29/06/16

Kalergi, Comenius e Saint-Yves - i padri del nuovo dis-ordine europeo


A cura di Don Curzio Nitoglia

Jan Amos Kominsky -Comenius- e Johann Valentin Andreae-730x490

COMENIUS, SAINT-YVES E KALERGI
I PADRI DEL “NUOVO DIS-ORDINE EUROPEO”

I

Johann Valentin Andreae e Jan Amos Kominsky detto Comenius
(XVI-XVII secolo)

Kominsky
Comenius (Niwnitz in Moravia 28 marzo 1592 – Amsterdam 15 novembre 1670) ha gettato le fondamenta del “Nuovo dis-Ordine Mondiale”, che deve passare per la distruzione della “Vecchia Europa” ancora troppo ricca di cultura metafisica greca, di filosofia morale romana e di patristica/scolastica cristiana per poter essere trasformata in una “landa deserta”, globalizzata, omologata, impoverita e appiattita sotto la guida degli Stati Uniti d’America.
Egli discendeva da una famiglia della setta protestante anti-trinitaria dei Fratelli Boemi, che nel 1575 prese il nome di Fratelli Moravi (risiedenti nell’attuale Cecoslovacchia) dispersi in seguito in Polonia, poi divenne membro dei Rosacroce (una setta segreta, panteistica di derivazione cabalistica, protestantica e madre della massoneria) si spostò in Germania, in Inghilterra, in Svezia, ritornò in Polonia e finì la sua vita in Olanda ove fu pubblicata la sua Opera Omnia nel 1657 ad Amsterdam, di cui è parte cospicua la Didactica magna composta tra il 1633-38.
Johann Valentin Andreae
Suo padre spirituale fu Johann Valentin Andreae (Herrenberg in Germania 1586 – 1654) uno dei fondatori dei Rosacroce, nato da una famiglia di alchimisti, occultisti, falsi mistici protestanti (Eckhart e Ruysbroeck) specialmente melantoniani, insegnanti all’università di Tubinga.
Nel 1632 Johann Valentin Andreae ammalato e stanco elesse Comenius come suo successore nell’opera di espansione della sinarchia mondialista anti-cattolica romana.
Infatti Comenio voleva unificare a livello mondiale l’istruzione scolastica; coordinare i governi nazionali in una istituzione super-nazionale; riunire pan-ecumenicamente le chiese cristiane e le religioni a-cristiane all’insegna di un “cristianesimo” (di nome) pluralista, relativista, tollerante e modernistico. In breve voleva la realizzazione del piano giudaico/massonico del dominio universale mediante l’edificazione di una Repubblica e un Tempio Universali.
Comenius nel suo scritto Consultatio de rerum humanarum emendazione, pars VI, Panorthosia (Amsterdam, 1644) – in cui si rifà all’opera del suo maestro J. V. Andreae, Descriptio de republica cosmopolita del 1619 – perfezionato dal suo ultimo libro Lux ex tenebris (Amsterdam, 1657), annunzia chiaramente il piano sinarchico della distruzione della Chiesa romana e del Papato ad opera dei popoli nordici, ossia luterani e di quelli islamici ottomani, passando prima attraverso la dissoluzione del S. Impero Romano Austriaco (v. 1a guerra mondiale) per giungere al Nuovo Ordine Mondiale: ordo a caos, oppure lux ex tenebris, come dicono i massoni.
ordo a caos-lux ex tenebris
Purtroppo il piano delle setta comeniana è penetrato nel Santuario e nelle menti degli uomini della Chiesa romana con il Concilio Vaticano II e con il post-concilio. Infatti il 16 aprile 1993 il Pontificio Consiglio della Cultura, durante un simposio internazionale intitolato “L’eredità di Comenius, bilancio di un centenario”, per bocca del suo Presidente il cardinal Paul Pouppard dichiarò: “Comenius è stato il pioniere di una nuova educazione dell’uomo per l’uomo” (Esprit et Vie, 13 maggio 1993).
Purtroppo con il Pontificato di Francesco I (2013) il male si è aggravato notevolmente e si fanno ogni dì proclami pastorali da parte del Papa (come dottore privato) e delle Conferenza Episcopale Italiana (v. le esternazioni di monsignor Galantino e del cardinal Bagnasco dell’agosto 2015) non solo per l’accoglienza dell’immigrazione di massa dei musulmani che vengono dall’Africa, ma anche della loro integrazione, ossia della nostra omologazione ai loro costumi, come vedremo oltre.

II

Saint-Yves d’Alveydre (XIX secolo)
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Alexandre Saint-Yves d’Alveydre (Parigi 1842 – Versailles 1909) è stato il grande iniziato e continuatore del piano sinarchico rosacrociano e comeniano.
Figlio di un medico, venne nominato marchese nel 1880 dopo aver sposato nel 1870 la contessa Keller di origine triestina e israelita e poté, così, conoscere la noblèsse di tutta Europa. Egli più che un filosofo è un depositario, continuatore e volgarizzatore delle dottrine comeniane.
Ebbe, tuttavia, l’intuizione di esprimere esplicitamente e con maggior insistenza il ruolo predominante che avrebbe dovuto svolgere Israele nella costruzione del futuro Nuovo Ordine Mondiale. Scrisse, infatti, un libro titolato Mission des Juifs nel 1882 (Paris, Calmann-Lévy, 1884; II ed. Paris, Editions Traditionelles, 1990, 2 voll.).
Inoltre progettò di allargare la sinarchia dall’Europa (con Londra, Parigi e Bruxelles come capitali) al Mondo intero, tramite la formazione di una Unione Europea con un Supergoverno transnazionale che unisse le varie chiese cristiane (tranne quella romana) in vista di una comunità economico/finanziaria dominata dal denaro delle grandi banche. In breve occorreva formare al di sopra delle Nazioni e delle Patrie un governo tecnico, di scienziati e di professori, di banchieri e di economisti e al di sopra della Chiesa romana un consiglio federale o democratico delle varie chiese nazionali dominate dalla Superchiesa, o meglio Controchiesa, la massoneria.

III

Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi (XX secolo)
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Nel Novecento tutto era pronto per rendere oramai pubblico l’antico piano segreto di Andreae e Comenius, ripreso da Saint-Yves nell’Ottocento. E fu Richard Nikolaus Coudenhove-Kalergi (Tokio 1894 – Vienna 1972) a realizzarlo ai nostri giorni.
Kalergi, nato a Tokio ove suo padre era ambasciatore ed aveva sposato una principessa giapponese, fondò a Vienna (ove visse pur essendo cittadino francese) nel 1922 il “Movimento Paneuropeo”. Egli si era laureato in filosofia a Vienna nel 1917, si era sposato nel medesimo anno con una famosa attrice di teatro (Ida Roland) di origini israelitiche ed aveva cominciato ad interessarsi al progetto del Mondialismo e della Globalizzazione a guida Statunitense sin dal 1919.
Occorreva innanzitutto partire dalla Vecchia Europa per farne una Nuova Europa Unita, la Paneuropa o la Magna Europa (come dicono oggi i teoconservatori italiani). Nel 1923 uscì il suo libro principale in cui esponeva il cosiddetto “Piano Kalergi”, che in realtà era quello dei Rosacroce e della giudeo/massoneria, intitolato Paneuropa (Vienna, Edizioni Paneuropa, 1923). A questo volume ne seguirono altri, che sostanzialmente ripetono lo stesso tema apportandovi delle modifiche e novità accidentali dovute all’evolversi dei tempi (R. Ch. Kalergi, J’ai choisì l’Europe, Paris, Plon, 1952; Id., Storia di Paneuropa, Milano, Edizioni Milano Nuova, s. d.). Nel 1947 fondò l’Unione Parlamentare Europea.
L’inizio della realizzazione del piano Kalergi (1914-1946)
Molte furono le personalità della stampa, dell’alta finanza e della politica europea e mondiale che aderirono al Movimento Paneuropa con sede a Vienna: i maggiori quotidiani statunitensi: New York Times e New York Herald Tribune; Winston Churchill (1874-1965) più volte Ministro dal 1908 al 1922, Primo Ministro dell’Inghilterra dal 1940 al 1945 e dal 1951 al 1955; Hjalmar Schacht (1877-1970) Presidente della banca Tedesca; Konrad Adenauer (1876-1967) fondatore della Democrazia Cristiana Tedesca e Cancelliere della Repubblica Federale Tedesca dal 1949 al 1963; Robert Schumann (1886-1963) Primo Ministro francese dal 1947 al 1948 e fondatore della Democrazia Cristiana francese; Alcide De Gasperi (1881-1954), Segretario del Partito Popolare Italiano dal 1923 al 1925, poi Segretario della Democrazia Cristiana d’Italia dal 1944 al 1946, Primo Ministro dal 1945 al 1953, firmò il Trattato o il Diktat di Pace con gli Alleati nel 1947, fortemente criticato persino da Benedetto Croce; John Foster Dulles (1888-1959) Segretario di Stato degli Usa dal 1953 al 1959 sotto la presidenza Eisenhower; Edvard Benes (1884-1948) Ministro degli esteri della Repubblica Cecoslovacca dal 1918 al 1935, poi Presidente della Repubblica dal 1935 al 1938 e dal 1946 al 1948; Edouard Herriot (1872-1957) Primo Ministro della Francia dal 1924 al 1925 e nel 1932; Sigmund Freud (1856-1939) il fondatore della Psicoanalisi; Francesco Nitti (1868-1953) Primo Ministro dal 1919 al 1920; Benedetto Croce filosofo liberale, immanentista e Ministro del governo Badoglio di Salerno dal 1943 al 1945, deputato del Partito Liberale Italiano dal 1946 al 1948 (1866-1952).
Ultimi “dettagli” del piano Kalergi
Il Piano Kalergi consiste essenzialmente nella distruzione totale della Vecchia Europa, iniziata con la prima guerra mondiale, seguitata con la seconda e terminata con l’Europa Unita (2000) di Bruxelles e l’invasione di massa di milioni di musulmani provenienti dall’Africa (2015).
Kalergi aveva scritto che occorreva mischiare i popoli e le etnie europee con quelle asiatico/slave (ciò è avvenuto nel 1990 sotto il pontificato di Giovanni Paolo II) e africane ( e nel 2013-15 sotto Francesco I).
Il kalergiano ex Direttore dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) G. Brock Chisholm ha dichiarato: “tutti dovranno praticare la limitazione delle nascite e i matrimoni misti in vista di creare una sola razza in un mondo unificato e dipendente da un’autorità centrale” (USA Magazine, 12 agosto 1955).
Le invasioni della Vecchia Europa da parte dei popoli dell’Est, degli slavi, degli asiatici e dei musulmani africani non è un fenomeno spontaneo, ma era stata progettata da Kalergi ed è stata realizzata dai «Padri fondatori» dell’Europa Unita (1945-1989) e poi ultimata dai «figli “deficienti”» dell’Europa oramai distrutta (1990-2015) con l’avallo degli uomini di Chiesa, che dal Vaticano II in poi hanno sposato la filosofia della modernità. Non si possono tacere gli appoggi e le aperture di Giovanni XXIII e Paolo VI al Rotary, alla Massoneria, al Bené Berith, all’Onu e l’attivazione pratica di Giovanni Paolo II e Francesco I a favore dell’invasione di massa dell’Italia e della Vecchia Europa occidentale a partire dell’Est e dal Continente nero. Contra factum non valet argumentum. È triste doverlo ammettere ma è così e per il principio evidente di non-contraddizione non lo si può negare. La Repubblica e il Tempio Universali hanno agito di pari passo come aveva progettato l’Alta Vendita: “la Rivoluzione in cappa e tiara, fatta dal clero sotto un Papa secondo i nostri bisogni”.
Il termine della realizzazione del piano Kalergi
Nel 2010 il Cancelliere Federale tedesco Angela Merkel è stato insignito del Premio Kalergi, nel 2012 il premio è toccato al Presidente del Consiglio Europeo Herman van Rompuy. Oramai il piano non è più segreto e i suoi esecutori sono premiati pubblicamente.
Assistiamo, perciò, umanamente impotenti all’invasione finale dell’Italia e dell’Europa ultimamente anche da parte della manovalanza dell’Isis, benedetta dai politici (tranne poche eccezioni), dagli intellettuali politicamente corretti, dai giornalisti di regime e soprattutto dagli uomini di Chiesa teologicamente corretti,  anche qui con poche e rare eccezioni.
Conclusione
Come andrà a finire? Come in Siria, in Tunisia, in Libia. Solo il sangue dei martiri potrà cancellare questo delirio collettivo.
Noi, tuttavia, dobbiamo far quel che umanamente possiamo per impedire che ciò avvenga, ma soprattutto dobbiamo confidare nell’aiuto del Signore data l’imparità delle forze in campo, tenendo conto del cedimento e dell’arrendevolezza degli europei e dei loro capi nel subire o, addirittura, nel desiderare questo stato di cose: l’entrata del “cavallo di Troia” nella nostra terra coll’aggravante che ora Ulisse e i suoi soldati non sono nascosti nel ventre del cavallo, ma sono ben visibili a bordo degli scafi che noi andiamo a trainare e far attraccare sulle nostre coste e che i pochi Laoconte attuali sono derisi mentre ieri non erano presi in considerazione.
È pazzesco, ma è così. “C’è molta logica in questa follia” direbbe Shakespeare.
D’altronde un mondo che inizia con la folle affermazione di grandi filosofi secondo cui il pensiero crea la realtà (Cartesio, Kant, Hegel) non può non terminare nel delirio suicidario nichilistico (Nietzsche, Freud, Adorno, Marcuse, Sartre e sessantottini).
Stiamo raccogliendo ciò che abbiamo seminato. Ora “chi semina vento raccoglie tempesta”. Quindi prepariamoci ad un terribile tsunami, un “Diluvio di fuoco” (S. Luigi Grignion de Montfort).
Più attuale che mai, in questi tristissimi frangenti, risuona alle nostre orecchie questa bella preghiera del cardinal Alfredo Ottaviani:
“Maria ai nostri tempi: la Società moderna è travagliata da una febbre di rinnovamento che fa paura ed è infestata da uomini che si prevalgono di tanta nostra sofferenza per costruirvi l’impero dei loro arbìtri, la tirannide dei loro vizi, il nido delle lussurie e delle rapine.
Mai il male ha assunto caratteristiche tanto vaste e apocalittiche, mai abbiamo conosciuto altrettanto pericolo. Da un’ora all’altra noi possiamo perdere non la vita soltanto, ma tutta la civiltà e ogni speranza.
Sembra che anche a noi il Signore dica ‘non è ancor giunta la mia ora ’, ma l’Immacolata, la Madre di Dio, la Vergine che è l’immagine e la tutela della Chiesa, Essa ci ha dato, già a Cana, la prova di saper e poter ottenere l’anticipo dell’ora di Dio.
E noi abbiamo bisogno che quest’ora venga presto, venga anticipata, venga resa immediata, poiché quasi potremmo dire: ‘O Madre, noi non ne possiamo più! ’.
Per i nostri peccati noi meritiamo gli ultimi eccidi, le più spietate esecuzioni. Noi abbiamo cacciato il suo Figlio dalle scuole e dalle officine, dai campi e dalle città, dalle vie e dalle case. L’abbiam cacciato dalle stesse chiese, abbiamo preferito Barabba.
È veramente l’ora di Barabba […]. Con tutto ciò, fiduciosi in Maria, sentiamo che è l’ora di Gesù, l’ora della redenzione […]. Dica Maria, come a Cana: ‘Non hanno più vino ’; e lo dica con la stessa potenza d’intercessione e, se Egli esita, se si nega, vinca le sue esitazioni come vince, per materna pietà, le nostre indegnità.
Sia Madre pietosa a noi, Madre imperiosa a Lui. Acceleri l’ora sua, che è l’ora nostra. Non ne possiamo più, o Maria.
L’umana generazione perisce, se tu non ti muovi. Parla per noi, o silenziosa, parla per noi, o Maria! ” .
d. Curzio Nitoglia doncurzionitoglia.net
http://antimassoneria.altervista.org/kalergi-comenius-e-saint-yves-i-padri-del-nuovo-dis-ordine-europeo/
fonte: https://alfredodecclesia.blogspot.it

26/06/16

Alba Fucens


VIA DEI PILASTRI


ANFITEATRO


VEDUTA DEL SITO


RESTI DEL PONTE-SIFONE DELL'ACQUEDOTTO ROMANO


INTERNO DELLA CHIESA DI SAN PIETRO IN ALBE

è un sito archeologico italico, monumento nazionale dal 1902, nata come colonia di diritto latino, che occupava una posizione elevata e ben fortificata su 34 ettari (situata a quasi 1.000 m s.l.m.) ai piedi del Monte Velino. Il sito archeologico è compreso nel comune di Massa d'Albe (AQ), presso la frazione di Albe.

Il toponimo "Alba", assai diffuso nel mondo latino, deriva da una comune radice indoeuropea che significa "altura", ma anche "bianco". Secondo l'Olstenio il nome deriverebbe "dal campo all'intorno, sparso e pieno di sassi bianchi", e altri studiosi concordarono con tale ipotesi. Oggi invece, sulla base anche delle fonti storiche, si è convinti che il nome derivi da quello di Alba Longa, metropoli latina. Per quanto riguarda l'aggettivo "Fucens", questo si ricollega al nome del vicino Lago Fucino (in latino Fūcinus), a sua volta associato all'etnico Fūcentes, un appellativo dei Marsi che vivevano sulle sponde orientali del lago. I coloni di Alba Fucens erano detti Albensi, mentre Albani erano quelli della madrepatria, come dichiarano in maniera esplicita le fonti.

Storia

Origini e primo sviluppo della città

Fu fondata da Roma come colonia di diritto latino nel 304 a.C., o secondo altre fonti nel 303 a.C., nel territorio degli Equi, a ridosso di quello occupato dai Marsi, in una posizione strategica. Si sviluppava su una collina appena a nord della via Tiburtina Valeria, arteria che probabilmente fu prolungata oltre Tibur in questo stesso periodo. Inizialmente fu popolata da 6.000 coloni che edificarono, negli anni immediatamente successivi al proprio stanziamento, una prima cinta muraria. Costoro dovettero difendersi dagli attacchi degli Equi, che non potendo tollerare la presenza di una cittadella fortificata latina sul proprio territorio, tentarono, senza successo, di espugnarla.

Età repubblicana

Durante la Seconda guerra punica Alba inizialmente rimase fedele alla madrepatria e, nel 211 a.C., inviò un contingente di 2.000 uomini per soccorrere Roma verso cui si stava dirigendo Annibale, ma in seguito, assieme ad altre undici colonie (Ardea, Nepete, Sutrium, Carseoli, Sora, Suessa, Circeii, Setia, Cales, Narnia, Interamna Nahars) rifiutò di fornire ulteriori aiuti e fu punita.

Si trasformò successivamente in un posto dove confinare importanti prigionieri di stato, come Siface re di Numidia, Perseo re di Macedonia, Bituito, re degli Arverni. Grazie alla propria ubicazione, la città fu sempre considerata strategicamente importante, soprattutto durante le guerre civili. Per tale ragione fu attaccata dagli alleati durante la Guerra sociale, ma rimase fedele a Roma.

Nella lotta fra Silla e Mario, la città prese le parti di quest'ultimo. Al termine del conflitto, Silla, per punirla e nel contempo soddisfare le richieste di uno dei suoi luogotenenti, Metello Pio, distribuì ai veterani di quest'ultimo parte del territorio di Alba Fucens. Coinvolta nel conflitto fra Cesare e Pompeo, ospitò una guarnigione di sei coorti agli ordini di Lucio Domizio Enobarbo, del bando pompeiano, poi arresesi alle legioni del conquistatore delle Gallie.

Età imperiale

La sua prosperità, nel periodo imperiale, è testimoniata dalle iscrizioni trovate. Fra queste se ne segnala una di particolare importanza relativa al destino del vicino alveo del Fucino, emerso a seguito del primo prosciugamento del lago effettuato nel I secolo per volontà dall'imperatore Claudio. Alba Fucens è menzionata per l'ultima volta da Procopio di Cesarea che ci tramanda come, nel 537, venisse occupata dai bizantini durante la guerra gotica.

Area archeologica

Struttura urbana

Nel secondo dopoguerra furono intrapresi per la prima volta scavi sistematici per approfondire le conoscenze storiche e culturali sulla città. Vennero effettuati a partire dal 1949 da un gruppo di lavoro dell'Università di Lovanio guidata da Fernand De Visscher, seguita dal Centro belga di ricerche archeologiche in Italia diretto da Joseph Mertens. Ulteriori ricerche furono condotte a partire dal 2006 dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell'Abruzzo.

La città, situata fra i 949 e i 990 m s.l.m. è racchiusa entro una cinta muraria lunga circa 2,9 km conservatasi in gran parte fino ai giorni nostri. Le pareti esterne, sono costruite con massi poligonali perfettamente incastonati fra di loro e le superfici sono lisciate. Si segnala la presenza di una sola torre e di due bastioni a protezione di tre delle quattro porte principali. Su uno di tali bastioni sono presenti simboli fallici che dovevano servire ad allontanare le forze malefiche. Sul lato settentrionale era stata approntata, per una lunghezza di circa 140 metri, una triplice linea difensiva eretta in epoche diverse. La più antica fu probabilmente edificata dai primi coloni anche se c'è chi sostiene che potrebbe essere anteriore all'arrivo dei conquistatori romani. La città si iniziò a sviluppare all'interno della cinta muraria nel III secolo a.C. e raggiunse la sua massima espansione in età imperiale. La struttura viaria urbana, ancor oggi chiaramente identificabile, era basata sull'incrocio degli assi stradari principali, tipico di altre città di fondazione latina.

Edifici e luoghi di interesse

Nel centro dell'abitato era situato il forum (142 m di lunghezza per 43,50 di larghezza), su cui si affacciavano i più rappresentativi edifici pubblici cittadini: la basilica, dove si trattavano gli affari e si amministrava la giustizia, edificata con ogni probabilità fra la fine del II secolo a.C. e i primi decenni del secolo successivo; il macellum o mercato, della stessa epoca e, contigue ad esso, le terme, costruite in età tardo-repubblicana, ma ampliate in epoca imperiale. Queste ultime erano decorate con preziosi mosaici raffiguranti scene e soggetti marini. Ad Alba Fucens era presente anche un anfiteatro, di forma ovale che misura 96 metri per 79, e numerose case appartenenti al patriziato locale, fra cui una villa nota come Domus che, secondo un'ipotesi suggestiva, non corroborata da fonti, dovette essere di proprietà del Prefetto del Pretorio Quinto Nevio Sutorio Macrone, vissuto durante il regno dell'imperatore Tiberio.

Numerosi erano anche gli edifici religiosi sia nel centro urbano (Tempio di Iside, Sacrario di Ercole, ecc.) che sulla collina situata all'estremità occidentale dell'abitato. Quest'ultima era occupata da alcuni luoghi di culto, fra cui un tempio dedicato ad Apollo, trasformato in chiesa cristiana e ampiamente ristrutturato in età medievale, noto come la chiesa di San Pietro che contiene antiche colonne ed alcuni mosaici di fine fattura cosmatesca. È l'unica chiesa monastica in Abruzzo in cui la navata centrale è separata da quelle laterali da antiche colonne. Gravemente danneggiata dal terremoto del 1915, è stata oggetto negli anni cinquanta di uno dei migliori restauri mai effettuati precedentemente, attraverso un'anastilosi quasi completa, guidata da Raffaello Delogu.

Resti del ponte-sifone in località Arci e dell'acquedotto romano di Alba Fucens, costruito nel I secolo a.C. sono visibili lungo il percorso originario della struttura che collegava la colonia romana con la sorgente di Sant'Eugenia oltre il valico di Fonte Capo la Maina, sopra l'abitato della contemporanea frazione di Forme[15]. Di epoca moderna è invece la collegiata di San Nicola ad Albe, costruita con ogni probabilità utilizzando materiali provenienti dal sito archeologico limitrofo.

Chiesa Basilica di San Pietro in Albe

La chiesa fu costruita nel IX secolo sopra il tempio di Apollo dai monaci di San Clemente a Casauria. Nel XII secolo fu ampliata con la creazione di tre navate.

Il terremoto del 1915 ha distrutto gli arredi barocchi e gran parte della chiesa, ricostruita perfettamente negli anni 60 per anastilosi. La chiesa possiede le colonne del tempio originale e un ambone con iconostasi dell'Aquila romana.

Chiesa di San Nicola in Albe

Dal XVII secolo sostituì d'importanza la diroccata chiesa di Santa Maria in Albe situata alle porte della cittadella medievale di Albe. Dopo il sisma del 1915 venne ricostruita più in basso, nel nuovo borgo di Albe, con il riutilizzo dei ruderi di quella preesistente sul colle di San Nicola.

Albe Vecchia e roccaforte Orsini

Albe fu costruita nel medioevo presso Alba Fucens, e fu feudo degli Orsini (XIV secolo) che vi costruirono un castello, che doveva dominare il Fucino assieme ai castelli di Avezzano, Celano ed Ortucchio.

Il maniero sopravvisse fino al terremoto del 1915 quando fu danneggiato e abbandonato insieme al paese. Con la riscoperta di Alba Fucens il borgo di Albe, ricostruito più in basso ai piedi della collina di San Nicola, è tornato a nuova vita con la realizzazione di una scuola e di una via di accesso ai ruderi di Albe Vecchia e del castello.

Il castello è a pianta rettangolare con quattro torri, di cui solo una è scampata alla furia del sisma. Grazie alla torre superstite è possibile accertare il rimaneggiamento cinquecentesco con le tipiche merlature.

fonte: Wikipedia

20/06/16

Cristo della Minerva


PRESUNTA PRIMA VERSIONE A BASSANO ROMANO

è una statua marmorea (h. 205 cm) di Michelangelo Buonarroti, realizzata nel 1519-1520 circa e oggi conservata nella basilica di Santa Maria sopra Minerva a Roma.

Storia

Nel 1514 Michelangelo, sebbene fosse vincolato da un contratto di esclusiva con gli eredi Della Rovere per lavorare alla tomba di Giulio II, non rifiutava remunerative commissioni private, come quella ricevuta da Bernando Cencio, canonico di San Pietro in Vaticano, Mario Scappucci, Pietro Paolo Castellano e Metello Vari per un Cristo risorto, da collocare nella basilica di Santa Maria sopra Minerva.

L'artista lavorò alla statua con solerzia, ma in fase di ultimazione apparve una sgradevole venatura nera proprio sul viso del Cristo, invalidando l'intera opera.

Accantonata questa prima versione, l'artista, che nel frattempo era rientrato a Firenze, mise mano una seconda volta all'opera alla scadenza dei quattro anni previsti dal contratto, nel 1518, completandola e inviandola a Roma nel marzo del 1520. Accompagnò il lavoro l'allievo Pietro Urbano, che una volta sul posto portò a compimento l'opera in maniera così maldestra da allertare il maestro (sollecitato da Sebastiano del Piombo), il quale nonostante la sua sostituzione con il più capace Federico Frizzi non fu soddisfatto del lavoro finito e si offrì di scolpire una terza versione. Ma il Vari non volle aspettare ulteriormente rischiando di non ottenere niente, accontentandosi dell'opera finita e chiedendo solo, come compensazione, il dono della prima versione non finita.

La statua venne collocata in basilica il 27 dicembre 1521.

Descrizione

Cristo è raffigurato in piedi appoggiato a una croce (simbolica, senza le dimensioni di quella del martirio), mentre tiene anche la canna e la spugna con cui gli venne porto l'aceto e con il volto guarda nella direzione opposta. Il corpo, dal perfetto modellato anatomico, era originariamente nudo al completo: il drappeggio in bronzo dorato venne infatti aggiunto solo dopo il Concilio di Trento. La posa è estremamente studiata, con una torsione complessa ma efficace che dimostra la continua ricerca di Michelangelo verso nuove soluzione compositive.

Bibliografia

Umberto Baldini, Michelangelo scultore, Rizzoli, Milano 1973, pag. 98-100.
Marta Alvarez Gonzáles, Michelangelo, Mondadori Arte, Milano 2007

fonte: Wikipedia

16/06/16

Accademia dei Pugni e il Caffé

Le Accademie, luoghi deputati alla produzione intellettuale, nella seconda metà del settecento persero lo statuto elitario ed esclusivo che le aveva caratterizzate dalla loro nascita (fine del XV secolo) mantenendo però la funzione di centri d’incontro e di discussione. Con questo breve, ma allo stesso tempo intenso studio, faccio rotta verso la nascita dell’Accademia di Belle Arti di Brera sorta in quella che definiamo età della Ragione al fine di promuovere la conoscenza e raffinare il gusto ma anche, e questa è l’assoluta novità del tempo, per formare artigiani competenti che, dal commercio all’edilizia, necessitavano di impostare il proprio lavoro sul disegno (stampatori, tessitori di arazzi, decoratori, stuccatori, vetrai ecc.).
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Il generale rinnovamento di idee che attraversava l’Europa del XVIII secolo giunse anche in Italia contribuendo a formare un nuovo tipo di intellettuale che non considerava più la cultura come evasione bensì come impegno e contributo alla vita pubblica.
Con gli anni sessanta del settecento, Milano, che era stata fino ad allora una città significativa, ma appartata, dove non mancava una tradizione erudita religiosa legata alla Biblioteca Ambrosiana, vide emergere una nuova generazione di intellettuali che scavò un abisso tra le loro idee e quelle dei loro padri, portando avanti una radicale rivoluzione sociale e culturale dell’informazione a scala più che europea.
L’Illuminismo lombardo, in stretto rapporto con quello francese, ma consapevolmente non rivoluzionario e di orientamento moderato, si sviluppò nell’alveo del riformismo di Maria Teresa d’Austria (1717-1780) e Giuseppe II (1741-1790). I punti caratterizzanti erano allora quelli del riordino generale del sistema economico-giuridico del tempo (in accordo con le necessità della nascente borghesia imprenditoriale e contro l’immobilismo del sistema aristocratico), la polemica contro la tradizione culturale dei secoli passati, l’idea che gli intellettuali dovessero collaborare attivamente al progresso collettivo della società.

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L’imperatore Francesco I e l’imperatrice Maria Teresa con la famiglia su una terrazza a Schönbrunn, XVIII secolo. Martin van der Meytens, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
La Milano che nella metà settecento Maria Teresa d’Austria si trovò ad affrontare era una città fetida con fogne a cielo aperto che si riversavano nei navigli stagnanti che appestavano l’aria e provocavano infezioni mortali. Le case, del tutto prive di camini, erano senza vetri alle finestre con grondaie sporgenti dai tetti che spandevano l’acqua sulle strade costantemente infangate a causa della quasi totale mancanza di selciato, piene di escrementi lasciati dai cavalli e dai buoi che trainavano carri e carrozze. La situazione era certamente aggravata dalle pesanti guerre di secessione che per tutta la prima metà del settecento infierirono nel territorio lombardo e che ebbero fine con la pace di Aquisgrana del 1748, quando Milano tornò definitivamente sotto il dominio austriaco.
La prima grande riforma che Maria Teresa si apprestò ad affrontare fu quella di sistemare l’apparato statale. Decise di assumere dei funzionari di Stato, dei fidati collaboratori che scelse sia tra i borghesi che tra i nobili, che avevano il compito amministrare la giustizia e riscuotere le tasse e i contributi fiscali. L’uomo che organizzò in Lombardia le riforme di Maria Teresa fu Anton Kaunitz, cancelliere di corte dal 1753 e responsabile anche del Dipartimento d’Italia dal 1757 da cui dipendeva l’amministrazione del Ducato di Milano.

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Wenzel Anton von Kaunitz-Rietberg nelle vesti di cancelliere in un ritratto di Jean-Étienne Liotard del 1762.
In questo ruolo gli subentrerà nel 1766 sino al 1791 il tirolese Joseph Von Sperger.

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Giovan Battista Lampi – Ritratto del conte di Sperges, 1787, Vienna, Gemaldegalerie der Akademie der bildenden Kunste
Questi dignitari, colti e amanti delle arti, si trovarono ad operare in perfetta concordia d’intenti e progetti con il ministro plenipotenziario in Lombardia, il conte Carlo di Firmian, grande collezionista, che, dal 1759 al 1782 fu il concreto artefice delle riforme politiche quanto di una brillante promozione della cultura e di ogni attività artistica. La competenza artistica unita al sincero slancio ideale che accomunava questi tre grandi funzionari spiegano la singolarità e la qualità del neoclassicismo a Milano elaborato tra le grandi iniziative promosse dalla corte asburgica che dal punto di vista architettonico e urbanistico mutò profondamente l’aspetto della città.

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Martin Knoller – Ritratto del conte di Firmian, 1775 circa, olio su tela Mantova, Museo del Palazzo Ducale
Fu però di importanza ancora superiore per la circolazione sociale della cultura e per la diffusione dello spirito illuminista l’avvento di nuove forme di comunicazione che – dai giornali e dalle gazzette ai salotti aristocratici e borghesi – segnarono una svolta decisiva in questo campo. E’ bene ricordare che in concomitanza con i risultati delle prime riforme asburgiche si ebbe una specie di boom dell’editoria. Gli stampatori si moltiplicarono, le tirature dei libri aumentarono notevolmente, si diffusero le pubblicazioni periodiche di cultura generale, gazzettini, magazzini, giornali enciclopedici, spettatori, osservatori e via dicendo. Le più importanti pubblicazioni straniere venivano tradotte prontamente. Tutto questo insieme di pubblicazioni diventò lo strumento di maggior diffusione della cultura illuministica: gli intellettuali, non più legati alle corti o alle accademie, ma indipendenti, si fecero interpreti delle esigenze della nascente borghesia e la letteratura periodica diventò il mezzo di espressione privilegiato del dibattito culturale e politico. Non si trattò più dunque di un giornalismo erudito che forniva un riassunto imparziale degli eventi politici o dei libri recensiti, ma di un giornalismo che diventava critica militante, che non rilasciava più solo informazione, ma proponeva anche un’analisi della società, forniva giudizi, stimolava alla discussione e al dibattito.
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Il gruppo di letterati che animò la vita culturale Milanese dell’epoca gravitò inizialmente intorno all’Accademia dei Pugni, istituzione culturale fondata nel 1761 dei fratelli Verri, Beccaria ed altri intellettuali illuminati milanesi che si fece portavoce di un gusto moderno, anticonvenzionale ed antitradizionalista. Lo stesso Pietro Verri, nell’estate del 1763 racconterà “tutta la città era ripiena di questa favole, cioè che io e Beccaria ci fossimo dati de’ potentissimi pugni per decidere una questione; e siccome ci radunavamo a passare le sere con Longo e mio fratello e Lambertenghi e Blasco (il cognato di Beccaria) si diede il nome dal pubblico a questa adunanza l’Accademia dei pugni.”
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Benché avessero scelto il nome di Accademia lo spirito innovatore dei suoi giovani fondatori mal s’accordava con l’idea di un’Accademia in senso tradizionale, peraltro le accademie italiane erano ormai cadute, nell’opinione delle migliori menti europee del tempo, nel discredito più profondo.
“Le accademie, ben lungi dal salvare la cultura italiana dalla decadenza l’avevano accelerata, facendo prevalere la critica sulla creazione e il gusto sul genio e portando ad una sempre più profonda scissione tra letteratura e scienza.” (F. Venturi, Settecento Riformatore). Importava dunque a questi giovani tracciare una netta distanza da questo tipo di accademie, e il primo passo fu quello di rimarcare pubblicamente il loro intento di ricongiungere nuovamente arti e scienze, passione per le cose e quella per i calcoli. Era un piccolo gruppo di persone che godeva del piacere di tener vivo l’intelletto, alimentare il sapere ed affinare le idee. Queste esperienze non le vissero nelle rispettive famiglie che, anzi le disapprovavano ed intralciavano. Fu una scelta di campo e di gusto che radunava gli aristocratici scalpitanti, anche se è pur vero che essi, essendo i rappresentanti fortunati dell’oligarchia, non erano oppressi dal bisogno e quindi liberi di dedicarsi agli studi e di coltivare l’ideale.

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Antonio Perego, L’Accademia dei Pugni, 1766. Milano, collezione Luisa Sormani Andreani Verri
In questo quadro dipinto da Antonio Perego, della Collezione Sormani Andreani, sono ritratti quelli che sembrano dei graziosi e innocui figurini. In realtà il Perego dipinse proprio i soci dell’Accademia dei Pugni durante una delle solite sedute di lavoro e svago, che si tenevano ogni sera all’interno di una stanza, la stanza dalla stufa bianca, della lussuosa dimora cittadina dei conti Verrinobile famiglia milanese, sita in contrada del Monte di Santa Teresa (ora via Monte Napoleone ). A sinistra si vedono Alfonso Longo e Gianbattista Biffi, tutte e due in piedi, mentre Alessandro Verri e Cesare Beccaria sono seduti con un libro in mano; a destra Luigi Lambertenghi e Pietro Verri raccolti al tavolo mentre Giuseppe Visconti di Saliceto cammina leggendo; un’immagine dei giorni felici fissata per sempre.
Ed è in questo clima che nacquero gli scritti economici di Pietro Verri, l’opera “Saggio sulla storia d’Italia” (1761-66) di Alessandro Verri, “Dei delitti e delle pene” (1764) di Beccaria, che proponeva l’abolizione della tortura e della pena di morte, e che fu uno dei contributi più importanti dell’Illuminismo italiano. Il bilancio dell’attività dell’Accademia dei pugni è tutto riconducibile a queste opere. Poi venne il tempo di fare un passo avanti: bisognava creare uno strumento in cui le capacità organizzative, polemiche e letterarie dei Verri potessero essere condivise ed implementate dal contributo degli altri compagni. Fu così che, contemporaneamente alla stampa dell’opera di Beccaria, nel giugno del 1764 uscì il primo numero della rivista “Il Caffè” (verrà pubblicato ogni dieci giorni per due anni consecutivi) destinata a mandare in soffitta l’ormai anacronistica “Raccolta Milanese” (1756/57) considerata troppo arcaica, ridotta a pura curiosità perché specchio di un’Europa vecchia di due o tre generazioni.

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L’identità illuminista e lo spirito enciclopedico del “foglio periodico” milanese traspaiono non solo dalla varietà degli argomenti in esso trattati, ma anche dall’originale insieme di tecniche letterarie utilizzate dagli autori, in grado di armonizzare, in un’accattivante forma linguistica, le singole competenze ed esperienze scientifiche, politiche, economiche, giuridiche e spesso artistiche (in particolare teatrali). L’intera esperienza dell’illuminismo è contrassegnata da scritti nei quali la forma letteraria è sostanza politica; basti pensare al pamphlet, genere letterario ampiamente usato da Voltaire a scopi politici. Analogamente accade per “Il Caffè”, per il quale la ricerca di uno stile che potesse piacere ed essere compreso sia dal magistrato che dalle più vivaci donzelle dell’epoca rappresenta non solo una precisa scelta editoriale voluta da Pietro Verri e condivisa da tutti gli altri autori ma anche, se non soprattutto, la risultante formale di un preciso progetto politico: divulgare le idee e le conoscenze dei lumi associando un’efficacia espressiva vigorosa, ma anche prudente, con un tono spesso venato di raffinato umorismo, tale da rendere gli scritti ad un tempo penetranti e inattaccabili dalla censura.

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Una bottega del caffè inglese in un dipinto del XVIII sec.
Il titolo del periodico alludeva a uno dei luoghi simbolo del Settecento per la produzione e la diffusione del dibattito intellettuale, il caffè. Questo tipo di bottega si diffuse rapidamente partendo dall’Inghilterra in seguito alla circolazione della bevanda, alla quale vennero attribuiti grandi virtù salutari. Al suo interno, sui tavoli, a disposizione di tutti gli avventori, si trovava ogni tipo di pubblicazione, anche la stampa straniera. Mentre la taverna era il luogo dell’ebbrezza e del disordine, la bottega del caffè si propose come spazio adatto alla riflessione dove uomini appartenenti a qualsiasi ceto sociale, potevano leggere e discutere liberamente di argomenti vari spaziando dall’economia alla politica, dai libri alla moda, un luogo che si sostituiva al salotto e all’accademia, ambienti chiusi e riservati all’élite intellettuale e aristocratica.
I redattori de “Il Caffè” scrissero appunto con l’intenzione di essere letti in questi luoghi per suscitare il dibattito politico intorno alle riforme impugnate dai regnanti austriaci.
Lungi dal farsi divulgatori di dottrine, volte a mutare radicalmente le condizioni politiche e sociali del tempo, essi si proposero, applicando il razionalismo appreso attraverso la lettura degli Enciclopedisti, di esaminare al lume della ragione le consuetudini e le leggi e tutto quanto apparteneva alla vita pubblica, allo scopo di riformare tutto ciò che sembrava ingiusto o irragionevole, sebbene confermato da usi antichissimi. Accolsero e divulgarono qualunque novità, che sembrava giovare e promuovere il progresso morale o economico.
Gli articoli vennero presentati come fedeli trascrizioni delle discussioni tenutesi nella bottega del caffè di un certo Demetrio, personaggio fittizio di origine greca trasferitosi a Milano che non mancava di lasciare anche la sua opinione, e che rappresentava il modello ideale dell’intellettuale illuminista; non l’accademico ma neppure lo sprovveduto.

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Jean Huber, “Un dîner de philosophes”, 1772, Voltaire Foundation, Oxford.
La rivista uscì dal giugno 1764 fino al giugno 1766 per un totale di settantaquattro fogli. La prima tiratura non superò le cinquecento copie: un numero che oggi non sembra elevatissimo, ma che risulta estremamente ragguardevole se si pensa che altri periodici di vasta rinomanza europea scritti in francese, cioè nella lingua culturalmente egemone nel continente, non superavano, intorno alla metà del secolo, tre o quattrocento esemplari.
Ma proprio nel momento in cui raggiunse l’attenzione dell’opinione pubblica europea, il bel sodalizio si consumò e finì per sciogliersi. I giovani protagonisti raggiunsero posti direttivi come amministratori della cosa pubblica e si dispersero. Pietro Verri, Frisi, Beccaria e Longo entrarono a far parte dei funzionari milanesi dell’imperial regio governo, Alessandro si trasferì a Roma dove si occupò principalmente di teatro.
Nel “Caffè”, in soli due anni di attività, i nostri filosofi milanesi bruciarono rapidamente in un unico fuoco d’entusiasmo tutta l’esperienza illuministica europea traendo dal pensiero del proprio secolo tutto ciò che poteva servir loro per offrire, a chi avrebbe dovuto affrontare con l’autorità derivatagli dal potere assoluto, la riforma della società italiana.
Sebbene possa essere considerata come un’illusione giovanile, visto che non sfociò in tumulto rivoluzionario come accadde altrove, essi riuscirono a far sentire a lungo nei decenni, sino alle soglie del secolo XIX, la loro parola illuminata tant’è che la loro opera si può considerare testimonianza di come un’ideologia possa calarsi nell’organismo di una società, premere sull’opinione pubblica aiutandola a maturare culturalmente, per tentare di migliorarla senza temere, intellettualisticamente, di corrompere sé e i propri seguaci.
“Noi ringraziamo quelle anime gentili che si sono degnate d’applaudire al nostro progetto, e di fare coraggio a chi tentava di accrescere la coltura degli ingegni, e diminuire il numero de’ pregiudizi volgari.” Queste le ultime parole di commiato che gli uomini del “Caffè” lasciarono ai loro lettori.

Paola Mangano

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Che cos’è questo Caffè? (tratto da Il Caffè vol. 1, fasc. 1, giugno 1764)
Cos’è questo Caffè? È un foglio di stampa che si pubblicherà ogni dieci giorni.
Cosa conterrà questo foglio di stampa?
Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi Autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità.
Va bene: ma con quale stile saranno eglino scritti questi fogli?
Con ogni stile, che non annoj.
E sin a quando fate voi conto di continuare quest’Opera?
Insin a tanto, che avranno spaccio. Se il Pubblico si determina a leggerli, noi continueremo per un anno, e per più ancora, e in fine d’ogni anco dei trentasei foglj se ne farà un tomo di mole discreta: se poi il Pubblico non li legge, la nostra fatica sarebbe inutile, perciò ci fermeremo anche al quarto, anche al terzo foglio di stampa.
Qual fine vi ha fatto nascere un tal progetto?
Il fine d’una agradevole occupazione per noi, il fine di far quel bene, che possiamo alla nostra Patria, il fine di spargere delle utili cognizioni fra i nostri Cittadini, divertendoli, come già altrove fecero e Steele, e Swift, e Addison, e Pope, ed altri.
Ma perché chiamate questi fogli il Caffè? e lo dirò, ma andiamo a capo.
Un Greco originario di Citera, Isoletta riposta fra la Morea, e Candia, mal soffrendo l’avvilimento, e la schiavitù, in cui i Greci tutti vengono tenuti dacché gli Ottomani hanno conquistata quella Contrada, e conservando un animo antico malgrado l’educazione, e gli esempi, son già tre anni, che si risolvette d’abbandonare il suo paese: egli girò per diverse Città commercianti, da noi dette le scale del Levante; egli vide le coste del Mar Rosso, e molto si trattenne in Mocha, dove cambiò parte delle sue merci in Caffè del più squisito che dare si possa al mondo; indi prese il partito di stabilirsi in Italia, e da Livorno sen venne in Milano, dove son già tre mesi, che ha aperta una bottega addobbata con ricchezza ed eleganza somma.
In essa bottega primieramente si beve un Caffè, che merita il nome veramente di Caffè: Caffè vero verissimo di Levante, e profumato col legno d’Aloe, che chiunque lo prova, quand’anche fosse l’uomo il più grave, l’uomo il più plombeo della terra, bisogna che per necessità si risvegli, e almeno per una mezz’ora diventi uomo ragionevole.
In essa bottega vi sono comodi sedili, vi si respira un’aria sempre tiepida, e profumata che consola; la notte è illuminata cosicché brilla in ogni parte l’iride negli specchi e ne’ cristalli sospesi intorno le pareti, e in mezzo alla bottega; in essa bottega, chi vuole leggere, trova sempre i foglj di Novelle Politiche, e quel di colonia, e quei di Sciaffusa, e quei di Lugano, e varj altri: in essa bottega, chi vuol leggere, trova per suo uso e il Giornale Enciclopedico, e l’Estratto della Letteratura Europea, e simili buone raccolte di Novelle interessanti, le quali fanno che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi, o Lombardi, ora sieno tutti presso a poco Europei; in essa bottega v’è di più un buon Atlante, che decide le questioni che nascondono le nuove Politiche; in essa bottega per fine si radunano alcuni uomini, altri ragionevoli, altri irragionevoli, si discorre, si parla, si scherza, si sta sul serio; ed io, che per naturale inclinazione parlo poco, mi son compiaciuto di registrare tutte le scene interessanti, che vi vedo accadere, e tutt’i discorsi, che vi ascolto degni di registrarsi; e siccome mi trovo d’averne già messi in ordine varj, così li do alle stampe col titolo Il Caffè, poiché appunto son nati in una bottega di Caffè.
Il nostro Greco adunque (il quale per parentesi si chiama Demetrio) è un uomo, che ha tutto l’esteriore d’un uomo ragionevole e trattandolo, si conosce che la figura che ha gli sta bene, nella sua fisionomia non si scorge né quella stupida gravità che fa per lo più l’ufficio della cassa ferrata d’un fallito, né quel sorriso abituale, che serve spesse volte d’insegna a una timida falsità. Demetrio ride quando vede qualche lampo ridicolo, ma porta sempre in fronte un onorato carattere di quella sicurezza, che un uomo ha di se quando ha ubbidito alle Leggi. L’abito Orientale, ch’ej veste, gli dà una maestosa decenza al portamento, cosicché lo credereste di condizione signorile, anziché il padrone d’una bottega di Caffè, e conviene dire, che vi sia realmente una intrinseca perfezione nel vestito Asiatico in paragone al nostro poiché laddove i fanciulli in Costantinopoli non cessano mai di dileggiare noi Franchi, qui da noi, non so se per timore, o per riverenza, non si vede che osino render la pariglia a i Levantini.
Gli Europei, che si stabiliscono in quelle contrade vestono tutti l’abito o Armeno, o Greco, o talare in qualunque modo, né se ne trovano male, anzi rimpatriando risentono il tormento del nostro abito con maggior energia, in vece che nessun di casi, stabilendosi fra di noi nelle Città dove il commercio li porta, può risolversi a fare altrettanto[…].
Son pochi dì, dacché il nostro Demetrio ebbe occasione di parlar del suo mestiere, e ne parlò da maestro.
Si trovavano nel Caffè un Negoziante, un Giovane studente di Filosofia, ed uno dei mille e ducento Curiali, che vivono nel nostro paese; io stava tranquillamente ascoltandoli, non contribuendo con nulla del mio alla loro conversazione.
Il Caffè è una buona bevanda, diceva il Negoziante, io lo faccio venire dalla parte di Venezia, lo pago cinquanta soldi la libbra, né mi discosterò mai dal mio corrispondente; altre volte lo faceva venire da Livorno, ma v’era diversità almen d’un soldo per libbra.
V’è nel Caffè, soggiunse il Giovane, una virtù risvegliativi degli spiriti animati, come nell’oppio v’è la virtù assaporativa e dormitiva.
Gran fatto, replicò il Curiale, che quel legume del Caffè, quella fava ci debba venire sino da Costantinopoli! Qui Demetrio, il quale in quel punto era disoccupato, prese a parlare in tal modo:
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Il caffè “Procope” a Parigi nel XVIII secolo. Disegno di M.Kretz con immagini di famosi Illuministi (da sinistra a destra Buffon, Gilbert, Diderot, d’Alembert, Marmontel, Le Kain, Jean Batiste Rousseau, Voltaire, Piron et d’Holbach)
Storia naturale del Caffè.
Il Caffè, Signori miei, non è altrimenti una fava, o un legume, non nasce altrimenti nelle contrade vicine a Costantinopoli; e se siete disposti a credere a me, che ho viaggiato ed ho veduto nell’Arabia i campi interi coperti di Caffè, vi dirò quello che egli è veramente.
Il Caffè, che noi Orientali comunemente chiamiamo Couhè, e Cahua, è prodotto non da un legume, ma bensì da un albero, il quale al suo aspetto paragonasi agli aranci ed a’ limoni quand’hanno le loro radici fisse nel suolo, poiché s’alza circa quattro o cinque braccia da terra; il tronco di esso comunemente s’abbraccia con ambe le mani, le foglie sono disposte come quelle degli aranci, come esse sempre verdi anche nell’inverno, e come esse d’un verde bruno; di più l’albero del Caffè nella disposizione de’ suoi rami s’estende presso poco come gli aranci, se non che nella sua vecchiezza i rami inferiori cadono alquanto verso il pavimento.
Il Caffè cresce, e si riproduce con poca fatica anche nelle terre, le quali sembrerebbero sterili per altre piante; e in due maniere si moltiplica e col seme (il quale è quell’istesso che ci serve per la bevanda) e col produrne di nuove pianticelle delle radici.
È bensì vero, che il seme del Caffè diventa sterile poco dopo che è distaccato dall’albero, ed alla natura deve imputarsi, non alle pretese cautele degli Arabi se ei non produce portato che sia da noi, poiché non è altrimenti vero che gli Arabi lo risecchino ne’ forni, né nell’acqua bollente a tal fine, come alcuni spacciarono.
L’albero del Caffè finalmente s’assomiglia agli aranci anche in ciò che nel tempo medesimo vi si vedono e fiori, e frutti, altri maturi, altri no, sebbene il tempo veramente della grande raccolta nell’Arabia, sia nel mese di Maggio.
I fiori somigliano i gelsomini di Spagna, i frutti sembrano quei del ciliegio verdastri al bel principio, poi rossigni, indi nella maturanza d’un perfetto porporino.
Il nocciolo di esso frutto rinchiude due grani di Caffè, i quali si combaciano nella parte piena, e son nodriti da un filamento che passa loro al lungo, di che ne vediamo vestigio nel grano medesimo: si raccolgono i frutti maturi del Caffè scuotendone la pianta, essi non sono grati a cibarsene, si lasciano diseccare esposti al Sole, indi facendo passare sopra di essi un rotolo di sasso pesante si schiudono dopo i gusci, e ne esce il grano.
Ogni pianta presso poco produce cinque libbre di Caffè all’anno, e costa sì poca cura il coltivarla, ch’egli è un prodotto che ci concede la terra con una generosità che poco usa negli altri.
Nell’oriente era in uso la bevanda del Caffè sino al tempo della presa di Costantinopoli fatta da’ Maomettani, cioè circa la metà del secolo decimo quinto; ma nell’Europa non è più di un secolo da che vi è nota.
La più antica memoria che sen abbia è del 1644 anno in cui ne fu portato a Marsiglia, dove si stabilì la prima bottega del Caffè aperta in Europa l’anno 1671.
La perfezione della bevanda del Caffè dipende primieramente dalla perfezione del Caffè medesimo, il quale vuol essere Arabo, e nell’Arabia stessa non ogni campo lo produce d’egual bontà, come non ogni spiaggia d’una provincia produce vini di forza eguale.
Il migliore d’ogni altro è quello ch’io uso, cioè quello che si vende al Bazar, ossia al Mercato di Betelfaguy, città distante cento miglia circa da Mocha.
Ivi gli Arabi delle campagne vicine portano il Caffè entro alcuni sacchi di paglia, e ne caricano i Cammelli; ivi per mezzo dei Banian i forestieri lo comprano.
Comprasi pure il buon Caffè al Cairo, ed in Alessandria, dove vi è condotto dalle Carovane della Mecca.
I grani del Caffè piccoli e di colore alquanto verdastri sono preferibili a tutti.
Dipende in secondo luogo la perfezione della bevanda nel modo di prepararla, ed io soglio abbrucciarlo appena quanto basti a macinarlo, indi reso ch’egli è in polvo entro una Caffettiera asciutta lo espongo di nuovo all’azione del fuoco, e poiché lo vedo fumare copiosamente gli verso sopra l’acqua bollente, cosicché la parte sulfurea e oleosa, appena per l’opera del fuoco si schiude della droga, resti assorbita tutta dall’acqua; ciò fatto lascio riposare il Caffè per un minuto, tanto che le parti terrestri della droga calino al fondo del vaso, indi profumata altra Caffettiera col fumo del legno d’Aloe verso in essa il Caffè che venite a prendere, e che trovate sì squisito.
Il Caffè rallegra l’animo, risveglia la mente, in alcuni è diuretico, in molti allontana il sonno, ed è particolarmente utile alle persone che fanno poco moto, e che coltivano le scienze.
Alcuni giunsero perfino a paragonarlo al famoso Nepente tanto celebrato da Omero; e si raccontano de’ casi nei quali coll’uso del Caffè si son guarite delle febbri, e si son liberati persino alcuni avvelenati da un veleno coagulante il sangue; ed è sicura cosa che questa bibita infonde nel sangue un sal volatile, che ne accelera il moto, e lo dirada, e lo assottiglia, e in certa guisa lo ravviva.
Questa pianta animatrice, naturale per quanto sembra al suolo dell’Arabia, fu verso il fine dello scorso secolo dagli Olandesi trasportata nell’Isola di Java a Batavia, indi moltiplicatasi, ivi se ne dilatò dai medesimi la piantagione anche nell’Isola di Ceylan, poscia col tempo se ne portò in Europa; e in Olanda, e in Parigi per curiosità se ne coltivano le piante, le quali nelle serre riscaldate l’inverno reggono e producono frutti, e tanto sen è universalizzata la coltura presentemente, che nell’America, e nell’Indie Orientali se ne fa la raccolta, cosicché abbiamo Caffè di Surinam, dell’Isola Bourbon, di Cayenne, della Martinica, di S. Domingo, della Guadalupa, delle Antille, dell’Isola di Capo Verde.
Il Caffè d’Arabia è il primo, quello dell’Indie Orientali vien dopo, il peggiore d’ogni altro è quello d’America.
Così terminò di parlare Demetrio, ed io credetti al suo discorso, poiché lo trovai conforme a quanto ne aveva letto nelle Memorie dell’Accademia Reale delle Scienze di Parigi dell’anno 1713 in un Memoire del Sig. Jutricu, a quanto ce ne attestano i Viaggi dell’Arabia felice del Sig. La Roque, del Cav. Di Marchait, le Memorie del Sig. Garcin.
Ma poiché ebbe terminato il suo ragionamento Demetrio, s’alzò il Curiale, e uscì dalla bottega ripetendo: Gran fatto, che quel legume del Caffè, quella fava, ci debba venire sino da Costantinopoli.

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Bibliografia

-Letteratura italiana e cultura europea tra illuminismo e romanticismo, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Padova-Venezia 11-13 Maggio 2000, a cura di Guido Santato
– Il trionfo dell’ornato-Giocondo Albertolli (1742-1839), a cura di Enrico Colle e Fernando Mazzocca, Silvana Editore 2005
– Storia d’Europa, Età Moderna, Giuseppe Galasso, CDE S.p.A. Milano 1998
– Quel che il cuore sapeva – Giulia Beccaria, i Verri e Manzoni, Marta Boneschi, Ledizioni 2012
– Milano, l’avventura di una città, Marta Boneschi, Mondadori 2007
– La politica del “Caffè”, Riccardo Lenzi, Tesi di laurea in Storia della Filosofia, anno accademico 2003/2004
– Gli illuministi lombardi, Sergio Romagnoli, dall’Introduzione a Il “Caffè” Milano, Feltrinelli 1960
– L’Illuminismo lombardo e la politica de “Il Caffè”, Laura Zecchi

fonte: https://passionarte.wordpress.com

15/06/16

Eleonora Brigliadori dopo il Costanzo Show: "mi hanno censurata"

Dopo l’intervista in parte tagliata e censurata al Costanzo Show, Eleonora Brigliadori ha deciso di raccontare tutta la verità su facebook che voleva dire ai telespettatori, ma non ha potuto dire:
“Ecco quello che davvero è successo al Costanzo Show e che nessuno delle centinaia di siti che oggi hanno riportato la notizia ha avuto il coraggio di dire…in sala c’erano comunque più di mille persone che lo hanno sentito anche senza microfono… se questi falsi giornalisti facessero davvero il loro lavoro come sarebbe facile capire la verità!!!
Questo per dimostrarvi la censura sistematica che esiste in Italia, anche in un programma apparentemente liberale come questo.
L’intervento che ha causato la mia reazione, era legato alle cure chemioterapiche sulle quali come sapete ho preso posizione da molti anni, avendo perso mia madre di chemioterapia e mia nonna e decine di altre persone che non sono morte di cancro, come nel caso della povera Karina, ma di veleni propinati con l’autorizzazione del Ministero della Sanità attraverso i protocolli obbligatori.
Il nostro ex ministro della Salute ha ucciso con la sua connivenza diverse persone che io conosco con cure sbagliate… non si poteva ancora dimostrare questo fatto qualche anno fa… ma grazie alle ricerche della Nuova Medicina di Dott Hamer (foto) oggi risulta evidente che tutte le persone che sviluppano metastasi dimostrano errori terapeutici.
Quando siamo di fronte a un tumore se il tumore viene accolto attraverso la comprensione delle cause e la loro risoluzione, se le persone non vengono spaventate e massacrate da continui interventi devastanti , il tumore regredisce spontaneamente.
Lo hanno dimostrato gli stessi medici negli studi dianatomo patologia dove trovavano centinaia di tumori regrediti da soli solo perché le persone non sapevano di averli!!!!
Il sistema medico ha creato invece una compressione psichica un’ ipnosi collettiva che permette alle persone di farsi manipolare le convincono a subire una violenza inaudita in senso chirurgico e poi accettando un falso uso terapeutico facendosi mettere nel sangue dei veleni che poi chiedono il conto.
Se guardiamo la strage dovuta alla chemioterapia da decine di anni ormai, superiamo il numero delle vittime dei campi di concentramento: allora ci fu un processo per crimini contro l’umanità a Norimberga, io chiedo lo stesso processo per queste persone che hanno continuato a fare il male quando la verità era pubblicata da oltre vent’anni… hanno continuato a propinare cure sbagliate pur sapendo di causare la morte.
Questo il motivo dalla mia uscita di scena e poi sono tornata perché rispetto il pubblico più dei cani da guardia di un potere che ormai è agli sgoccioli e ho potuto dire ancora alcune cose che oggi hanno portato qui sulla mia pagina altre migliaia di persone che ormai hanno capito che chi è “fuori di testa” in questo tempo…non sono certo io!
Quello che ho detto al Costanzo Showè che sto aspettando un processo per crimini contro l’umanità all’indirizzo di questo mefistofelico medico che non voglio neanche nominare, che ha creato un istituto sulla pelle della gente lo faccio in nome di Lucia Rippo di Daniela Zanatta solo per citare le ultime persone che ho visto distruggere un po’ alla volta dalle sue false cure.
Adesso avendo perso clienti, allo IEO si è inventato la macchina che radia le persone, che credono di fare qualcosa di utile… ma che si procurano dei danni ancora più micidiali alle loro forze… danni sempre più subdoli da verificare nell’immediato, ma che nelle prossime incarnazioni produrranno generazioni di minorati…e lo dico davvero con una stretta al cuore…
Avendo detto questo, il servo del potere di nome Costanzo, ha fatto in modo di chiudere il mio microfono, io mi sono alzata e me lo sono strappata da sola… e ho detto che non sarei rimasta lì a fare la statuina muta…. ovviamente poi hanno tagliato il mio intervento…
…e non si capiva come mai dicessero che avrei dovuto scusarmi con quell’infamante personaggio che ha fatto morire di crepacuore anche il saggio dottor Di Bella….
Con chi si sarebbe dovuta scusare la Brigliadori?
Con quelli che le hanno ucciso amici e parenti ????
Non sarebbe forse questa gente che ha campato sulle nostre vite a doversi scusare con l’Italia intera… con l’umanità, con la scienza venduta alle farmaceutiche che si nutrono di cadaveri…non dovrebbe essere questa categoria di falsi professori a scusarsi con noi..persone che hanno finto di non vedere la verità????
Forse passeranno ancora degli anni perché ci sia questo processo…
Ma quello che oggi dico verrà fuori e verrà provato scientificamente e verranno dimostrati gli intrallazzi economici che hanno mantenuto questo omertoso silenzio…
Come in questo caso..si cerca di buttarla in baruffa, ma io non ho mai perso il controllo…che io mi sia curata senza medici non è che l’effetto di questa realtà e io sono la prova vivente di quello che sostengo…
Ho smesso per sempre di temere il tumore o il cancro ho imparato a controllare il mio corpo astrale attraverso la meditazione e oggi chiunque lo volesse potrebbe far regredire da solo i tumori più diversi…
Unendo l’antroposofia con la sua conoscenza iniziatica a quanto dimostrato da Dott Hamer….. e non potranno dire che io non sono stata una di quelle persone che volontariamente in pena libertà e non per interessi privati… ha fatto in modo che la verità venisse finalmente scoperta.
http://altrarealta.blogspot.it/