita prevalentemente relegata ai bordi delle società così dette più evolute. Anche in questo caso vale a dire nell'Egitto del XVIII secolo valeva la stessa regola e le Ghawazee appartenenti alla schiera delle tribù nomadi, viveva al di fuori dei grandi centri urbani in accampamenti provvisori. Distinguendosi dall'atra più "rispettabile" categoria quella delle Almee, le rappresentazioni delle Ghawazee, spontanee manifestazioni di strada, si avvalevano spesso,della collaborazione dei componenti maschile della tribù per l'accompagnamento musicale.

La discutibile "cattiva" reputazione di cui godevano tali danzatrici, malviste anche dagli esponenti religiosi, impediva loro l'accesso ai riservati Harem ed era ritenuto sconveniente, ospitare una "zingara" nella propria abitazione. Anche se in molte celebrazioni, quali matrimoni, circoncisioni ecc, veniva loro concesso di esibirsi ma quasi sempre in luoghi all'aperto. La reputazione delle Ghawazee non è di molto dissimile da quella che accomuna le Ouled Nail al pari di Danzatrici-prostitute.

La presenza iconografica di cui siamo in possesso, permette come già accennato, di porre l'attenzione anche su quelle che sono le caratteristiche sia del vestiario che della danza. In merito all'abbigliamento, anche in questo caso minuziosamente descritto da Lane e molti altri coevi autori e riccamente illustrato da grandi artisti quali Prisse e David Roberts nelle sue dettagliatissime litografie , risulta evidente la stretta somiglianza con l'abbigliamento dello stesso periodo in uso presso le Cingene Ottomane rappresentate nelle splendide miniature dell'artista Levni.

Il vestiario, prevedeva nelle sue diverse combinazioni l'uso variabile sia di un lungo che un corto abito. Quello lungo,detto "Yelek", che generalmente stretto in vita e dall'ampia scollatura era indossato lasciato aperto dalla vita sino ai piedi.Il più corto, più simile ad un coprpetto era lungo sino al giro vita e sempre dalla profonda scollatura era aderente in vita.

In quest'ultimo caso una gonna (Tob) veniva indossata in mancanza dell'abito lungo.Una aderente "camicetta" dalle ampie lunghe maniche era generalmente indossata sotto i due precedenti indumenti. Comune alle possibili varianti era sempre l'uso dell'ampio ed a volte decorato pantalone "shintyan" (harem pants). Immancabile naturalmente l'uso della fascia annodata sui fianchi, ricordo forse ancestrale degli antichi costumi rituali, emblema simbolico della dea Ishtar, le ricche decorazioni tra i capelli e la ricorrente mancanza di veli sul volto

Monili, bracciali, cavigliere e orecchini completavano insieme alle immancabili decorazioni con l'henna e l'antico e sapiente uso del khol, usato sia per il trucco che per la stessa protezione degli occhi, l'abbigliamento delle originarie danzatrici Ghawazee del Diciannovesimo secolo.

Secondo la descrizione riportata da Wendy Buonaventura nel suo libro "Il serpente e la sfinge", nell'Egitto del IX secolo, al tempo di Harun al Rashid, periodo questo considerato come l' età d'oro della musica e delle arti nel mondo Arabo, la presenza di danzatrici non aveva confronti con l'esiguo numero di cantanti. Si scelse quindi di istruire alcune di queste danzatrici anche nell'arte della musica e del canto. Il risultato fu quello di avere avuto sino alla metà del XX secolo delle superbe interpreti abili sia nella danza, nel canto e nella musica.

Il nome Almeh o Almee, al plurale Awalim, deriva dalla parola Araba "Alema" e sta a significare "una donna istruita". È proprio la ricevuta "istruzione" che rendeva questa categoria estremamente raffinata e privilegiata a cui era consentito l'ingresso agli ambiti sociali più ristretti e primo tra tutti il riservatissimo Harem.

Esiste purtroppo, in merito a questo argomento, molta confusione in quanto nelle descrizioni riportate da molti autori del XVIII e XIX secolo la figura della Almeh viene confusa con quella delle famose interpreti Ghawazee.

La grande differenza tra queste due distinte categorie di interpreti si basa sul fatto che le Ghawazee sono da considerarsi come interpreti "popolari" di bassa estrazione sociale, che si esibivano prevalentemente in spettacoli di strada, al pari degli ambulanti alla presenza di un qualsiasi pubblico "pagante".

Le Almeh, sicuramente più raffinate ed appartenenti ad una classe sociale più elevata avevano libero accesso ed erano assai gradite presso i ranghi sociali più elevati, esibendosi prevalentemente in presenza di un pubblico femminile nelle arti del canto e della danza con eleganza ed estrema raffinatezza. Altra particolarità che distingueva questa specifica categoria, era la rigida consuetudine di portare sempre, a differenza delle ghawazee, il velo nei luoghi pubblici.

Le prime notizie documentate sull'esistenza negli harem Egiziani di "donne musiciste" abili sia nella danza che nel canto si devono attribuire agli scritti del Francese Savary risalenti al 1785. Da questa data in poi, come già accennato, la limitata documentazione di cui disponiamo confonde spesso queste due differenti ma ben distinte "figure professionali".

Anche avvalendoci del supporto visivo, quello che per intenderci è stato rappresentato nelle opere degli esponenti della corrente degli orientalisti, non permette una chiara distinzione di queste due ben distinte interpreti. Due tra dipinti più noti, "The Dance of the Almeh" e "Almeh with pipe" entrambi eseguiti dal grande Jean-Leon Gerome, raffigurano tutti e due una "ipotetica" quanto forse improbabile Almeh.

Le due raffigurazioni, ovviamente simili tra loro differiscono fortemente dalle seppur esigue informazioni di cui siamo in possesso. L'abbigliamento, l'assenza del velo e la rappresentazione di fronte ad un pubblico "esclusivamente" maschile lascia pensare ad una interpretazione più vicina alle caratteristiche di una Ghawazee piuttosto che ad una Almeh. Anche il solo confronto visivo con la prima immagine "Almee ou danseuse egyptienne" mette in evidenza la netta discrepanza con un abbigliamento fondamentalmente diverso e decisamente più "castigato". La diversità di informazioni in nostro possesso è quindi molto contraddittoria e non permette una valutazione effettiva sull'argomento. Si deve forse alla originaria danza delle Almeh l' attuale Raqs Sharqi che trova nella raffinata esecuzione e nella elegante gestualità delle braccia la sua forse più possibile erede.

La figura delle Almee, rinomate nelle arti canore, musicali e della danza, ha il suo inevitabile declino intorno agli anni 30. Epoca questa di cambiamenti che contrariamente ad una propria origine culturale mirata allo straordinario connubio tra canto e danza, si sposta esclusivamente verso l'intrattenimento visivo ed esibizionistico sviluppandosi secondo direttrici prettamente occidentali che portarono a quella particolare esecuzione della danza comunemente detta stile "cabaret".

Il cinema egiziano ha reso note grandi danzatrici come Tahia Carioca, Samia Gamal, Neima Akif.

Gli stili

Per una maggior conoscenza della danza orientale, occorre classificare i numerosi stili in alcune categorie principali.

Stile danza orientale autentica con danza Hawzi Caratterizzato da movimenti eleganti, ampi e dolci, la danza viene resa fluida grazie al coinvolgimento armonico del corpo della danzatrice.

Stile Šarqī Lo stile Šarqī, inizialmente legato alla tradizione di danze ballate nelle corti islamiche, si evolve nei primi decenni del Novecento. Le interpreti dei cabaret egiziani iniziarono a ricorrere a coreografie e all'utilizzo di strumenti quali il velo, il candelabro e le scarpe col tacco, introducendo inoltre passi derivanti dal balletto classico come l'arabesque e lo chassé.

Stile Baladī

È uno stile caratterizzato dalla movenza del bacino carica di intensità. I movimenti delle braccia sono meno ampi e svolazzanti rispetto a quelli dello stile Šarqī. Si prediligono le camminate con il piede a terra e non in mezza punta come nello stile classico. Lo stile Baladī è una danza popolare cittadina che nasce dall'incontro della popolazione rurale con quella urbana.

Stile Ša'abī

La danza Ša'abī è legata alla terra, caratterizzata dalla spontaneità, semplicità e allegria. Lo stile Ša'abī è lo stile popolare egiziano. Le danze popolari comprendono repertori zingari (ġawāzī) e delle campagne (fellahī). La variante egiziana è quella interpretata con il bastone, chiamata sayydī.

Gli accessori

La danza orientale viene spesso accompagnata da numerosi accessori tra i quali troviamo: doppio Velo Chiamata Danza Hawzi Danza Hawzi considerata nel mondo arabo è la più raffinate delle danze orientali di tutti i tempi, origine dall Algeri

Velo La prima ballerina ad interpretare questo tipo di danza fu Hanan El Jazairiya, che negli anni venti , conquistò il pubblico avvolgendosi nel trasparente velo per poi farlo volteggiare nell'aria.

Sagat Sono dei cimbali, piccoli strumenti a percussione in ottone che vengono tenuti sul pollice e sul medio di entrambe le mani.

Bastone La danza del bastone deriva dal tahtīb, un'arte marziale che si tramutò in danza maschile folcloristica. Questa danza è caratterizzata da gioiosi saltelli.

Tamburello Alcune danzatrici accompagnano la loro danza suonando un tamburo Grande - Bandir. Soprattutto in Neili e Sidi Bel Abbas.

Candelabro La danzatrice si esibisce tenendo in equilibrio sulla testa un candelabro con tanto di candele accese, nelle feste di matrimonio.

Spada Due Spade La danzatrice Tuareg di Tamanrassette esegue durante la danza esercizi di equilibrio con la spada.

Karkabou

Ali di Iside Sono un'introduzione moderna, come i fan veils, si possono considerare un'evoluzione del velo.

C'è da specificare che molti degli stili sopra elencati non sono di origine medio orientale ma molti sono stati importati dall'occidente come le ali di iside e la spada.

fonte: Wikipedia

27/03/15

tutto ciò...

Tutto ciò che passa non è che un simbolo, l’imperfetto qui si completa, l’ineffabile è qui realtà, l ’eterno femminino ci attira in alto accanto a sé

se ci penso è stata per me un modello di femminilità.
è sempre stata simpatica, aperta, comunicativa.
gentile, ma di carattere.
era alta, gambe sottili -ma busto un po' grosso- tachi alti, abbastanza, capelli mogano.
quando andavo a casa sua, o il sabato e domenica, o nella settimana in cui i miei genitori partivano per il loro viaggio annuale e mi lasciavano a turno da una delle mie nonne, rimanevo stregata dagli oggetti della sua camera.
dormivo con lei in un lettino, a fianco del suo. 
mi ricordo un tavolino con uno specchio, di quelli da specchio delle mie brame, delle scatole con dei bigodini, con i trucchi, i belletti.
mi ricordo l'armadio e le calze di seta.
mi ricordo che volevo sapere quello che faceva.
mia zia T. non si è mai sposata, è sempre rimasta a casa della nonna con mio zio P., mai sposato nemmeno lui, eterno infante che ha avuto due madri che non l'hanno mai fatto crescere, mia nonna prima, mia zia dopo.
mi piaceva molto andare a casa della nonna G., casa enorme, popolare, mal ridotta, camere strette buie piene di oggetti. mistero nella mia mente di bambina. un bagno che non si può descrivere, una cucina altrettanto, ma mi piaceva. la sala era enorme, ci guardavamo la tv la sera, se solo passavano per caso un bacio in un film o le gambe scoperte di ballerine di fila volevo nascondermi sotto il divano per la vergogna. aleggiava aria di peccato,  di castigo, doveva essere l'aria in cui è cresciuto mio padre.
ma la nonna G. era dolcissima, occhi chiari capelli bianchi, era buona, e devota.
al nonno devo avere detto 4 parole in tutta la mia vita, mi terrorizzava, ne avevo una soggezione indicibile. se gli portavo il te nel gioco del "te e pasticcini" si vedeva che non stava al gioco, mi sentivo una cretina.
la zia T. era speciale, è probabilmente la zia alla quale ho voluto più bene di tutte, e di zii e zie ne ho avute a bizzeffe, le famiglie dei miei genitori erano numerosissime, solo mio padre aveva 12 fratelli.
uno dei ricordi più belli sono le dolorosissime vacanze a Salsomaggiore, ci si andava per fare le cure termali. le mie otiti sono sempre state un calvario per me. si affittava una casa e ci stavamo in tanti, le zie T. e G. e P. e L., e i cugini, parecchi pure quelli. mia madre mi portava e mi lasciava lì per 15 giorni, a settembre. era bellissimo, si andava al parco a giocare, si mangiava tutti insieme, si andava alle terme e si facevano le inalazioni e le maledette insufflazioni. quanto facevano male. ma le passeggiate in centro con la zia T. a vedere negozi e fare picoli acquisti e imparare a fare la maglia, erano strepitose, mi ripagavano di tutto quel male, tutti i santi pomeriggi. anche la zia T. faceva le insufflazioni, molto più coraggiosamente di me, e ce le somministrava un medico fighissimo. questo particolare lo ricordo molto bene: era bello, alto, gentile e fascinoso.
e faceva la corte alla zia.
e figurati la fantasia come partiva, navigava e veleggiava, mi ricordo le domande insistenti e impertinenti. aveva accettato di uscire con lui, e ci credo!!,  ed era tutto un come dove quando ma cosa vi siete detti cosa avete fatto dove siete andati ma ti piace ma lo vedi anche a milano. io e mia cugina C. la tormentavavamo di domande, lei ci stava, ma con discrezione. un po' ci accontentava, un po' si ritraeva. una giusta dose di notizie tra generosità e ritrosia. ma è stata una fonte preziosissima, una conferma alle fantasie pressanti di quell'età dispensate con buon senso.
ieri sono andata a trovarla in ospedale, ormai ha 80 anni ed è molto malata. gravemente malata.
sono rimasta sul letto con lei a parlare per un'ora. il suo carattere è ancora quello, nonostante tutto: forte e volitivo, sorridente e simpatico.
mi ha presentato a tutti come un medico, sua nipote medico, e di continuo mi ha citato mio padre, suo fratello, e le sue considerazioni di allora sul mio lavoro. tutte sbagliate, viste con la consapevolezza, mia, di oggi su di me.
mentre la guardavo vedevo la faccia di mio padre, un'impronta identica e indelebile, la bocca e i denti. la struttura del volto e degli occhi.
i miei nonni erano cugini di primo grado. i tratti genetici, fisici e metabolici (in famiglia tutti diabetici e ipercolesterolemci e cardiopatici, me compresa) si sono radicati e decuplicati nei figli. mio padre e la zia, e altri, hanno la stessa struttura del nonno, e da vecchi, su quel letto, malati, scavati, pallidi e disidratati, mi mostrano quella dentatura scolpita e replicata.
la vedo e la rivedo, la vidi nel nonno, decine di anni fa, l'ho vista in mio padre, l'ho rivista ieri in mia zia. ieri la guardavo, le parlavo, ma dentro di me qualcosa scavava, si turbava, andava altrove, in un luogo segreto. nel mistero.
per me, quella, è la faccia della morte, non c'è nulla da fare.
dall'eterno femminino all'eternità della morte.
memoria, anima del tempo.

fonte: nuovateoria.blogspot.it

chiesa del santo crocifisso

CHIESA DEL SANTO CROCIFISSO – BODIO-LOMNAGO (VARESE)

La Chiesa del Santo Crocifisso, di probabile origine romanica, si erge su di una collinetta all’interno del centro storico del paese di Bodio-Lomnago (VA) ed è accessibile attraverso le scalinate a sud e nord a conferma di una ricercata monumentalità.
Per la prima volta si ha notizia della Chiesetta di Bodio nell’opera “Liber Notitiae Sanctorum Mediolani” redatta da  Goffredo da Bussero sul finire del XIII secolo. Scarsissime sono le notizie relative alla vita di Goffredo. Di lui si sa per certo che fu sacerdote a Rodello (Como) e che visse tra l’anno 1220 e l’anno 1289. Nella sua opera vengono narrate le vite dei Santi di Milano, e a quell’epoca le agiografie erano un genere letterario molto in voga. Ma questo codice, custodito presso la Biblioteca del Capitolo Metropolitano di Milano, è tuttavia particolare nel suo genere perché contiene in più un elenco di tutte le chiese e altari e feste e reliquie di ogni Santo della diocesi di Milano a quei tempi. La ricchezza di informazioni toponomastiche, i fatti riportati, la suddivisione delle pievi milanesi lo rendono una preziosa fonte di notizie sulla nostra storia, specie in un periodo, il secolo XIII, così carente di altre fonti di informazione.
In questo trattato si legge che nel territorio della pieve di Seveso era catalogata nel XIII sec. la chiesa di San Sigismondo in Bodio:
381. MEMORIA ECCLESIARUM SANCTI SIGISMUNDI.
In plebe uarixio. loco bozio. ecclesia sancti sigismundi.
A quell’epoca era la parrocchiale di Bodio e tale rimase fino al 1574 quando il Cardinale Carlo Borromeo, durante una delle sue visite pastorali, dispose che la Chiesa di S. Maria venisse considerata parrocchiale col nome di S. Maria e S. Sigismondo. La chiesetta fu invece dedicata al Santo Crocefisso per il miracoloso Crocifisso che la rendeva cara e venerata alla popolazione locale e forestiera dandole fama di un piccolo Santuario.
Durante il restauro di questa piccola chiesa (intonaci antichi esterni e apparato decorativo interno) sono emerse alcune notevoli particolarità.
La prima si trova all’esterno e trattasi del ritrovamente della porzione di affresco raffigurante lo stemma della Regina Claudia di Francia (1499-1524).
La seconda all’interno con la particolare scritta dipinta dietro l’altare.
Entrambi nutriti argomenti ai prossimi post.
Paola


Chiesa del S. Crocifisso - Bodio-Lomnago (VA) - Acquarello - Mauro Nicora
Chiesa del S. Crocifisso - Bodio-Lomnago (VA) - Acquarello - Mauro Nicora
Chiesa del S. Crocifisso - Bodio-Lomnago (VA) - Acquarello - Mauro Nicora

fonte: passionarte.wordpress.com

26/03/15

euroglut

PROFUMO CHE COPRE PUZZA, PUZZA SEMPRE, PROFUMO SU PUZZA ANCORA. EUROGLUT E IL RESTO DELLA TRAGEDIA.


Premessa: tratto qui di EUROGLUT, una cavolata del valore di oltre 5-10.000 miliardi di euro con conseguenze macroeconomiche globali per la gente VERA, una cosa seria, ma non certo tanto quando lo scandalo Grandi Opere, che per carità, quello sì che sono soldi e danni. Per cui i M5S mi perdonino se distraggo 16 italiani dai terrificanti ladri di fagioli che loro, indomiti, perseguono. E tu piccolo imprenditore mi RACCOMANDO: mica mai ingrandire il tuo orizzonte, non si sa mai che tu capisca il VERO motivo per cui oggi hai perso il 24% di produzione e hai tasse dal 45 al 70%. Ora umilmente continuo con ste cazzatine che si mangiano l’Italia 200 volte.
Definiamo il contesto dell’Eurozona e UE, tanto per ricordarci i fondamentali, e in modo originale.
Mi è venuta in mente un’immagine tratta dalle corti del ‘600 o del ‘700, quando la nobiltà che non conosceva il concetto del lavarsi usava sudare, cagare, pisciare, senza mai pulirsi – il bagno era inaudito. Elisabetta I d’Inghilterra una volta dichiarò “Ho incontrato il Re di Francia, puzzava come una capra. Io mi faccio il bagno una volta all’anno, ma sti francesi non potrebbero farlo anche loro?”. Cosa facevano a quei tempi per sopprimere l’olezzo demoniaco che emanavano? Si spruzzavano profumo sulle pelli puzzolenti, che però tornavano mefitiche alla seconda defecazione o al primo sudore, e allora questi nobili vi spruzzavano altro profumo, poi cagavano ancora e poi altro profumo… in un circolo vizioso da vomitare, sinceramente. Compreso? Ecco…
… Questa è ESATTAMENTE la politica economica dell’Eurozona contemporanea, identica. Fanno, come da precedente metafora, ‘cagate e pisciate’ d’economia una in fila all’altra (Austerità, no spesa di Stato, Super export, MES, salvataggi di banche putrefatte, miliardi agli speculatori…), creando fogne sociali (le ‘riforme’, licenziamenti, tagli ai salari, meno sanità, meno servizi pubblici, tagli pensioni, patto di stabilità dei Comuni, privatizzazioni regalate agli speculatori…), che poi cercano di coprire con una spruzzata di profumo (i COSMETICI MONETARI,come T-LTRO, OMT, QE di Draghi, il patetico Job Act del Renzino…), ma poi l’Europa puzza ancora e peggio di prima, e mica la LAVANO (stop euro, stop Austerità, Investimenti Pubblici a Deficit Positivo, quindi più Deficit e non meno Deficit!, programmi di Stato di Piena Occupazione, salari ‘alla Henry Ford’, Finanza Funzionale alla Abba Lerner, nazionalizzazione banche nell’Interesse pubblico…), no, mica mai LAVARSI! Spruzzano altro profumo monetario sulla montante cacca, da coprire con altro profumo, su altro piscio, su altra puzza sociale, con altro profumo ecc. ecc. Questo fa Mario Draghi per primo, e la tecnocrazia di Bruxelles a seguito, e  i 4 dementi economisti italiani che li seguono. Capita la metafora? In essa, per riassumere:
‘cacca e piscia’ della UE sono le Austerità (vedi sopra)
la puzza insopportabile sono le fogne sociali che creano (vedi sopra)
il profumo che vi spruzzano sopra di continuo è la POLITICA COSMETICA MONETARIA, che NON E’ ECONOMIA REALE PER LA GENTE, ma solo per le elite.
Prima di arrivare all’EUROGLUT, un minuto. Perché? Bè, voi sapete che Paolo Barnard scrive temi salva vita e salva nazione affinché siano capiti anche da un quindicenne, per cui qui di seguito per prima cosa scriverò cosa è ESSENZIALE che voi cittadini capiate di quanto detto sopra. Perché è quello che conta. Poi alla fine, qualche dettaglio in più.
1) Siamo, come è ormai noto anche ai ricci di mare, in una dittatura finanziaria europea, armata di moneta unica euro, che ha sottratto all’Italia non solo il portafoglio, ma anche le sovranità parlamentari, costituzionali e popolari. Sapete che esistono due economie al mondo: quella REALE di: case, sanità, salari, servizi, beni, cibo, tecnologie, istruzione, strade, infrastrutture ecc.; e quella MONETARIA, che non produce nulla, neppure un panino al prosciutto, ma solo: algoritmi e trucchi per moltiplicare soldi fittizi nelle tasche del Mercato/Speculatori.
2) La dittatura dell’Eurozona pratica SOLO economia MONETARIA, e solo per gli interessi di pochi. Questo, come capiscono anche le cozze alla tarantina, crea disastri all’economia REALE, cioè a noi, gente, famiglie, aziende, figli. L’economia monetaria NON E’ ECONOMIA REALE.
Quando questi disastri divengono, come ovvio, immani, come vediamo da almeno 8 anni della famosa Crisi – con disoccupazione a record africani, fallimenti come piovesse, perdita di diritti, laureati con 600 euro al mese, risparmi di famiglie erosi fino al nulla, esodati, PIL sotto lo zero, Sanità allo sfascio, ecc. – allora cosa fa la dittatura europea? Impiega ancora altra economia MONETARIA come ‘profumo’ per mitigare per qualche mese i disastri di cui sopra. Ma è tutto inutile. Per fare un altro esempio in metafora, esiste in inglese un’espressione che rende bene l’idea: “To paper over something”. Cioè: tu stai attaccando carta da parati, fai una porcheria piena di bozzi, buchi ecc.. e cosa fai per rimediare? NON cambi certo tecnica, ma gli incolli sopra (paper over) un altro pezzo di carta per nascondere il ‘marone’ orrendo che hai fatto. Ma poi ti ritrovi con una cosa schifosa, e che fai? Gli incolli sopra ancora altra carta… Insomma viene fuori un bubbone inguardabile. Quello appunto che fanno la tecnocrazia delle Austerità e la BCE di Mario Draghi come detto sopra.
E così andiamo avanti, penosamente, ignari, impotenti, sul fatto che la vita di centinaia di milioni di noi, et aziende, viene gestita da sti pazzi, criminali, che sfondano i nostri muri di casa con le loro politiche, poi tentano di rimediare col Pongo, ma poi tutto crolla, e ci mettono altro Pongo e via così in eterno, complice la stampa e i media innominabili.
Ed eccoci all’Euroglut. Euro vuol dire euro. Glut vuol dire ‘sovrabbondanza’.
E’ una trovata della prodigiosa banca privata della ‘Cermania Teteska della Kulona Merkel’, cioè quell’ascesso cosmico di banca con un’esposizione ai derivati esplosivi che vale 20 volte il PIL tedesco e che si chiama Deutsche Bank. La Deutsche B, cioè la banca più fallita del mondo, ci avvisa qualche mese fa del pericolo del…
EUROGLUT!!!
Dicono sostanzialmente questo: l’Eurozona ha un surplus di esportazioni colossale, cioè esporta merci e servizi al resto del mondo molto più di quanto compri merci e servizi dal resto del mondo. Tutti i soldi che guadagna esportando molto di più di quanto importa, vengono messi dall’Eurozona in cassette di risparmio immense. A questi ‘fantastiliardi’ risparmiati nella zona euro, si aggiungono tutti i soldi ‘facili’ che la BCE di Mario Draghi sta oggi riversando nelle banche per mezzo del T-LTRO e soprattutto del QE (leggere miei pezzi precedenti), che sono in sostanza iniezioni colossali di soldi liquidi nelle casse bancarie, ma anche, MINIMAMENTE, nel settore privato di cittadini e aziende. Quindi, argomenta la Deutsche Bank, ci troviamo in Europa con delle quantità di euro in circolazione di dimensioni ciclopiche. E cosa faranno i possessori di questi oceani di euro? Li venderanno in giro per il mondo (flussi di euro fuori dalla UE) per comprare questo e quello, causando però il deprezzamento dell’euro (più vendi una moneta meno vale). Questo dikono gli specialisten tella krante banka teteska.
Valutiamo in termini ponderati queste affermazioni. Giudizio accademico: buffonate.
Adesso l’Europa si trova in un marasma di: troppe esportazioni (danno certo all’economia) con il valore dell’euro che collassa; tassi ormai talmente bassi che in alcuni Paesi cominciamo a vedere i correntisti che pagano la banca per tenergli i soldi; deflazione dei prezzi; un’alluvione di euro in circolazione dovuta al super export e alle politiche di Draghi di oceani di euro facili nelle tasche dei soliti noti… insomma una GLUT sovrabbondanza di euro inaudita che creerà una sequela infinita di problemi a noi, al mondo. E cosa faranno Bruxelles e Draghi?..... Ancora più GLUT…!! Cioè:
PAPER OVER… profumo su mutande intrise di piscio e cacca…  cioè altri TRUCCHI MONETARI INSULSI per coprire per un po’ di tempo il marcio e la puzza, come sempre.
Sappiate infatti, che al contrario di quanto affermato dalla Deutsche Bank, l’EUROGLUT ci porterà:
A) ancor meno crescita. EUROGLUT viene in parte dal super export della UE, cioè un surplus di export. Ma la VERA economia e i bilanci settoriali ci insegnano che se da una parte esiste un surplus, per forza ci deve essere una perdita da un’altra parte (come in una partita a carte: se uno vince, qualcun altro deve perdere per forza). E chi sta pagando il surplus dell’export UE? In primo luogo le perdite dei Paesi esteri che ci comprano più cose di quante ce ne vendono. Ma ANCHE  le perdite dei lavoratori europei e delle economie nazionali UE, che per poter esportare tanto devono essere COMPETITIVI, che si traduce in: tagli ai salari europei a tutto spiano (l’industriale deve far costare poco il suo prodotto), e depressione dei consumi (se consumiamo noi le nostre cose, non ce ne rimangono tante da esportare). Due siluri d’impoverimento europeo certo. Infatti lo vediamo, si chiama… Crisi.
B) non al deprezzamento dell’euro, ma al suo APPREZZAMENTO (cioè aumento di valore rispetto ad altre monete). Qui dobbiamo ricordarci del concetto del ‘Hard to Get’, cioè ‘Difficile da ottenere’. Tutta questa GLUT sovrabbondanza di euro a tassi bassissimi finiscono in primo luogo nelle banche o nelle casse dei grandi esportatori, i quali non è affatto garantito che li spendano, quindi ai cittadini e in circolo non arrivano tanti euro. Questi euro diventano difficili da ottenere per noi gente (Hard to get). Quindi l’effetto svalutativo di tanta moneta in giro non si avvera proprio perché una cosa difficile da trovare in genere si apprezza, non si deprezza.

C) non a enormi flussi di euro fuori dalla UE. Infatti gli esportatori europei hanno enormi spese interne da pagare e le devono pagare in euro, quindi vogliono che ciò che incassano sia in euro (ovvio, vivono nella UE). Allora venderanno i dollari o gli Yen o le Corone guadagnati con l’export per avere euro, e questo sottrae euro dal Mercato, facendoli di nuovo diventare difficili da ottenere (Hard to get)… altro che enormi flussi di euro fuori dalla UE. E siccome TUTTI gli esportatori d’Europa necessitano di euro per i motivi sopraccitati e venderanno le monete straniere guadagnate, l’euro tornerà ad APPREZZARSI! Quindi l’effetto svalutativo di tanta moneta in giro non si avvera, come invece dice la banka teteska…

D) e soprattutto a nessuna crescita VERA per la VERA economia delle persone/aziende, cioè per coloro che necessitano/producono le VERE cose che ci servono per vivere, curarci, star bene, e avere democrazia e diritti! Perché? Perché noi viviamo di cibo e tetti sopra la testa, ma se questa UE esporta le cose essenziali a man bassa, ce ne saranno MENO PER NOI! Forza, dimostratemi che con gli Yen guadagnati dall’export dal miliardario della Tod’s tu o voi vi comprerete casa, pagherete il mutuo, manterrete un figlio disoccupato o potrete pagare la TAC urgente. Forza! Quando soprattutto, come detto sopra, i miliardi della Tod’s vengono dal DEPREZZAMENTO del salario dei suoi operai italiani e dal calo dei consumi italiani. Forza.
E) Infine, per essere brevi. Tutta la povertà per centinaia di milioni di famiglie europee derivante dai disastri MONETARI dell’Eurozona di Draghi renderanno l’euro ancora più ‘Hard to get’, cioè sempre meno circolante perché la gente non ha più da spendere come prima. E se circola di meno, diventerà sempre più costoso, altro che deprezzamento dell’euro.
Ma dove andiamo così? No, dico, non Draghi o Renzi o Juncker. Io e voi? Ma possibile che gli italiani, i datori di lavoro, gli operai, non capiscano che ci stanno uccidendo? (possibile, per un popolo di scemi e grillini… possibilissimo. Si tengano l’EUROGLUT ora)
Soluzione per lo 0,2% che capisce: STOP EUROZONA – STOP POLITICA MONETARIA COME UNICA TERAPIA – TUTTI I GOVERNI RISCOPRANO LA POLITICA DELL’ECONOMIA REALE (possibilmente la Mosler Economics per l’Interesse Pubblico). La guida la trovate qui: 

http://paolobarnard.info/docs/programma_memmt_orig.pdf
Ciao


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