30/08/18

l'omicidio massonico. Parte 6. L'omicidio dei bambini

Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah.

1. Premessa.

2. Nel nome di Ishmael. I moventi dell'omicidio di minorenni.

3. Alcune considerazioni sul caso Yara e Sarah.

4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara.


1. Premessa. 

Una delle domande più frequenti che mi fanno i lettori (ed è per questo che mi decido a scrivere un articolo come questo) è questa: “Ok, passi che la massoneria uccida i testimoni di Ustica, che sequestri Moro uccidendone la scorta, ecc., ma che interesse ha ad uccidere Sarah Scazzi, o Yara Gambirasio? Che interesse ha ad uccidere una famiglia, nel delitto di Erba?” Con questo articolo rispondo anche alla domanda “perché non ti occupi di Sarah e Yara?”. La risposta non è semplice perché non esiste un’unica risposta. La massoneria è un’organizzazione complessa, e ramificata, e dunque estremamente complessi e ramificati sono i suoi fini.



Faccio spesso il parallelo con la mafia. Alla domanda “che interesse ha la mafia ad uccidere?” la risposta non potrebbe essere unica. La mafia uccide per sopprimere testimoni, per uccidere poliziotti o magistrati scomodi, persone che tradiscono, pericolose, scomode, a fini estorsivi, o anche solo per lotte di potere interno. Le motivazioni degli omicidi massonici sono ancora più complesse, e per certi versi incomprensibili secondo la logica comune. Una volta che relativamente ad un delitto si trovi la simbologia massonica, e una volta quindi individuato il delitto come “massonico”, ciò non ha alcuna utilità, perché non serve per individuare esecutori, mandanti e movente. Così come capiamo che una persona è stata uccisa dalla mafia, se il delitto avviene a Palermo, in pieno centro, con una raffica di mitra al volto, oppure se troviamo una persona incaprettata, ma tale comprensione ancora nulla ci dice dell’assassino e del movente, così trovare simboli massonici sulla scena di un delitto ha una valenza pratica pari a zero. Quindi, individuare simboli e numerologia massonica nel delitto di Avetrana e Brembate non serve a nulla. Una volta spiegato ai lettori, coi precedenti articoli, la simbologia base di un delitto massonico, infatti, ciascun lettore di questo blog ha potuto capire da solo che erano delitti firmati dalla Rosa Rossa e non c’era bisogno di un mio articolo per spiegare ciò che hanno capito tutti. Impossibile, invece, capire per ora i moventi o anche solo individuare potenziali colpevoli. Un discorso generale su questi omicidi, però, possiamo farlo.


2. Nel nome di Ishmael. I moventi. 

Da poco mi è capitato di leggere un romanzo di Giuseppe Genna, dal titolo “Nel nome di Ishmael”, che parla proprio dell’omicidio dei bambini. L’autore nel romanzo narra di un’organizzazione internazionale, Ishmael, che è dietro agli omicidi di molti bambini, e dietro al traffico internazionale collegato al caso Dutroux, come dietro al delitto di Lady Diana o al delitto Moro. I delitti dei bambini sono compiuti per propiziarsi forze esoteriche relative a grandi eventi di portata nazionale o internazionale. In altre parole, ogni delitto è un sacrificio umano compiuto per collegarlo esotericamente e simbolicamente, a vicende come il delitto Mattei, il sequestro Moro, ecc. Leggendolo ho capito che l’autore parlava della Rosa Rossa, e parlava di fatti reali, non inventati. Il libro è scritto da una persona addentro a queste cose, essendo stato consulente della commissione P2 e della commissione stragi. Facciamo quindi parlare uno dei protagonisti del romanzo. Ne trascrivo i dialoghi più importanti. Alla domanda “perché Ishmael uccide?” il protagonista risponde: “Con Ishmael il significato si chiarisce a distanza di anni. Bisogna aspettare. Ci sono altre realtà, superiori al piano politico. Sono realtà spirituali e queste realtà guidano il piano politico occultamente. Realtà che a noi sembrano religiose. E’ chiaro uno dei meccanismi rituali di Ishmael: in vista di ogni attentato importante viene compiuto il sacrificio di un bambino”. Occorre quindi aspettare anni, spesso aspettare una serie di delitti, per capirne il significato. Ad esempio, per capire i moventi nella vicenda del Mostro di Firenze ci sono voluti decenni. Nel delitto di Cogne ci sono voluti molti anni per capire il significato completo della vicenda (anche se la Carlizzi c’era arrivata subito; nel mio caso però ho impiegato due anni perché non riuscivo a leggerne i simboli esoterici che mi sono stati chiari solo dopo molto tempo).


3. Alcune considerazioni su Yara e Sarah. 

Il libro di Genna riassume quindi perfettamente la logica rituale dietro all’omicidio dei bambini compiuto dalla Rosa Rossa. Per Sarah e Yara occorrerà aspettare ancora per capire a cosa sono collegati questi omcidi. Probabilmente occorrerà aspettare una terza vittima, che questa volta, per i motivi che stiamo per dire, potrebbe essere violentata. Partiamo da queste considerazioni. La ritualità di questi due omicidi è chiara. L’assonanza dei nomi Sarah e Yara, accomunate da quell’ara finale, che ricorda la parola altare. Il loro corpo è, quindi, un altare sacrificale. Il fatto che Sarah sia scomparsa il 26 agosto; il 26 novembre dopo tre mesi esatti scompare Yara, che verrà ritrovata il 26 febbraio, ancora una vola dopo te mesi dalla scomparsa. Il 26 che ritorna in questi delitti, è un numero fondamentale per la Cabala, perché rappresenta la valenza numerica del nome di Dio. Cabalisticamente la parola Yahvè (YHWH), dà come somma proprio il numero 26. Abbiamo poi il ritrovamento del corpo di Yara nel campo di proprietà della ditta Rosa & C., mentre le rose erano in bella mostra anche nel cancello che dava sul cortile di casa Misseri. Anche il parroco, ai funerali di Yara, ha fatto un’affermazione incomprensibile ai “non iniziati”, e che tutti i giornali, manco a dirlo, hanno ripreso: Yara è come Santa Maria Goretti. Non posso dire se il parroco l’abbia fatto apposta o meno; ma certo non è casuale che questa affermazione abbia fatto il giro dei mass media, in quanto Santa Maria Goretti ha come simbolo il Giglio. Abbiamo insomma un’infinità di indizi che fanno capire che si tratta di un delitto rituale. Gli indizi più importanti poi, oltre quelli simbolici, sono costituiti dal nome delle persone coinvolte, il livello degli avvocati che si interessano alla vicenda, assolutamente sproporzionato per un delitto di matrice solo sessuale, da cui desumiamo che il livello degli interessi in gioco è molto alto. Occorre considerare che spariscono in Italia oltre 1000 minorenni all’anno. 1033 nel 2009, per la precisione. Queste poi sono solo le cifre ufficiali, che non tengono conto di tutte le sparizioni dei bambini figli di Rom, quindi non registrati all’anagrafe, o entrati clandestinamente in Italia, che fanno salire la cifra almeno al doppio. La Rosa Rossa, e l’internazionale dei pedofili, è dietro a molte delle sparizioni di bambini, anche di quelle che non compaiono sui media. La differenza tra un delitto che non fa rumore e uno che assume rilevanza mediatica, è solo nel tipo di destinatario e nell’importanza del rito. Molti bambini spariscono per finire nel traffico di organi, nei riti satanici, negli snuff movies. Quando dietro alla morte di un minorenne invece si solleva un caos mediatico delle proporzioni di Yara e Sarah, vuol dire che tale evento è collegato a qualcos’altro di proporzioni nazionali o internazionali. Nel caso di Yara, per esempio, il cui significato è “primavera”, potrebbe trattarsi di un evento molto importante che avverrà in primavera (una guerra, una catastrofe, ecc…); collegando questo nome con quello di Sarah (che nella Bibbia è la sposa di Abramo e quindi colei che partorisce il popolo eletto), c’è la possibilità che l’evento avverrà nel Medio Oriente. E’ probabile anche che debba avvenire un terzo delitto e che il percorso seguito sia, simbolicamente e in codice, nella “Nascita di Venere” del Botticelli. Sulla destra del quadro infatti c’è la Primavera, coperta di fiori e piante varie (e Yara è stata trovata ricoperta da arbusti). Al centro c’è Venere, che assimiglia in modo impressionante a Sarah, ed è rappresentata nuda dentro una conchiglia, davanti al mare (e ricordiamo che Sarah stava andando al mare prima di essere uccisa). Se questa ipotesi fosse vera, mancherebbe un terzo delitto, che dovrebbe simbolicamente ricordare la figura alla sinistra del quadro. L’ipotesi del collegamento di questi delitti alla Nascita di Venere è stata formulata da una persona che conosco ed è una possibilità, non una certezza. Ma la percentuale di probabilità che l’ipotesi sia plausibile è aumentata il giorno che ho notato che nel libro di Mario Spezi “Il passo dell’orco”, che parla di due omicidi di due bambini, edito da Hobby&Work e ancora una volta collegato al Mostro di Firenze e altre vicende reali, è citato proprio quel quadro. E Mario Spezi è uno che di omicidi di bambini e Rosa Rossa se ne intende. Resterebbe poi da spiegare esattamente il significato di questo quadro, ma la spiegazioni ufficiali non mi convincono per niente, come non mi convincevano quelle relative alla Primavera del Botticelli. Mi convinsi invece della bontà delle teorie di Lino Lista (che le ricollegava al canto 28 del Purgatorio di Dante), perché erano le uniche che spiegavano ogni dettaglio fin nei minimi particolari. Quanto al simbolo esoterico trovato sulla schiena di Yara, secondo il simbolista Carpeoro questa potrebbe essere la Croce di Sant’Andrea, che è la firma di una società che si ricollega agli Illuminati. Potrebbe contemporaneamente rappresentare la firma di colui che ha compiuto il “capolavoro”, rappresentando le lettere MR secondo la simbologia alfabetica della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fine dell’800. Queste però sono solo congetture. Quello che è certo, ancora una volta, è che i mass media hanno orchestrato un immenso baraccone mediatico, chiamando sempre i soliti esperti, che sentenziano sempre le stesse cose, come ai tempi del Mostro di Firenze: un serial killer isolato (per Yara); o al massimo un contadino (ieri Pacciani, oggi Michele Misseri). Un killer abilissimo che ieri riusciva ad uccidere sedici vittime, alcune delle quali proprio sotto il naso degli inquirenti, e facendola sempre franca, mentre oggi riesce a piazzare un cadavere in un centro abitato, senza lasciare la minima traccia. Il tutto mentre gli inquirenti commettono un errore dopo l’altro in modo plateale (oggi non mettendo immediatamente sotto sequestro il garage di Misseri, ad esempio, oppure non vedendo un cadavere in bella mostra in un campo, per giunta a poche centinaia di metri da dove partivano le ricerche; ieri mettendo in galera sempre persone diverse, e tutte immancabilmente poi rivelatesi innocenti). Un’altra cosa certa è che anche qui la verità si saprà solo tra molti anni. E l’altra cosa certa è che:

“Ishmael non sbaglia mai. Sul lungo periodo non sbaglia mai. Tutto quello che riusciamo a fare è ritardare i suoi risultati”. --------------------- PS. Un giorno poi ci sarebbe da approfondire il motivo per cui vanno in galera sempre contadini, casalinghe, e spazzini (come Olindo Romano). Mai avvocati, notai, magistrati, medici, giornalisti, ecc. Nino Filastò nel suo libro “Storia delle merende infami” dice una cosa giusta (una delle poche, credo, di tutto il depistante libro). Che i laureati in genere non pagano mai per i loro delitti e la galera è piena di analfabeti. Uno dei pochi a farsi la galera (ma solo qualche giorno) fu proprio Mario Spezi, anni fa, per soli 23 giorni. Ma questo sarà oggetto di un altro articolo, in futuro. ---------------------------------------------------------------


4. Allegato. Primi appunti sul simbolo trovato sul corpo di Yara.

di Gianfranco Carpeoro.

Caro Paolo ho avuto modo di vedere tanto il tuo post quanto il simbolo inciso sulla schiena della piccola Yara. Ovviamente mi sono messo subito al lavoro e il mio primo pensiero è stato quello di verificare tutte le rispondenze letterali della segnatura. La X è simbolo esoterico in quanto descrive la rotazione del mondo, in antiche lingue accadiche e mesopotamiche significa protezione, nel cristianesimo è simbolo del supplizio di Andrea, fratello di Pietro che richiese di essere crocifisso su una croce che non fosse esattamente uguale a quella del Cristo. Il simbolo = è invece presente solo in senso numerico, tra i sumeri veniva usato per indicare il numero due, ma i due simboli non viaggiavano insieme. Poi ho riflettuto sulla circostanza che il simbolo è stato inciso con una punta acuminata, credo, sulla schiena della vittima e ciò è una pratica di cui ho riconosciuto una fonte. Tra le logge di scalpellini e di muratori del Medioevo che hanno poi dato origine alla Massoneria, nella costruzione delle grandi cattedrali di quell’epoca, era d’uso che ogni “artista” firmasse la pietra, specialmente quella d’angolo o la chiave di volta, che aveva levigato e montato. Questi segni si chiama “lapicidi” e molti studi sono stati effettuati su di essi. Te ne accludo un esempio, ogni scalpellino sceglieva il suo marchio tramite una figurazione del tipo che vedi, ma a volte è riscontrabile che siano state adoperate le iniziali stilizzate. Ne ho esaminati un’infinità, non ne ho trovato alcuno che possa aiutarci, ma mi sono convinto che la modalità dell’assassino sia identica. Quindi, a mio avviso, quella è la sua firma, lui ha firmato il “capolavoro”. Questo mi induce a credere anche che si tratti di un personaggio isolato, visto che la firma in tal caso sarebbe singola, come era d’uso, ma non ne sono sicuro, ovviamente. Comunque, poiché la tradizione dei lapicidi è ben conosciuta tra i massoni, specialmente di alto grado, anzi è vissuta come tradizione da proseguire con la firma delle “tavole”, interventi scritti che si presentano in tempio durante le ritualità massoniche a questo punto mi sono messo a caccia di alfabeti massonici. Ciò anche perché la tradizione di sovrapporre due simboli separati, facendone uno è tipicamente massonico o premassonico, squadra compasso, rosa e croce, falce e martello (simbolo creato da un massone tedesco) ecc. Ne possiedo tanti e c’è voluto del tempo. Ne ho trovato uno solo, uno solo dove ci sono tanto la X che il = ed è l’Alfabeto della Società Guelfa, una delle tante associazioni paramassoniche sorte alla fin dell’Ottocento. Di seguito te lo pubblico intero ma le righe dell’alfabeto che riportano i simboli che ci interessano sono due e la colonna che ci interessa è quella dell’alfabeto nuovo. In tale codificazione infatti il simbolo = risulta corrispondere alla lettera M e il simbolo X risulta corrispondere alla lettera R. Ma non finisce qui. Nella mia ricerca, secondo le mie reminiscenze, ho verificato anche la Società Romantica ovvero il 34° grado della Massoneria. Si tratta degli Illuminati Romantici, associazione che risulta costituita anche in Italia da un manoscritto, conservato presso l’archivio Storico di Firenze. Riguardo a tale associazione segreta risulta che i suoi atti sarebbero stati anche pubblicati molti anni fa ad opera di una non meglio precisata loggia massonica, guarda caso di Firenze (!) la Concordia. Il testo del manoscritto, pubblicato un Italia da una casa editrice che non esiste più, Convivium, nel testo “Rituali e Società Segrete” te lo accludo integralmente segnalandoti le righe che ti ho evidenziato in rosso e cioè queste: Allorché uno di essi si trova in un pubblico albergo, incide sopra una tavola, o forma in un altro luogo visibile, una Croce di Sant'Andrea; doppia X se il trattamento è stato cattivo; tripla se è stato ben servito. E successivamente Hanno un segno per riconoscersi e questo consiste nel fare col dito indice della mano sinistra una Croce di S. Andrea, cioè un X. sopra una tavola, o in qualunque modo che loro fa comodo, ovvero descriverla in aria. Interessante vero? La Croce di Sant’Andrea è il simbolo e la firma di questa associazione che evoca gli Illuminati… Questo è quanto è emerso finora, caro Paolo, nei prossimi giorni cercherò di andare avanti per vedere se salta ancora fuori qualcosa d’altro. Tieni presente che la Croce di Sant’Andrea fa parte anche del simbolo di un grado del Rito Scozzese, ma questi la incidono e poi fanno parte per definizione della famiglia degli Illuminati… Se vuoi pubblica pure questa ricerca nelle forme che meglio credi, a mio nome o a tuo, o magari fanne la base per tue ulteriori ricerche, a me sembra un strada interessante. Un Abbraccio Carpeoro 

Fonte tratta dal sito .

fonte: http://wwwblogdicristian.blogspot.it/

28/08/18

Monument Valley, il West


L’immagine tipica e inconfondibile del selvaggio West, nell’immaginario globale, è rappresentata da paesaggi desertici e rossastri intervallati da colonne, guglie, pinnacoli e torri di arenaria dalla caratteristica cima larga e piatta. Sono i paesaggi di un ben preciso luogo del mondo, un luogo abitato dagli uomini fin da tempi molto antichi ma paradossalmente dimenticato per quasi un secolo e riscoperto dall’occidente, e soprattutto dal cinema che ne ha fatto una icona, in tempi molto più recenti. Meno di un secolo fa, a metà degli anni trenta del novecento. 


La storia parte una decina di anni prima, negli anni venti, quando una coppia di “occidentali”, Harry Goulding e sua moglie Leone detta ‘Mike’, decidono di trasferirsi in una zona fra l’Arizona e lo Utah, in territorio Navajo, a quasi cento chilometri dalla più vicina città, per allevare pecore lontani dalla civiltà industriale che sta prendendo il sopravvento nel paese. 


Il loro rapporto con i nativi, che sono in qualche modo nuovamente proprietari del territorio da quando nel 1868 gli fu “concesso” di tornare a vivere nei loro luoghi di origine dopo esserne stati cacciati con la violenza, é di rispetto e collaborazione. I coniugi Goulding imparano ad apprezzare lo stile di vita, la cultura e il rapporto con la natura tipico dei Navajo, e comprendendo le loro difficoltà di sopravvivenza in un mondo sempre più occidentalizzato cominciano a collaborare con loro aiutandoli a sviluppare un buon commercio basato sui loro prodotti artigianali (collane d’argento, tappeti) e si organizzano per fornire loro medicinali e altri generi di prima necessità. Diventano così parte della comunità Navajo, contribuendo a mantenere l’indipendenza, e con essa l’integrità e l’isolamento, di quella popolazione e di quel territorio. Da quando infatti quelle zone, quasi un secolo prima, sono state riconsegnate ai nativi, il mondo occidentale impegnato in tutt’altre faccende se ne è praticamente dimenticato. Pochi le conoscono, pochi ci si avventurano. 


Uno dei pochi e sicuramente uno dei primi, nel 1935, è un fotografo di origine tedesca. Si chiama Joseph Muench, personaggio con una storia che meriterebbe un altro racconto a parte. Inutile dire che rimane incantato dalla selvaggia e monumentale bellezza di quei luoghi. Scatta le sue foto, poi prosegue i suoi viaggi. Harry Goulding se ne ricorderà un anno dopo, quando la depressione che nel frattempo ha messo in ginocchio gli Stati Uniti e una siccità di biblica ferocia (la stessa magistralmente raccontata da Steinbeck in Furore) stanno ormai mettendo a dura prova anche la sopravvivenza della comunità Navajo e di loro stessi. 


Cercando un’idea per risollevare le sorti di quello straordinario angolo di mondo, recupera Muench e le sue foto, e parte per Los Angeles. Lì ci sono gli studi di Hollywood, l’industria dei sogni che macina film e che fra i suoi grandi successi già annovera molte pellicole di un genere tutto americano, il western. 


A questo punto il caso, o forse non solo quello, fa sì che Harry si presenti negli studi della United Artists. Non è una casa di produzione qualsiasi, è stata fondata quasi vent’anni prima da quattro giganti della storia del cinema: Charles Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D. W. Griffith. Negli anni trenta, quando Harry Goulding varca i suoi cancelli, la United Artists annovera fra i suoi registi di punta un signore dal nome talmente banale da sembrare inventato per non dare nell’occhio, e che ha al suo attivo già diversi western di una certa fama. Si chiama John Ford. 


È un tipo passato alla storia, oltre che per una sequenza impressionante di capolavori, anche per una leggendaria frase che si dice abbia usato per presentarsi ai suoi produttori, e che riassume in un lampo il suo carattere, la sua chiarezza di idee, la sua (apparente) semplicità e il suo carisma: “Mi chiamo John Ford. Faccio Western.”  In quel periodo lui e il suo staff stanno lavorando su una sceneggiatura tratta da un racconto di Ernest Haycox (Stage to Lordsburg) a sua volta ispirato da un racconto di Guy de Maupassant (Boule de Suif). È la storia di una diligenza e del microcosmo creato dai suoi occupanti, riproduzione in miniatura di una umanità variegata, e del viaggio complesso e pericoloso che avrebbero affrontato attraverso le praterie del selvaggio west. Il titolo del film sarebbe stato Stagecoach, in italiano sarebbe diventato “Ombre rosse”. Semplicemente uno dei pilastri della storia del cinema. 


Harry Goulding, con la sua cartellina piena di fotografie, chiese di parlare con uno dei dirigenti che si occupavano di film western. La segretaria (che per forza di cose immaginiamo occhialuta e antipatica) gli fece capire che ben difficilmente qualcuno lo avrebbe ricevuto, per di più senza un appuntamento. Harry non era arrivato fin lì per rinunciare, e la leggenda vuole che si procurò un sacco a pelo e si piazzò nella sala d’attesa per diversi giorni, finché a un funzionario non fu affidato l’ingrato compito di riceverlo per poi liberarsene in qualche modo. Fatto sta che quel funzionario era quello che si stava occupando di cercare le location per Stagecoach. Harry gli fece vedere le fotografie, e un momento dopo quello chiamava a gran voce John Ford per mostrargliele. Un altro momento successivo e Ford aveva già deciso che gli esterni del film si sarebbero girati lì, dovunque si trovasse quel luogo straordinario. 


Si può ben dire che l’immagine che tutti abbiamo del West è nata quel giorno in quello studio di Hollywood, e da quel giorno la Monument Valley cessò quasi in un istante di essere un deserto semisconosciuto e dimenticato per diventare uno dei luoghi giustamente più famosi del mondo. 
John Ford si trasferì dai Navajo con la sua troupe e girò in soli quattro giorni tutti gli esterni del film (sembra quasi incredibile per un film che si svolge quasi totalmente in esterni). Per la sequenza principale del film, il furibondo attacco alla diligenza da parte dei pellerossa, le riprese furono effettuate da un’automobile lanciata sulle pianure di arenaria a velocità proibitiva. E quei pochissimi minuti di film valgono una cinematografia intera. I Navajo parteciparono alle riprese (e una buona parte del merito va alle loro fenomenali acrobazie a cavallo) e pur non essendo mai stati rappresentati in modo molto lusinghiero né in quel film né in altri successivi dello stesso regista, interpretando di volta in volta Apache, Comanche e altre tribù anche molto diverse dalla propria, il rapporto fra loro e John Ford fu sempre molto buono, crediamo non solo per i soldi che il lavoro nel cinema procurava loro. Fatto sta che anche dopo la morte del grande regista, nel 1973, i nativi della Monument Valley continueranno a ricordarlo come Natani Nez (Tall Leader), il Grande (Alto) Capo, e uno dei punti panoramici più caratteristici della valle si chiamerà per sempre “John Ford’s Point”. 


Il film avrà meritati successi e riconoscimenti, crescenti col passare degli anni. I panorami mozzafiato, la caratterizzazione dei personaggi, le scene d’azione tecnicamente straordinarie, un giovanissimo John Wayne che da quel film in poi diventerà a sua volta icona irrinunciabile del cinema di genere (la sua entrata in scena, con la camera in Dolly che avanza verso di lui piantato a gambe larghe in mezzo al sentiero, è entrata nel mito). E con il film le sue strepitose location conosceranno una popolarità planetaria destinata a rinnovarsi di continuo. Lo stesso Ford tornerà altre volte a girare fra quei panorami, per la bellezza di altri sei film, fra i quali altri autentici capolavori: “Sfida infernale” (My Darling Clementine), “Rio Bravo” (Rio Grande) e il magnifico “Sentieri Selvaggi” (The Searchers). 
Alla fine degli anni sessanta l’altrettanto grande Sergio Leone, dopo aver riscritto coordinate e iconografia del western reinventando i paesaggi della frontiera nella vicina Andalusia spagnola con la sua Trilogia del dollaro, piazzerà anche lui la sua cinepresa nella Monument Valley proprio in occasione del suo addio al western, per il suo monumentale (è il caso di dirlo) “C’era una volta il West”, omaggiando così i veri luoghi di nascita del genere, e innalzando a livelli lirici le sue panoramiche e le sue zoomate grazie alle musiche di un ispiratissimo Ennio Morricone. 
E così il cinema dei decenni successivi avrebbe di continuo riportato il suo sguardo fra quelle arenarie rosse per le situazioni più varie, quando anche storie molto distanti dal genere cowboy necessitavano in un modo o nell’altro di evocare il mito della frontiera. Fra i tanti, “Easy Rider” di Dennis Hooper, “Assassinio sull’Eiger” di Clint Eastwood, “Thelma e Louise” di Ridley Scott, “Forrest Gump” e “Ritorno al futuro III” di Robert Zemeckis. 
Ma, al di là della sua storia cinematografica, la Monument Valley è un luogo totalmente magico, realmente unico al mondo e quasi al di fuori dello stesso. La dominante rossa donatagli dalla spropositata abbondanza di ossido di ferro sembra proiettare il visitatore su un pianeta diverso dal nostro, gli orizzonti sconfinati e le prospettive aeree che offre ad ogni angolo evocano di continuo forze primordiali che quasi si esercitano a plasmare il paesaggio davanti ai nostri occhi, le gigantesche formazioni rocciose sembrano ad ogni istante cambiare dimensioni, innalzarsi o sgretolarsi un attimo dopo che il nostro sguardo si è posato su di loro. 
Il territorio è ancora dei Navajo, gestiscono loro gli ingressi e le attività in quello che ora è diventato un “Tribal Park” facente parte della Navajo Nation Reservation, alcuni gruppi più integrati, altri ancora molto riservati. Sfruttano il turismo a volte anche con prezzi un po’ esosi, ma in qualche modo riescono ancora a sopravvivere sulla loro straordinaria e sorprendente terra senza essere ancora del tutto schiacciati dalla nostra prepotenza chiassosa e poco contemplativa. Tutto sommato il traffico nella valle risulta, e almeno così appariva al momento della mia visita, sopportabile e non eccessivo (la strada sterrata che la percorre permette solo velocità molto basse e non ad ogni tipo di veicolo) e a parte il discusso Hotel che si trova all’ingresso (sempre gestito dai nativi), le altre strutture all’interno della zona sono sporadiche e poco invadenti. Per tutto il resto (nel tempo e nello spazio) domina ovunque quel che deve dominare in un luogo così unico e incomparabile: silenzio, vento, polvere rossa, orizzonti lontani e indefiniti, cavalli e giganti di pietra. 
Un paradiso apparentemente deserto che contiene un mondo intero.

Alessandro Borgogno

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


ALESSANDRO BORGOGNO

Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

25/08/18

la morte di Raffaello Sanzio


Il 6 aprile del 1520, Venerdì Santo, alle tre di notte moriva Raffaello Sanzio, dopo 15 giorni di malattia iniziatasi con una febbre continua ed acuta, causata probabilmente da eccessi amorosi, inutilmente curata con ripetuti salassi. Uno dei testimoni, che volle raccogliere i propri pensieri in alcune lettere, fu Marcantonio Michiel che, desideroso di rammentare il grande artista, narrò il dispiacere di tutte le persone ed anche del Papa. Lo stesso Michiel non mancò di sottolineare gli straordinari segni che si registrarono nei momenti successivi alla morte di Raffaello: si crearono delle crepe all'interno dei palazzi vaticani ed i cieli si agitarono. Probabilmente, ma di minore impatto emotivo, le crepe furono causate da un piccolo terremoto che scosse le pareti dei magnifici palazzi di Roma ed un temporale oscurò il sole del mattino. Gli scritti di Michiel rappresentano la visione comune dei contemporanei di Raffaello che lo consideravano divino, tanto da paragonarlo a Cristo. Come lui era morto di Venerdì Santo e, addirittura, nacque in un altro Venerdì Santo. Peccato che la data di nascita di Raffaello fu a lungo distorta ed alterata per farla coincidere con quella di un venerdì Santo. 


Secondo il Vasari nacque l'anno 1483, in venerdì santo, alle tre di notte, da un tale Giovanni de' Santi, pittore non meno eccellente, ma si bene uomo di buono ingegno. Secondo un'altra versione, contenuta in una lettera che Michiel inviò ad Antonio Marsilio, la data del giorno e dell'ora di morte di Raffaello, apparentemente coincidente con quella di Cristo, le ore 3 del 6 aprile, venerdì prima di PasquaE' facilmente comprensibile che l'alterazione della data di nascita era in stretta relazione con la visione quasi divina che i contemporanei nutrivano per il pittore giunto da Urbino. Per meglio comprendere la relazione tra la morte dell'artista e lo scuotimento delle anime, e delle menti, che si verificò nelle ore successive la scomparsa di Raffaello, dobbiamo fare riferimento ad una lettera che Pandolfo Pico della Mirandola inviò a Isabella d'Este. In questo scritto Pandolfo disse che il Papa per paura dalle sue stanze è andato a stare in quelle che fece fare papa Innocentio. Altri scritti potrebbero aiutarci nella comprensione della visione dei contemporanei. Pietro Paolo Lomazzo scrisse che la nobiltà e la bellezza di Raffaello rassomigliava a quelle che tutti gli eccellenti pittori rappresentano nel nostro Signore. 


In questo elenco di illustri personaggi del cinquecento non poteva mancare il Vasari che scrisse di Raffaello: di natura dotato di tutta quella modestia e bontà che suole vedersi in coloro che più degli altri hanno certa umanità. Di natura gentile, aggiunta a un ornamento bellissimo d'una graziata affidabilità. Certo il Vasari non mancò di sottolineare gli eccessi sessuali del grande artista urbinate, mettendoli in relazione con la morte prematura.
Come abbiamo potuto comprendere, la morte del pittore fu salutata con estremo cordoglio da tutta la corte pontifica. Il suo corpo, come richiesto dallo stesso Raffaello, fu sepolto nel Pantheon.
Sepolto l'artista le voci si rincorsero. Quale fu la causa della morte?


Secondo il Vasari, Raffaello era persona molto amorosa affezionata alle donne e ai diletti carnali. Aggiunse chefaceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo. La morte fu una conseguenza dei suoi eccessi amorosi, infatti dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre. Se dovessimo prendere per buone le parole del Vasari, cadrebbe il mito dell'amante focoso di una singola donna, la fornarina, poiché si dilettava con diverse ragazze. Chi era la fornarina che secondo la leggenda rapì il cuore dell'artista urbinate? Spostiamoci a Palazzo Barberini, sempre a Roma. All'interno del palazzo un ritratto di donna rapisce l'attenzione: è quello della fornarina. La ragazza è nuda e cerca di coprirsi il seno, inutilmente, con un velo trasparente. Porta un bracciale con scritto: RAPHAEL VRBINAS. Si tratterebbe di un dipinto privato fatto da un amante alla sua amata. L'opera fu realizzata nel 1520, pochi mesi prima della scomparsa di Raffaello. Quella donna mirabilmente ritratta era Margherita Luti, figlia di un senese di professione fornaio che svolgeva il proprio lavoro nel quartiere di Trastevere. La ragazza suggestionò l'immaginario collettivo e nell'ottocento fu considerata la vera musa ispiratrice del grande artista. Margherita, stando su uno stretto sentiero a metà strada tra storia e leggenda, poco dopo la morte dell'amato si ritirò in un convento nel cuore del quartiere dove era cresciuta. Esiste un documento, rinvenuto nel 1897 da Antonio Valeri, che attesta il ritiro nel convento di sant'Apollonia di Margherita Luti con le seguenti parole: al di 18 agosto 1520, oggi è stata ricevuta nel nostro conservatorio madama Margherita, vedova e figliola di Francesco Luti di Siena.


Quel termine utilizzato nel documento, vedova, lascerebbe intendere che Margherita e Raffaello si fossero sposati poco prima della morte dell'artista. Quindi quello stretto sentiero tra leggenda e storia si è ancora ridotto, e noi camminiamo in punta di piedi.
Potrebbe esistere una visione meno romantica del termine fornarina con fu identificata e conosciuta Margherita Luti. Questa visione vorrebbe la fornarina una prostituta ed i termini utilizzati, pane da infornare e forno, delle allusioni sessuali.
Ritengo credibile questa visione poiché Raffaello era dedito ai piaceri carnali e potrebbe aver contratto qualche malattia a trasmissione sessuale che comportò la famosa febbre con cui tornò a casa, inutilmente curata con ripetuti salassi.
I dubbi però esistono.
Dalle cronache del tempo le cause della morte non risultano chiare.
E se non fosse morto in seguito ai sui eccessi amorosi?
Ripartiamo dalla notte del 6 aprile 1521.
Alle ore 3 della notte Raffaello moriva. Il grande pittore lavorava alla Trasfigurazione quando si ammalò. La tavola incompiuta fu collocata a capo del letto funebre. Il Vasari scrisse: la quale opera nel vedere il corpo morto e quella viva, faceva scoppiare l'anima di dolore.
Quest'opera potrebbe essere alla base della morte?
C'era qualcuno che aveva interesse ad uccidere Raffaello?



In quel periodo il clima a Roma era rovente, basti pensare a Baldassarre Peruzzi, architetto che collaborò alla stesura del progetto della Basilica di San Pietro. Il Peruzzi morì avvelenato. Utilizziamo il Vasari come fonte: morì vecchio, in grande povertà, con una numerosa famiglia da mantenere e probabilmente avvelenato da rivali professionali. Un altro caso illustre è quello del Masaccio che morì in giovanissima età, a 27 anni. Secondo il Vasari esisteva il sospetto che fosse stato avvelenato. Un caso leggermente posteriore alla morte di Raffaello è quello relativo al Rosso Fiorentino. Le cronache riportano la morte per suicidio, ma alcuni divulgarono la versione dell'omicidio.
L'ambiente in cui viveva Raffaello pullulava di artisti invidiosi della carriera, in grandissima ascesa, del pittore urbinate.
Torniamo alla domanda iniziale: chi poteva avere interesse ad uccidere Raffaello?
Non esistono certezze, come abbiamo ampiamente compreso dalla narrazione di questa vicenda. Un evento potrebbe indirizzarci verso coloro che nutrivano astio nei confronti di Raffaello. Intorno al 1515 lo stile di Sebastiano del Piombo divenne una valida alternativa a quello di Raffaello. In quegli anni nacque un'accesa competizione tra i due. Alla fine del 1516 il cardinale Giulio de' Medici commissionò due pale d'altare: una a Raffaello, la Trasfigurazione, ed una a Sebastiano, la Resurrezione di Lazzaro. Esiste una documentazione di questa particolare competizione: la corrispondenza tra Leonardo Sellaio e Michelangelo. Nel 1517 Sellaio scriveva che Raffaello metteva sottosopra il mondo perché lui non la faccia per non venire a paragoni. Verso la fine dello stesso anno riportò che Sebastiano fa miracoli di modo che ora mai si può dire abbia vinto. Lo stesso Sebastiano scrisse a Michelangelo che aveva rallentano nella lavorazione della pala d'altare perché non voleva che Raffaello vedesse la sua prima che gli avesse sottoposta la propria. L'opera di Sebastiano del Piombo fu esposta la prima volta all'interno dei palazzi Vaticani nel 1519. La seconda volta il 12 aprile del 1520, sei giorni dopo la morte di Raffaello. In questa occasione vi fu il confronto con l'incompiuta Trasfigurazione del pittore marchigiano. 



Sebastiano del Piombo comunicò la notizia della morte di Raffaello a Michelangelo solo il 12 aprile, 6 giorni dopo l'avvenimento. Nella stessa lettera si raccomandò per ottenere la decorazione della Sala dei Pontefici in Vaticano. Sebastiano del Piombo non riuscì ad ottenere quella commissione. Poco dopo questo accadimento, accettò di lavorare nella chiesa di Santa Maria del Popolo, a Roma. Doveva decorare cappella Chigi, sotto le figure di Raffaello. Sebastiano del Piombo indugiò a lungo prima di iniziare i lavori, tanto da stancare gli eredi di Agostino Chigi che affidarono l'incarico al Salviati. In quei mesi a Sebastiano nacque un figlio, cui Michelangelo fece da padrino. Perché potremmo pensare che Raffaello fu avvelenato? Nel 1722, all'epoca della riesumazione, il suo corpo fu rinvenuto quasi incorrotto. L'arsenico, assunto in massicce dosi, può preservare il corpo dal decadimento. Siamo sempre nel campo delle supposizioni. Probabilmente non sapremo mai la reale causa della morte e ci atteniamo alle parole del Vasari secondo il quale faceva una vita sessuale molto disordinata e fuori modo. La morte fu una conseguenza dei suoi eccessi amorosi, infatti dopo aver disordinato più del solito tornò a casa con la febbre.
Quella febbre che tolse al mondo, ancora in giovane età, uno dei suoi più grandi artisti. 

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/

Bibliografia

Paolo Franzese, Raffaello, Mondadori Arte, Milano 2008

Pierluigi De Vecchi, Raffaello, Rizzoli, Milano 1975

Enzo Gualazzi, Vita di Raffaello da Urbino, MIlano, Rusconi, 1984

Girogio Vasari, Le vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori, Vita di Raffaello da Urbino, Firenze 1568

Fotografie

1- Autoritratto / Autoritratto nella Scuola di Atene

2- Presunto autoritratto giovanile, indicato da alcuni studiosi: si tratti di un disegno a carboncino conservato all'Ashmolean Museum di Oxford, datato intorno al 1504

3- L'Autoritratto di Raffaello è un dipinto a olio su tavola (47,5x33 cm), databile al 1504-1506 circa e conservato nella Galleria degli Uffizia Firenze.

4- La Fornarina è un dipinto a olio su tavola (85x60 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518–1519 circa e conservato nella Galleria Nazionale d'Arte Antica di Palazzo Barberini a Roma. È firmato sul bracciale della donna: RAPHAEL VRBINAS.

5- La Velata è un dipinto a olio su tela (82x60,5 cm) di Raffaello, databile al 1516 circa e conservato nella Galleria Palatina di Palazzo Pitti a Firenze.

6- Sebastiano del Piombo, Ritratto di prelato (autoritratto?), Venezia, Coll. Cini Guglielmi.

7- L'Autoritratto con un amico è un dipinto a olio su tela (99x83 cm) di Raffaello Sanzio, databile al 1518-1520 circa e conservato nel Museo del Louvre a Parigi.


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

17/08/18

i Piccolomini



STEMMA

sono una famiglia italiana di origine toscana, influente a Siena a partire dall'XI secolo. I suoi componenti, grazie alla loro affermazione nel commercio, nelle armi, nella cultura e nelle scienze, acquisirono notevole visibilità, in Italia ed in Europa. Furono Grandi di Spagna, Principi del Sacro Romano Impero e diedero, alla Chiesa, numerosi alti prelati e due Pontefici.

Nel XV secolo, l'elevazione al soglio pontificio di Pio II, al secolo Enea Silvio, che era ultimo discendente del cosiddetto "Ramo papale", il più ricco e potente della famiglia, permise ai Piccolomini di acquisire nuovo prestigio e popolarità.

La statura religiosa, politica e diplomatica del nuovo papa, l'istituzione della consorteria Piccolomini, unita all'atteggiamento apertamente nepotistico di quest'ultimo, diedero nuovo impulso all'affermazione della famiglia, che si impose con rinnovato vigore, sia in campo nazionale che internazionale. In particolare emersero, per opulenza, peso politico ed eccellenza militare i due rami legati alle sorelle del pontefice: i Piccolomini Todeschini e i Piccolomini Pieri.

I primi, si imposero oltre che per l'elezione di un nuovo papa, Pio III, anche per la loro affermazione nel resto della penisola, stabilendo numerosi nuovi feudi in Toscana, Emilia e Marche e soprattutto nel meridione d'Italia dove si inserirono ai massimi vertici politici, militari e aristocratici del Regno di Napoli.

I secondi, con molti dei suoi esponenti raggiunsero il primato in campo militare, in Toscana, nel Mediterraneo, in Spagna e nel Sacro Romano Impero, dove, uno dei suoi componenti, il principe Ottavio divenne, nel XVII secolo, Feldmaresciallo dell'Impero.

Gli altri rami della famiglia, sviluppatisi prevalentemente in territorio senese, ebbero radici in tempi antichi. I più illustri furono i Piccolomini di Modanella, i Piccolomini Salamoneschi e i Carli Piccolomini. Questi ultimi due si suddivisero poi in diverse altre ramificazioni. Tutti ebbero, tra i propri membri, personaggi di alto lignaggio che si affermarono nelle più svariate discipline.

Storia della famiglia
Questa famiglia ha origini molto antiche. Come afferma il Malavolti, è plausibile che i Piccolomini siano di origine franca o germanica, alla stregua di molte altre antiche famiglie senesi del tempo, così, come sembrerebbe emergere da un atto di compravendita del 1098, ove un Martino di Piccolomo dichiarava di vivere insieme alla moglie Rozza sotto la legge longobarda.

Le origini leggendarie

Orazio Coclite, antenato leggendario dei Piccolomini, in una incisione di Hendrick Goltzius
Intorno alla metà del XV secolo cominciarono a fiorire scritti sulla origine mitica della famiglia. Il poeta fiorentino, Leonardo Dati, alla corte di Papa Pio II, tradusse, dal latino, un libretto di Caio Vibenna, in cui compariva un Bacco di Piccolomo, signore del castello di Montone, chiamato dal re Porsenna a soccorrere, Tarquinio il Superbo scacciato da Roma. "... andò in aiuto a quel re contra i romani con dugento homini a piedi e cinquanta a cavallo, [inalberando] la sua insegna di color bianco con croce azura adentro meze lune d'oro come è oggi l'arme di questa famiglia...". Il papa Piccolomini, lungi dal farsi tentare da queste suggestioni mitiche, era comunque convinto, che la sua famiglia affondasse le radici nell'antica Roma, per il frequente ricorrere dei nomi Silvio, Enea o Ascanio Altri scritti, conservati negli atti della consorteria Piccolomini e custoditi nell'Archivio di Stato di Siena, evocano un'ascendenza dai re di Alba Longa, con un'improbabile salto indietro nel tempo di oltre duemila anni. È comunque certo che tutta la memorialistica genealogica concorda nell'attribuire a questa famiglia un'origine sicuramente remota.

Nel XVII secolo due fratelli Piccolomini, del ramo di Modanella si accingevano a fare un grande albero genealogico della famiglia. Per suggellare, con una certificazione legale, la loro antica genealogia, diedero incarico ad un notaio, Alessandro Rocchigiani, di mettere ordine nelle varie fonti che dissertavano sull'origine della famiglia. Evidentemente il fascino del mito, misto alla riverenza dovuta agli illustri committenti, invece di eliminare le componenti leggendarie finì per aumentarle. Orazio Coclite, fu indicato con certezza, dallo zelante notaio, come nuovo capostipite della famiglia. Indubbiamente alcune coincidenze destano stupore. Infatti, nella colonna che ornava il Campidoglio, risaltava scolpita, nello scudo dell'antico romano, la sua impresa, identica a quella della famiglia senese. Una volta agganciata ad Orazio, la stirpe dei Piccolomini aveva, nell'antica Roma, il nome di Parenzi e da qui, poi un suo componente, scelse come nuova residenza la colonia Senese. Dove abbandonò il suo nome, Chiaramontese, per mutarlo in Piccholuomo..

Prime testimonianze

In tempi più recenti, il riferimento più antico ai Piccolomini, emerge quando Siena non era ancora eretta a Repubblica. L'imperatore Arrigo II, nominò Salamone Piccolomini, suo procuratore e governatore del territorio senese, nel 1055 e secondo quanto asserisce il Bisdomini, lui e suo fratello Matteo costruirono due torri cittadine, di cui, una, sulla strada che conduceva a Roma.
In quel tempo il loro stemma non era ancora ben definito, e spesso nella croce azzurra apparivano più mezzelune delle cinque comunemente conosciute.

Sono ricordati come appartenenti ai Grandi di Siena e furono fra i primi ad essere ascritti al monte dei Gentiluomini. Rustichino di Orlando e Guglielmo di Piccholuomo parteciparono al governo della città come "Consoli" della giovane Repubblica nel 1160 e nel 1170. Rainerio di Montonio e Rustichino di Piccolomo nel 1178 e 1228.

Già da tempi molto remoti possedevano il castello di Val di Montone che sorgeva su uno dei tre colli a ridosso dei quali si sarebbe poi sviluppato il tessuto urbanistico della Siena medioevale. Nel 1220, Engelberto o Inghilberto d'Ugo Piccolomini ricevette il feudo di Montertari in Val d'Orcia dall'imperatore Federico II come premio per i servizi resi.

La famiglia acquisì palazzi e torri a Siena e vari castelli nel territorio della Repubblica. Alcuni fra le più antiche di queste proprietà, come Montone e Castiglione, furono venduti a Siena, nel 1321.

I Piccolomini ottennero grandi ricchezze tramite il commercio e stabilirono uffici contabili a Genova, Venezia, Aquileia, Trieste e in varie città di Francia, Inghilterra, Germania ed Austria.

Sostenitori della causa guelfa, allorché la parte ghibellina, nel 1260 con la Battaglia di Montaperti trionfò in Toscana, furono costretti, come tanti altri, a prendere la via dell'esilio e le loro case e possedimenti vennero devastati e distrutti. Rientrarono in patria con l'aiuto francese, ma furono nuovamente scacciati durante il breve regno di Corradino di Svevia. Dopo le battaglie di Tagliacozzo (1268) e Colle val'Elsa (1269), nelle quali gli Svevi e la parte ghibellina furono definitivamente sconfitti da Carlo I d'Angiò, i Piccolomini tornarono trionfalmente a Siena e perseguirono con determinazione gli appartenenti alla fazione ghibellina.

Queste continue lotte tra diverse fazioni, indebolirono sensibilmente, l'influenza commerciale della Repubblica, a tutto vantaggio dei rivali fiorentini, che forti della vittoria guelfa andarono ad occupare i più importanti nodi commerciali, prima detenuti dai senesi. In questo contesto, i Piccolomini, più lungimiranti di altri si ritirarono dal commercio, evitando la lunga catena di fallimenti che coinvolse altre potenti famiglie senesi.
Mentre continuavano a dedicarsi al consolidamento delle loro ricchezze e del loro dominio terriero, seppure con discrezione e riservatezza, rimasero ai vertici dello stato e parteciparono attivamente al governo della repubblica, essendo il loro prestigio rimasto inalterato.

Attraverso i vari rami della famiglia estesero, nel corso degli anni successivi, le loro signorie ad Alma, Castiglioncello, Amorosa, Roccalbegna, Torre a Castello, Porrona, Triana, Castiglione d'Orcia, Ripa d'Orcia, Batignano, Celle, Castiglione della Pescaia, Radicofani, la citata Montertari, Sticciano, Modanella, Montemarciano, Camporsevoli, l'Isola del Giglio, Castiglion del Bosco, Capestrano, Celano, Amalfi, Náchod in Boemia, Valle nel Regno di Napoli.

Inoltre possedevano Corsignano, chiamato poi Pienza, la fortezza di Castiglion Baroti, Bibbiano Cacciaconti e Bibbiano Guilleschi, Castelnuovo Berzi e vasti territori a Montalcino, Rosia, Radi, Arbiola, Asciano, Abbadia Ardenga, Montefollonico, Rapolano, Poggio S. Cecilia, Montichiello, Bettolle, Vergelle ed altri luoghi minori.

Discendenza di Piccolomo

La discendenza di Piccolomo, tramite i numerosi figli, fin dalle origini si divise in due grandi ramificazioni. Quelle di Bartolomeo e Rustichino, all'interno delle quali si svilupparono diverse linee genealogiche. Anche un altro figlio, Ugo, ebbe numerosa discendenza. Tale linea, però non è stata illustrata da nessun genealogista, probabilmente perché estinta in tempi remoti, durante il XIV secolo.

Nel basso Medioevo esistevano diversi istituti giuridici a protezione dell'integrità dei beni familiari, come i fedecomissi, la primogenitura e le commende. La costituzione della Consorteria Piccolomini, rimasta in vigore fino al 1821 e voluta da uno dei discendenti di Rustichino, il papa Pio II, rafforzò ulteriormente l'unione politica e patrimoniale della famiglia.

La consorteria, prevedeva infatti,che, ove un ramo dovesse terminare con un componente femminile, l'eventuale consorte fosse aggregato o adottato nella famiglia Piccolomini, con l'obbligo di sostituire o aggiungere il cognome e sostituire o inquartare lo stemma.

Oppure era prevista l'unione matrimoniale con un componente di altra linea genealogica. In entrambi i casi dovevano essere assunti tutti gli obblighi e i benefici conseguenti all'ingresso nella consorteria, con trasferimento del patrimonio, dei titoli nobiliari e dei predicati. Nell'albero genealogico del 1688, era posta una puntuale distinzione, tra Piccolomini estranei, ovvero adottati, e Piccolomini aggregati. La distinzione non era solo formale. Gli aggregati, infatti, potevano partecipare alle assemblee consortili, con gli stessi privilegi e attribuzioni dei Piccolomini originari. Inoltre all'epoca le linee genealogiche erano numerosissime, per cui venne fatta una distinzione che, in pratica, divideva la famiglia in tre categorie.

I Piccolomini originari, che erano: Piccolomini Alamanni, Guglielmini,Turchi, Montoni, Chiaramontesi, Ugoni, Rustichini, Modanelli o di Modanella, Spinellesi o della Triana, Salmoneschi, Mandoli, i Carli.
I Piccolomini aggregati, che erano: Piccolomini Todeschini, i Piccolomini d'Aragona ed i Piccolomini d'Aragona e di Castiglia.
I Piccolomini estranei, che erano: Pieri o di Sticciano, Del Testa, Ammannati, Loli, Patrizi, Miraballi, Spannocchi, Cesarei, Bandini, Lucentini, Siverii.

Tale sofisticata struttura, rende, talvolta, disagevole la lettura della genealogia di questa famiglia. Per questo motivo vengono esposte le linee genealogiche storicamente più significative e quelle superstiti.

Ramo di Ugo

Come accennato, non si hanno molte notizie di questa linea genealogica. La discendenza di Ugo va comunque ricordata per alcuni importanti personaggi, ad essa riconducibili.

Bonicella Cacciaconti Piccolomini (1230 ca. - † 1300 ca.). Beata e originaria di Trequanda, come ricordato in una pergamena dell'Ospedale di Santa Maria della Scala di Siena, andò in sposa a Ildobrandino di Ugo. Va ricordata, oltre che per le sue celebrate virtù, anche perché, con ogni probabilità, grazie a lei, la fortezza di Modanella, già dei Cacciaconti entrò nell'orbita della famiglia Piccolomini.
Matteo (1290 ca. - † 1341). Discendente di Ugo, tramite Toma di Alamanno, viene ricordato, insieme al cugino Meuccio, come acquirente del borgo fortificato di Castiglion d'Orcia, che poi fu rivenduto a Siena nel 1321.
Questa linea si estinse nella seconda metà del XIV secolo.

Ramo di Bartolomeo

Guglielmo di Bartolomeo detto Cencio attraverso due dei suoi figli, Conte e Salomone, diede origine ad altrettante importanti linee, denominate rispettivamente dei Salamoneschi e di Modanella. Guglielmo ebbe anche un altro figlio, detto Guglielmino, che ebbe una breve discendenza, dotata, però, di grandi mezzi. Finanziò la Repubblica in diverse occasione, divenendone largamente creditrice. In particolare durante i conflitti sostenuti nei confronti dei Conti Aldobrandeschi di Santa Fiora, Siena dovette dare in pegno alcune località strategiche come Castiglione d'Orcia nel 1315 e successivamente per saldare un debito di 17.450 fiorini d'oro dovette vendere il borgo e la rocca e Pietra d'Albegna (successivamente chiamata Roccalbegna) nel 1318 Attore di queste transazione fu Meuccio di Guglielmino, che non avendo mire di dominio su questi territori, di buon grado ne consentì il riacquisto da parte del Comune, rispettivamente, nel 1321 e nel 1324.
Guglielmino con i suoi figli, a cavallo del XIII e XIV secolo, si impegnarono a consolidare il loro patrimonio fondiario e immobiliare, nella zona di Corsignano.

Piccolomini Salamoneschi

È questa una delle ramificazioni, che ha dato alla famiglia diversi personaggi illustri, tra capitani di ventura, notabili e uomini di chiesa.

Gli uomini d'arme di questa linea si sono espressi specialmente nel XIV secolo, quando il potere e la stabilità della Repubblica, non si erano ancora consolidati. Tre figli di Salomone Spinello, Pietro e Tommaso furono condottieri dotati di grande carisma tra la popolazione. Dotati di cospicui mezzi, ebbero con le loro milizie, un ruolo di primaria importanza nei territori della Toscana meridionale, tanto da essere temuti, per le loro iniziative personali, non sempre in linea con le direttive delle autorità centrali.

Tommaso (1316 ca. - † ?). Detto Prete Grasso, dopo alcune iniziative non gradite, fu bandito da Siena e come soldato di ventura, passò al soldo di Fra' Moriale, condottiero francese, di dubbia fama, Fiorino 1340.jpg che era di passaggio in Toscana. Effettuò numerose scorrerie, pretendendo consistenti riscatti per la liberazione dei territori occupati. Questa sua attività gli fruttò 13.000 fiorini, che la Repubblica fu costretta a pagargli.
Spinello (1310 ca. - † ?). Nel 1363, si impadronì, insieme ai fratelli, Pietro e Tommaso, del castello di Batignano, di notevole importanza strategica, e lo restituì a Siena, solo dietro pagamento della considerevole somma di denaro di 6.400 fiorini. Durante questa controversia Spinello, fu imprigionato e rinchiuso a Castiglioncello, da dove però riuscì a fuggire.
Pietro di Salamone (1317 ca. - ?). Dopo le prime scorribande giovanili insieme ai fratelli, fu sempre presente nelle numerose campagne militari che Siena teneva per la conquista di nuovi territori. Nel 1376 per conto della Repubblica riconquistò il porto e la fortezza di Talamone e altri territori contesi al papato. Come commissario della repubblica stipulò l'alleanza con Firenze, Perugia, Arezzo e Carlo IV di Lussemburgo in chiave anti-Viscontea (Lega di Siena 1351), a difesa di Bologna. Successivamente in difesa di questa città si mosse con le truppe senesi alleate del papa Urbano V. In tarda età di dedicò all'attività di governo, (Provveditore di Biccherna 1381) e affinò la sua abilità diplomatica, stipulando numerosi trattati con i signori feudali del tormentato territorio senese.
I figli di Spinello continuarono la tradizione militare della famiglia. Uno dei due, Niccolò, seguì le vicende belliche nel territorio senese, inizialmente affiancato dal fratello Nanni.

Nanni di Spinello (Al battesimo, Giovanni) (1370 ca. - † 1425), Capitano di ventura, ebbe una personalità variegata e turbolenta. Bandito dalla Repubblica, si unì ad Angelo Tartaglia, altro condottiero italiano. Con questi occupò Radicofani, per poi venderlo ai Senesi.

 Nel 1412 si pose a difesa dei territori di Perugia insieme a Ceccolino Michelotti e riuscì a battere Braccio da Montone, che difendeva gli interessi papali. Rimarrà, per qualche anno a difesa di questa signoria al comando di 150 lancieri. Si cimentò nuovamente contro Braccio da Montone, questa volta contro Perugia e a fianco di Muzio Attendolo Sforza, entrambi al servizio di Ladislao re di Napoli. Sempre nel 1417 passò senatore a Roma e successivamente, sempre affiancando Attendolo Sforza, si mise al servizio di Papa Martino V. Ancora una volta affronta Braccio da Montone nella battaglia di Montefiascone (1419), nella quale però questa volta viene sconfitto. Durante tutte queste vicende belliche ed i continui rivolgimenti di fronte, grazie all'intervento del re di Napoli, venne riammesso a Siena, con il ripristino del suo status di cittadino della repubblica.
Nel 1421, insieme ad altri condottieri italiani, passò al servizio degli Angiò. A Cosenza, al comando di Francesco Sforza, combatté una lunga campagna contro le truppe di Alfonso d'Aragona.
Nei brevi periodi di pace, decise di mettere a frutto i larghi guadagni ottenuti nelle numerose campagne militari, acquistando insieme al fratello Niccolò il Castello di Triana, che con i territori di pertinenza rappresentava un importante marca di confine rispetto ai domini del papato.

Salamone (1385 ca. - † ?), figlio di Niccolò e nipote di Nanni, ottenne dalla Repubblica l'esenzione dei tributi, e la costituzione della Signoria della Triana, che prese la fisionomia di un vero e proprio dominio feudale.
Spinello (1380 ca. - † ?), fratello di Salomone, diede origine ad una linea che si perpetuò fino al XVII secolo. I suoi discendenti furono impegnati prevalentemente nella vita economica, culturale e politica di Siena, ma non produssero personaggi di particolare rilievo storico. Alcuni di essi, di seguito elencati, furono, comunque, alti prelati della Chiesa cattolica.
Aldello (1450 ca. - † 1510). Vescovo di Sovana dal 1492 al 1510. Vissuto ai tempi dei due pontefici della famiglia, fu particolarmente vicino al cugino Francesco Piccolomini Todeschini, papa Pio III, che nei suoi pochi giorni di pontificato, lo chiamo subito presso i Palazzi Vaticani e gli fece dono della commenda del monastero di Santa Maria di Monte Oliveto, in Lombardia. L'investitura di questa Abbazia (da non confondere con l'Abbazia di Monte Oliveto Maggiore di Asciano), con la morte dell'ultimo titolare era stata concessa, nel 1459, da Pio II, al nipote Francesco, quando era agli inizi della sua carriera ecclesiastica. Da quasi cinquant'anni, il monastero aveva perso le sue funzioni ed era solo fonte di reddito. Aldello decise di ripristinare la natura religiosa dell'abbazia. Reintrodusse i monaci cistercensi, cedendo loro il monastero, la chiesa e i beni posseduti nelle numerose pievi di pertinenza, riservando per sé la possibilità di abitarci in caso di necessità. La donazione ed il ripristino del monastero, nelle sue funzioni religiose, fu approvato e sancito nel 1504 da papa Giulio III. Aldello continuò la sua attività nella diocesi di Sovana, fino alla sua morte avvenuta nel 1510.
Fabio (1567 - † 1629). Fu vescovo di Massa Marittima. Viene ricordato, tra le altre cose, per aver commissionato uno degli altari della Chiesa di Santa Maria di Provenzano a Siena, compresa la preziosa tela della Messa di san Cerbone di Rutilio Manetti.
Niccolò (1628 - † ?). Ebbe l'incarico, presso la Curia romana, di Segretario dei Memoriali di Alessandro VII.
Niccolò (1470 ca. - † ?). Questo componente della famiglia ebbe due figli, uno dei quali,
Girolamo (1510 ca. - † ?), si distaccò creando una nuova linea, che prese il cognome di Piccolomini della Triana.
Spinello (1510 ca. - † ?), continuò la linea dei Salamoneschi per altre quattro generazioni, allorché uno dei suoi discendenti, altro Niccolò, creò la linea dei Piccolomini Naldi Bandini. Dopo sette generazioni, sempre partendo da Spinello, con Giulio Cesare, i Piccolomini Salamoneschi, per effetto dell'eredità d'Aragona, cambiarono, definitivamente il cognome, in Piccolomini d'Aragona.

Piccolomini della Triana

Francesco Piccolomini della Triana, VIII Preposito generale della compagnia di Gesù
Questo ramo, scaturito dalla linea dei Piccolomini Salamoneschi, contò nelle sue line diversi, cavalieri di Malta, religiosi e padri gesuiti. A differenza degli altri Piccolomini, fu utilizzato nello stemma, il capo dell'impero con l'aquila bicipite, anziché quella tradizionale ad una testa. Dopo il distacco dalla linea primogenita, si perpetuarono per altre sei generazioni, fino alla metà del XVII secolo. Periodo, durante il quale, diversi personaggi diedero notorietà alla famiglia, tra i quali, di rilievo è stato un padre gesuita, Francesco: teologo, filosofo e insigne prelato.

Francesco (1582 – † Roma 1651), di Lelio di Girolamo. Figura da sottolineare per la sua rettitudine morale e la sua grande devozione religiosa. Divenne gesuita all'età di 18 anni e successivamente professore di filosofia e teologia nel Collegio Romano. Dopo aver retto diverse provincie dell'ordine, divenne nel 1649 Preposito generale della Compagnia di Gesù.

La linea dei Signori della Triana, si sarebbe estinta, se l'ultima nata, Agnese, in linea con le regole consortili, non si fosse sposata, (nel 1640 ca.) con il cugino Spinello, ultragenito dell'originario ramo dei Piccolomini Salamoneschi. Nel 1895, però, anche questa linea si estinse con Nicolò, che lasciò erede dei suoi beni, che comprendevano anche il Palazzo di Pienza, il lontano cugino Silvio dei Carli Piccolomini, che portò così la signoria e il predicato della Triana nell'altro grande ramo della famiglia, generato da Rustichino.

Piccolomini Naldi Bandini

Questi Piccolomini uscirono dall'asse dei Salamoneschi, con Niccolò (1675 ca. - † ?) , figlio di Orazio. Questi essendo uno dei figli minori di quella generazione ed escluso da grandi lasciti ereditari, rischiava di dover abbracciare la carriera religiosa, per la quale non era portato, o rimanere celibe non potendo formare una famiglia degna dei livelli del suo censo. Nonostante queste reticenze, decise di sposare Barbara Naldi, il cui cognome apparteneva ad una famiglia patrizia senese in via di estinzione. Lo zio di quest'ultima, Mattia Naldi, medico ed erudito di altissimo livello, ultimo componente maschile della famiglia, non aveva discendenza. Viveva presso il Palazzo Apostolico a Roma, ricoprendo la carica di Archiatra pontificio, al servizio del suo conterraneo e amico, Papa Alessandro VII. Depositario del patrimonio di famiglia, decise di investire della primogenitura, Niccolò Piccolomini Salamoneschi, marito della nipote Barbara, con l'obbligo, però di rinunciare al suo stemma e cognome, per assumere quelli dei Naldi. Condizione che, accolta, riportò la sua situazione patrimoniale, se non ai livelli magnatizi dei familiari, ad un ambito consono al suo rango.

Da questi inizio la linea Naldi. Toccò al nipote Flavio, (1749 - † ?), acquisire nuovamente il cognome e lo stemma Piccolomini, rientrando nella consorteria, tramite il matrimonio con Caterina, ultima nata dei Piccolomini di Modanella. Infine lo stesso Flavio, per decisione della consorteria, fu destinatario della grande eredità Bandini.

Assunse definitivamente il cognome Piccolomini Naldi Bandini, costituendo uno dei due rami dei Piccolomini originari. ancora viventi nel XXI secolo.

Piccolomini d'Aragona (già Piccolomini Salamoneschi)

Dopo il distacco dei Piccolomini della Triana e dei Piccolomini Naldi Bandini, il ramo dei Piccolomini Salamoneschi continuò, ma mutò il cognome per effetto dell'eredità dei Piccolomini d'Aragona.

Giulio Cesare(1750 ca. - † ?) ereditò, nel 1807, dai lontani cugini napoletani Piccolomini d'Aragona, il cognome d'Aragona, il ducato d'Amalfi, i principati di Nachod e di Valle e la baronia di Scafati.
Giacomo (Siena 1795 - † Siena 1861) Trascorse la sua infanzia a Siena, dove ebbe la sua prima educazione scolastica. Ordinato sacerdote, divenne Primicerio della Cattedrale di Siena. Successivamente si recò a Roma, dove prese dimora nel Palazzo Altieri Spinola, a piazza Campitelli

Giacomo Piccolomini

Pio IX

. Frequentò nel 1816 l'Accademia Pontificia, dove ultimò la sua formazione ecclesiastica.
Fu elevato al rango cardinalizio da Papa Gregorio XVI, nel 1845. Durante la sede vacante dell'anno successivo, partecipò al tormentato conclave. che elesse il nuovo Papa Pio IX.
Dopo due anni nel 1848, durante i tumulti che portarono alla proclamazione della repubblica Romana, fuggì insieme al pontefice, condividendone l'esilio. Fu sempre a fianco del papa, e continuò ad accompagnarlo, quando il 4 Settembre 1849, a bordo del vapore Tancredi, lasciò la fortezza di Gaeta, suo primo luogo di confino.
Nella Reggia di Portici, fece parte della ristretta corte Pontificia, costì ritirata e costituita dai cardinali Tommaso Riario Sforza, Camerlengo, Giacomo Antonelli, Segretario di Stato e Fabio Maria Asquini dignitario pontificio.
Il 12 Aprile 1850, alla restaurazione dello Stato Pontificio, rientrò con il Papa a Roma, dove ebbe incarichi di Curia. Negli ultimi anni tornò a Siena dove morì nel 1861.

Nel corso del XX secolo, questa linea dei Piccolomini, si è estinta nel 1985, con il conte Alberto che dal matrimonio con Elda Ciacci non ebbe discendenza maschile.

Piccolomini di Modanella

Questo ramo fu originato da Conte di Guglielmo. Dopo le sanguinose guerre intercorse tra le fazioni della Repubblica durante il XII secolo, Conte insieme al padre fu tra quelli, che giurarono la pace definitiva tra Guelfi e Ghibbelini. Conte ricevette in eredità il castello di Modanella. Località dalla quale prese il nome questa linea.

I personaggi notabili furono diversi. Se ne ricordano brevemente solo alcuni.

Antonio (Siena 1425 ca. - Siena † 1459). Monaco dei Camaldolesi, fu il 1º Arcivescovo di Siena.
Andrea (1400 ca. - † ?) di Mino, detto Ciscranna, fu poeta di discreta fama e ricordato in numerose pubblicazioni, tra cui il Crescimbeni.
Fausta (1525 ca. - † ?) discendente di Niccolò di Andrea, fu un personaggio particolarmente originale ed inconsueto per l'epoca. Durante il lungo assedio della città di Siena, fu una delle tre nobildonne senesi che ebbe il comando di una truppa tutta femminile come ricorda Biagio di Monluch nei suoi commentari[40]. Si distinse particolarmente nella difesa del convento di Santa Chiara. Portava come impresa una croce bianca e come motto pur che non la butto.
Scipione (1515 ca. - † ?) di Bernardino. Dopo la caduta di Siena, andò in esilio in Francia ed al seguito di Carlo IX, combatté contro gli Ugonotti, trovando la morte nella Battaglia di Moncontour (3 ottobre 1569).
Francesco (1570 ca. - † ?) di Giulio. Morì giovane lasciando vedova la moglie Onorata Vieri, che divenne prima dama di corte a Vienna, al seguito della principessa Claudia de' Medici che andò in sposa all'Arciduca Leopoldo V d'Austria. La Vieri rimase presso la corte asburgica per ventotto anni, ove rivestì un ruolo influente e di prestigio. Richiamò presso di sé i figli Liduino e Giulio, che passarono parte della loro giovinezza a Vienna, acquisendo benefici e riconoscimenti da parte dell'Imperatore Ferdinando III d'Asburgo.
Francesco (1606 ca. - † ?) di Francesco, Capitano del Popolo, nel 1652, insieme al fratello Giulio, letterato, in seguito al riordino delle antiche carte familiari, redasse un dettagliato albero genealogico, che per mano dei maestri incisori Antonio Ruggeri e Giorgio Vidman, divenne una vera e propria opera d'arte
Stemma Piccolomini Conti del Sacro Romano Impero.png Liduino - Conte del Sacro Romano Impero (1648)

Liduino (n. 1615 - † 1681) di Francesco. Fu preposto della Cattedrale di Trento. Curò il restauro di varie strutture, tra cui il Palazzo della Prepositura, che aveva accolto molti prelati illustri, durante il Concilio, ed in precedenza, anche lui come preposto, lo stesso Enea Silvio, poi Pio II.

Personaggio colto e raffinato, viene ricordato come proprietario della raccolta d'arte più prestigiosa mai sorta in territorio trentino, parte della quale è conservata nella Pinacoteca di Siena. Fu il procuratore dei vari vescovi che si succedettero nel Principato vescovile di Trento. Dotato di una perizia diplomatica non comune, fu ago della bilancia nelle frequenti controversie che avvenivano tra i potenti signori feudali del territorio. Territorio che fra l'altro stava molto a cuore dell'imperatore Ferdinando III d'Asburgo. Tali uffici e i molti altri svolti, durante il suo lungo mandato, gli valsero, nel 1648, la nomina a conte del S.R.I., titolo che fu esteso ai suoi fratelli e a tutti i componenti maschi della famiglia.
Fu anche il procuratore del cardinale Ernesto Adalberto d'Harrach, il quale durante il suo breve mandato fu quasi sempre impegnato in altre sedi. Per questo motivo Liduino ebbe un ruolo importante ed esclusivo nell'organizzare l'accoglienza ed il successivo viaggio verso Vienna, della Principessa Margherita, figlia di Filippo IV di Spagna, e promessa sposa dell'imperatore Leopoldo I. Circostanza questa che gli permise di acquisire visibilità nei confronti della futura imperatrice.
Viene ricordato con un busto marmoreo, lo stemma gentilizio e diverse epigrafi, inseriti sulla facciata del Palazzo della Prepositura. Il suo sarcofago è custodito nella cattedrale.
Antonio (1667 ca. - † ?), nipote (ex frate) di Liduino e figlio di Francesco, anch'egli prelato, fu preposto della Cattedrale di Taranto. Seguì lo zio, nel Principato Vescovile di Trento, dove presidiò il territorio, occupandosi del risanamento di diversi luoghi. In particolare fu a capo dell'antico priorato di Sant'Egidio o di Ospedaletto, di cui curò il profondo restauro, così lontano dalla sua patria senese.

Enea (1643 - † 1689), nipote (ex frate) di Liduino e figlio di Francesco. Stabilitosi a Vienna in giovane età divenne militare di professione e nel contempo uomo di fiducia dell'Imperatore, ricoprendo la carica di Cavaliere delle Chiavi d'Oro e Ciambellano. Ebbe un ruolo importante nella Battaglia di Mohács del 1687, ove, come tenente generale e al comando di alcuni reggimenti, riuscì al impedire l'accerchiamento dell'ala sinistra dell'esercito imperiale, da parte della potente cavalleria turca Spahi. Successivamente nella campagna dei Balcani, contro gli Ottomani, guidò un esercito che si spinse fino in Macedonia. Alcune fonti, gli attribuiscono l'incendio che distrusse Skopje, nel 1689, che egli avrebbe ordinato per contrastare l'epidemia di colera, esplosa nel capoluogo macedone.
Mentre conduceva le trattative per ripristinare l'autorità del patriarca Arsenije III Čarnojević, fu colpito dalla malattia ed in breve tempo morì.
Francesco Maria (1695 - † ?) di Niccolò fu l'ultimo vescovo di Pienza, allorché questa diocesi nel 1772 fu unita a quella di Chiusi.
Enea (1703 - † ?) di Niccolò, al servizio dell'imperatore, divenne Generale Imperiale. Morì in battaglia in Transilvania.
I Piccolomini di Modanella si estinsero con due femmine entrambe con il nome di Caterina.

Caterina (1750 - † ?) di Antonio si unì in matrimonio con il barone Giuseppe Spannocchi nel 1774, che entrò a far parte della consorteria, con partizione dello stemma gentilizio, l'acquisizione del titolo comitale e l'anteposizione, al proprio, del cognome Piccolomini. I Piccolomini Spannocchi si estinsero nel XIX secolo.
Caterina (1760 - † 1803) di Muzio si unì in matrimonio con Flavio Naldi, nella seconda metà del settecento. Il nonno di Flavio era un Piccolomini Salamoneschi, ma rinunciò al cognome, assumendo quello di Barbara Naldi, sua moglie, inquartandone anche lo stemma. Due generazioni dopo, Flavio, sposando Caterina di Modanella, ottenne il rientrò nella consorteria, e aggiunse a quello dei Naldi, il cognome Piccolomini (Vedi).

Ramo di Rustichino

Il ramo di Rustichino, a differenza di quello di Bartolomeo, si distingue per aver prodotto diverse ramificazioni, ricche di grandi personaggi che hanno reso illustre il nome dei Piccolomini, al di fuori della patria senese, Oltre i noti pontefici, si annoverano prelati di alto rango, uomini d'arme al servizio dell'Impero e del Papato, oltre uomini di scienze, di lettere e d'arte. Tra i figli di Rustichino, che fu Console nella nascente Repubblica nel 1228, troviamo Ranieri.

Ranieri (1180 ca. - † ?), compare nel 1207 come Camerlengo del Comune di Siena. Nel 1213 partecipò all'atto di pacificazione tra la Repubblica e i conti dell'Ardenghesca, dai quali, in seguito, la famiglia avrebbe acquisito diverse proprietà, tra cui il castello di Sticciano, che era stato il centro del piccolo, ma potente regno maremmano di quei feudatari. Ebbe diversi figli, dei quali, Rustichino continuò la linea primogenita, mentre da Rinaldo si distaccò la linea dei Piccolomini della Torre a Castello
Rustichino, detto Metita, della cui discendenza si approfondirà in seguito, fu al governo della Repubblica. Nel 1251 curò l'arbitrato tra i Conti di Santa Fiora e Grosseto. Nel 1254 presenzia all'atto di pace tra Siena, Firenze, Orvieto, Montepulciano, Conte Guglielmo di Maremma e Pepo della Rocca Tederighi. Ebbe numerosi figli, tra cui il più importante da ricordare è in dubbiamente Tommaso, non tanto per le opere compiute in vita, ma per il fatto che diede origine al Ramo di Pio II e delle Papesse
Gioacchino (1258 - † 1305).

Beato Gioacchino

 Conosciuto anche come Giovacchino, al battesimo era iscritto come Chiaramonte. Risulterebbe figlio di Rustichino, ma, tra i suoi biografi, c'è disaccordo. Viene attribuito alla famiglia Pelacane e, dopo l'estinzione di quest'ultima, a quella dei Piccolomini. Entrò nell'Ordine dei Servi di Maria, non ancora adolescente, all'età di 14 anni, con speciale dispensa. La leggenda vuole, che per liberare un infermo dalla grave e incurabile malattia dell'epilessia, abbia chiesto al signore di trasferire su se stesso quest'infermità. Esaudito, nella sofferenza e nella pazienza, portò, nella vita, questo male. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1305, si sono susseguiti numerosi miracoli a lui attribuiti. Quattordici, come vuole la tradizione. Ad otto anni dalla sua morte la sua fama di taumaturgo, si espande in tutta la Toscana e varca gli Appennini per approdare in Romagna e nel nord di Italia. Paolo V autorizzava il 21 marzo 1609 l'iscrizione di Gioacchino come beato nel Martirologio Romano.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Gioacchino Piccolomini.
Ranieri (1238 ca. - † ?). Figlio anch'egli di Rustichino, durante i conflitti tra Guelfi e Ghibellini, si oppose alla città, a capo di un gruppo di fuoriusciti. Nel 1260, decise di sottomettersi a Siena, cominciando a partecipare alla attività di governo della Repubblica. Nel 1259 diventa podestà di Montepulciano. Anche suo fratello, Arrigo si oppose strenuamente ai ghibellini, ma anche lui nel 1280, finì per capitolare.
Mocata (1295 ca. - † ?). Figlio di Gabriello di Ranieri, presenziò alla stipula della convenzione che affidava la signoria di Siena per cinque anni al Duca di Calabria Carlo d'Angiò. Con i figli di Mocata e dei suoi fratelli, il patrimonio della famiglia si incrementò notevolmente, ma la sua discendenza si estinse alla fine XIV secolo.
Gabriello di Rustichino di Ranieri,insieme ai suoi figli, Carlo, Neri, Gualtieri e Tato, accumulò una ragguardevole ricchezza. La famiglia, alla fine del XIII secolo, aveva diversi possedimenti a Rapolano, Casole, Santa Regina, Asciano, Armaiolo, Follonica, Fornicchiaia, Rencine, S. Mamiliano,Radi, Capraia, San Viene, Arbiola e Valdimontone.
Carlo di Gabriello diede inizio alla linea che si distinse dalle altre per l'aggiunta patronimica del suo nome di battesimo. Ebbe diversi figli tra i quali vanno ricordati, Biagio, Francesco e Bandino. Le rispettive line genealogiche sono riportate nella sezione dedicata ai Carli Piccolomini

Piccolomini della Torre a Castello

Questa linea discendeva direttamente da Ranieri di Rustichino e si estinse nel XIX secolo. Non mancò di produrre insigni personaggi.

Rinaldo (1205 ca. - † ?) di Ranieri, aveva dei possedimenti vicino ad Asciano ed un castello nella località Torre a castello, dalla quale prese il nome la sua prosapia.
Enea (1235 ca. - † ?). Figlio di Rinaldo, dimostrò grandi capacità, sia in campo militare che diplomatico. Di parte guelfa, fu ambasciatore sia presso il papa Gregorio X (1271), che presso l'imperatore Rodolfo I d'Asburgo (1272). Partecipò all'arbitrato che porto la pace con i Salimbeni e fu partecipe degli atti che conclusero la pace tra guelfi e ghibellini. I suoi discendenti, nel corso dei secoli successivi, parteciparono attivamente alla vita della Repubblica.
Questa linea, prima della sua estinzione, diede i natali ad alcuni personaggi notabili e di rilevanza storica:
Archangelo o Arcangelo Piccolomini (Siena 1525 - † Roma 1586). Nativo di Siena, divenne cittadino di Ferrara per privilegio. Compì i suoi studi, nel campo della medicina e della filosofia a Ferrara ed è stato ritenuto uno dei più valenti scienziati anatomici del XVI secolo.

Archangelo Piccolomini

In giovane età, nel 1550, si recò in Francia ove ebbe presso l'Accademia di Bordeaux, la cattedra di filosofia. Nel 1556 compilò, dedicandolo al Vescovo di Ceneda, Michele della Torre e nunzio apostolico a Parigi, un ampio commentario del trattato di Galeno De Humoribus. Libro, a quei tempi molto raro, di cui aveva curato personalmente la traduzione dal greco al latino.
Nel 1557, rientrò in Italia, ove, preceduto dalla sua fama, fu chiamato a Roma dal papa Paolo IV, che lo nominò Archiatra Pontificio. Carica che mantenne anche sotto i successivi papi Pio IV e Gregorio XIII. Nel periodo romano, ottenne la cattedra di medicina ed anatomia allo Studio della Sapienza. Nel 1586 pubblicò il trattato di anatomia Anatomicae praelectiones explicantes mirificam corporis humani fabricam, che dedicò a Papa Sisto V, che si era appena insediato. Lo stesso anno morì e fu sepolto nella chiesa di Santa Maria della Minerva.
Da un punto di vista scientifico, descrisse dettagliatamente il pannicolo adiposo, il diaframma e i muscoli addominali, isolò e descrisse i nervi cerebrali, ponendo una netta distinzione tra materia grigia e tessuto midollare.

Enea Silvio Piccolomini 1709 -1768

Questo personaggio, anche se non ci sono, attualmente, riscontri genealogici certi, dovrebbe trovare collocazione in questa linea genealogica, dove, a differenza delle altre, il nome Arcangelo ricorre più volte.

Tommaso (1708 - † ?). Gestì il difficile periodo di transizione, tra i Medici ed Lorena. Fu inserito da Francesco Stefano nel "Conseil intime pour les affaires de Toscane", a Vienna, dove curò gli interessi dei ceti di governo locali nel processo di amalgama tra la classe dirigente viennese e quella toscana. Rientrato in patria divenne ministro degli esteri del Gran Ducato fino al 1785.
Enea Silvio (Siena 1709 - † 1768. In età giovanile scrisse commedie e poemi che ebbero una certa fortuna letteraria. In seguito fu chiamato al sacerdozio. Divenne canonico della Chiesa di Santa Maria di Provenzano ed in questo periodo approfondì gli studi, acquisendo il dottorato in filosofia ed in teologia. Nel 1729, si trasferì a Roma, dove, favorito da amicizie importanti, divenne famigliare di Papa Clemente XII, il quale, nel dicembre 1730, lo nominò ciambellano pontificio d'onore e fu introdotto anche nella corte imperiale di Carlo VI d'Asburgo dove come ablegato apostolico portò l'investitura cardinalizia a Girolamo Grimaldi. Successivamente ricevette diversi incarichi dai pontefici, fino a quando Papa Clemente XIII lo elevò al rango cardinalizio nel 1761. Fu nominato legato in Romagna, dove, a Rimini, morì nel 1768.
Magnifying glass icon mgx2.svg Lo stesso argomento in dettaglio: Enea Silvio Piccolomini (cardinale).

Ramo di Pio II e delle Papesse

Questa linea discende direttamente da Rustichino, tramite altro Rustichino di Ranieri. Dotata di grandi mezzi, finanziò il comune di Siena in diverse occasione, divenendone largamente creditrice. Tolomeo insieme ai cugini Ranieri di Rinaldo e Bartolomeo di Guglielmo Salamoneschi, viene ricordato nel 1258, come creditore di Corrado d'Hochstadt, Arcivescovo di Colonia, per l'importante cifra di 4600 marche sterlinghe[60], destinate, probabilmente, ai lavori della Cattedrale di Colonia dei Santi Pietro e Maria. I suoi figli Gabriello e Corrado, a cavallo del XIII e XIV secolo, si impegnarono a consolidare il loro patrimonio fondiario e immobiliare, nella zona di Corsignano. Da Corrado, dopo tre generazioni, troviamo Silvio che nel 1405 sposa Vittoria Forteguerri. Da questo matrimonio nacque Enea Silvio, divenuto poi Papa Pio II.

Stemma Piccolomini con tiara e ornamento papali.png Pio II 210º papa della Chiesa cattolica (1459 - 1464) Papa Pio II . Enea Silvio Piccolomini.jpg

Enea Silvio (Corsignano 1405 - Ancona 1464). Fu il maggiore di 18 fratelli. Iniziato agli studi di giurisprudenza per volere del padre, fin da giovanissimo fu attratto dagli studi umanistici e dal ridondante fascino di Filelfo e di altri umanisti del tempo.

Callisto III eleva Enea Silvio Piccolomini a Cardinale

Di grande livello fu la sua cultura nelle lettere latine e greche. Compositore di poesie in latino e in volgare.
Come laico, sin dall'età giovanile, divenne segretario di diversi alti prelati. Nella disputa scaturita durante il concilio di Basilea, tra numerosi padri conciliari ed il papa Martino V prima, ed il suo successore Eugenio IV dopo, si schierò, apertamente, contro quest'ultimo. Tenne nel 1439 la cura esterna del conclave che elesse l'antipapa Felice V (al secolo Amedeo VIII di Savoia), di cui divenne segretario. Al servizio di Bartolomeo Visconti, Vescovo di Novara, tentò lo stesso anno, di favorire l'arresto di papa Eugenio IV, che era esule a Firenze, ma scoperto, prese la via dell'esilio.
Al seguito del cardinale Niccolò Albergati, si rifugiò in Borgogna e per conto dello stesso, si recò in Scozia, per poi tornare a Basilea, dove, come scrittore e resocontista del concilio, continuò la sua lotta antipapale. In questo periodo ottenne, per le sue capacità, importante visibilità, ribadita dalla pubblicazione di un Libellus, in cui difese con ardore e determinazione (1440), l'autorità e la supremazia del concilio nei confronti del papa.
Nel 1442 accadde un episodio importante nella sua vita: inviato alla dieta di Francoforte sul Meno, fu onorato con la corona di poeta, dall'imperatore Federico III, che, in particolare, lo assunse come segretario della cancelleria imperiale. Negli uffici di corte, iniziò un nuovo percorso, che mutò profondamente il suo atteggiamento sulla questione conciliare. Questo nuovo corso lo portò a preferire allo scontro diretto, la via diplomatica e della composizione. Fu inviato nel 1445 ambasciatore a Roma, dove ritrattò con convinzione tutte le teorie sostenute in passato, ottenendo l'assoluzione ed il perdono di Eugenio IV. L'anno successivo, nel marzo del 1446, decise di abbandonare la vita laica e preso da autentico fervore religioso, fu ordinato diacono, poi presbitero per andare, come canonico, nel duomo di Trento.
Nel 1453, grazie ai numerosi servigi diplomatici resi, ottenne dall'imperatore Federico, il titolo di conte palatino, esteso a tutti i componenti maschi della famiglia, nonché il privilegio di inserire nello stemma gentilizio il capo dell'impero.
Nella sua attività di pontefice, non dimenticò mai la sua famiglia, che volle mantenere potente ed unita, istituendo l'accennata Consorteria. Non nascose mai il suo atteggiamento nepotistico, combinando prima il matrimonio del nipote Antonio con una figlia naturale di Re Ferrante d'Aragona, dando poi la porpora cardinalizia al nipote Francesco (futuro papa Pio III). Distribuì, poi, vasti feudi agli altri figli della sorella Laudomia, sposa di Nanni Todeschini Piccolomini. Gli episodi, descritti, indicano solo gli esempi più eclatanti.
Va inoltre ricordato il suo amore per l'arte. A Siena fece costruire le logge dette del papa, il grande Palazzo delle Papesse e diede inizio alla costruzione del palazzo Piccolomini. Trasformò, sotto la guida del Rossellino la sua nativa Corsignano, in quello che sarebbe diventato un gioiello del fiorente Rinascimento italiano: Pienza.

Dalle due sorelle di Pio II, che, per effetto dei vincoli consortili, portarono, ai rispettivi mariti, il cognome Piccolomini, nacquero due ramificazioni importanti, volgarmente dette delle Papesse. Qualificazione onorifica, assegnata alle sorelle, dallo stesso pontefice. Il predicato delle Papesse, in effetti non fu mai ufficialmente usato, anche se i senesi, solevano attribuirlo ai Piccolomini Pieri, signori di Sticciano, discendenti di Caterina, che avevano assunto come dimora, il palazzo dedicato alle due sorelle del papa.

I rami delle Papesse sono ricordati rispettivamente come:
Piccolomini Todeschini, dai quali scaturirono, I Piccolomini Todeschini, Signori del Giglio e di Castiglione della Pescaia, Papa Pio III, i Piccolomini d'Aragona e i Piccolomini di Castiglia e d'Aragona.


Piccolomini Pieri, Signori di Sticciano.

Entrambi questi due rami, con i loro prelati, uomini d'arme e di governo, costituirono la parte più nobilitante della famiglia.

Carli Piccolomini

Questa linea nasce da Carlo, di Gabriello di Rustichino e si divise subito agli inizi del XIII secolo in tre ramificazioni.

Biagio, da cui scaturì il ramo, che prese il nome di Piccolomini del Mandolo detti anche Piccolomini Mandoli.
Bandino, da cui nacque una larga progenie, le cui diramazioni si estinsero nel XIX secolo.
Francesco, da cui continuò il ramo primogenito dei Carli Piccolomini, dopo l'estinzione di quello di Bandino.

Ramo di Biagio - Piccolomini del Mandolo

Come accennato, Biagio, figlio di Carlo diede inizio a questo ramo, i cui componenti, pur non essendo noti per rilevanza storica, sono stati molto presenti nelle cronache senesi, per il loro alto livello sociale e culturale. Inoltre questa genealogia conta un numero considerevole di vescovi e arcivescovi.

Furono da sempre dotati di grandi mezzi e nei primi anni del XVI secolo acquistarono l'importante Palazzo Marescotti, uno dei più prestigiosi di Siena, situato nei pressi di Piazza del Campo. A loro si deve la committenza delle decorazioni pittoriche in stile raffaelliano, presenti nel loggiato esterno ed anche il fregio istoriato rappresentante storie di Pio II, nonché altri diversi affreschi che si trovano distribuiti in numerose stanze. Diedero all'austero palazzo medievale, l'assetto rinascimentale che ancora si conserva.

Niccolò (1400 ca. - † 1467). Inizialmente Canonico senese, fu chiamato alla corte pontificia da Pio II. Nel 1461 fu eletto Accolito Pontificio, divenendo Cameriere Segreto. Nel 1462 ottenne il suddiaconato e fu familiare e commensale del papa. Il 3 agosto 1464 divenne Arcivescovo di Benevento.

 Su di lui scrisse un panegirico il Papiense (Cardinale Giacomo Ammannati Piccolomini). Deve la sua notorietà ad una bolla pontificia, con la quale Paolo II, vietò l'uso del Triregno e del Camauro, che, in modo anomalo, egli stesso portava, secondo l'uso consolidato della Arcidiocesi. Nella stessa bolla fu altresì negato l'uso di far precedere, nelle visite pastorali nella diocesi, la Santissima Eucaristia.
Nel 1451 l'Arcivescovo si recò nella diocesi di Montalcino dove consacrò la chiesa del Convento dell'Osservanza. Nel 1467 fu qui sepolto nel sepolcro scolpito dal Vecchietta.
Niccolò (1439 - † ?) Decano della Sacra Ruota. Nominato da Papa Clemente VII.
Girolamo I (1465 ca. - † 1520). Nel 1498 fu eletto vescovo di Pienza e Montalcino. Non fu molto presente nella diocesi. Nel 1510 lasciò l'incarico ad un altro componente della famiglia. Mori nel 1520.
Girolamo (1494 ca. - † 1550). Uno degli uomini politici e di governo più influenti di quel tempo. Fu strettamente legato ad Alfonso duca d'Amalfi, durante il governatorato di quest'ultimo a Siena. Fu dotto in filosofia e in letteratura. Accademico intronato con lo pseudonimo di L'Astratto,. viene citato da Alessandro Piccolomini nell’Institutione come esempio di magnificenza filosofica e culturale. Fra le sue opere viene ricordato il Dialogo sulla quistione se sia meglio amare o essere amato. I suoi impegni di governo, nella delicata fase politica della Repubblica, non gli permisero di coltivare questa sua vocazione letteraria e filosofica. Durante una missione diplomatica a Roma presso Giulio III, atta a scongiurare l'aggressiva prepotenza di Carlo V, di fronte all'esito negativo dell'intervento, morì per un malore.

Francesco (1572 ca. - † 1622. Fu vescovo di Grosseto dal 1611 al 1622.
Alessandro II (1607 ca. - † 1661). Fu vescovo di Chiusi dal 1657 al 1661.

Questo ramo della famiglia si estinse alla fine del XVII secolo, quando un altro Girolamo prese in moglie Giuditta Amerighi, che gli diede una numerosa progenie, della quale, però, solo due figlie si sposarono, Agnese Rosa che andò in sposa a Vicenzo Frosini e Caterina che andò in sposa a Giuseppe di Pandolfo Pannellini (Pannilini), mentre i sei figli maschi morirono, senza discendenza. Nel 1770 il prestigioso palazzo di famiglia, passò ai Saracini e nel 1877 Alessandro Saracini lo destinò, per testamento, al nipote Fabio Chigi Saracini che lo destinò a sua volta al nipote Guido Chigi Saracini che lo conferì, nel 1932, alla Fondazione della Accademia Chigiana per la Musica.

Ramo di Bandino - Prima linea dei Carli Piccolomini

Questa linea è stata quella primogenita di Rustichino. Assunse il cognome patronimico di Carli Piccolomini dal padre di Bandino, Carlo.

Bandino (1285 ca. - † ?) ebbe due figli Carlo ed Angelo, dai quali scaturirono due linee che si estinsero rispettivamente nel XVIII e XIX secolo, che, tuttavia, produssero numerosi prelati e personaggi notabili.
Da Carlo di Bandino discesero:

Girolamo II (1470 ca. - † 1535) Eletto vescovo di Pienza e Montalcino, fu il primo nella diocesi a fregiarsi del titolo di Abate di Sant'Antimo. Ebbe molti incarichi pontifici. Partecipò al Concilio Lateranense V. La repubblica non mancò, nonostante i suoi impegni ecclesiastici, di affidargli incarichi politici e diplomatici. Fu governatore di Orvieto. Durante il suo episcopato divise le due diocesi che amministrava, affidando quella di Pienza al fratello Alessandro.

Alessandro (1510 ca. - † 1563) Senese, fratello del predecessore Girolamo e già vescovo di Pienza, alla morte di questi divenne vescovo anche di Montalcino, riunendo le due Diocesi momentaneamente separate. Partecipò al Concilio di Trento. Nel 1554 rinunciò al governo delle Diocesi e morì nel 1563.

Francesco Maria (1515 ca. - † 1599) Vescovo di Pienza e Montalcino, nel 1554 subentrò, al fratello Alessandro, nel governo della diocesi. Fu l'ultimo Piccolomini ad amministrare Montalcino, dove rimase, durante il suo lungo episcopato, fino al 1599. Partecipò al Concilio di Trento. Nel 1561 fu chiamato a Roma per la consacrazione della chiesa di Santo Spirito,. Nel Museo d'arte sacra della diocesi di Grosseto esiste una sua sua immagine ritratta nel dipinto di Alessandro Casolani, La Crocifissione con la Madonna, i santi Girolamo, Andrea e Francesco, da lui donato a quella diocesi.
Francesco di Niccolò (Siena 1522 - † Siena 1604). Da non confondere con altro Francesco di Lelio, filosofo e generale dei Gesuiti.

Francesco di Niccolò, fu un insigne filosofo aristotelico. Svolse i suoi studi a Padova, discepolo del Zimara. Fu professore di filosofia, presso le università di Siena, Macerata, Perugia, e Padova. Studiò profondamente la filosofia aristotelica, rivendicando, in senso cristiano e spiritualistico, la centralità dell'uomo e del suo universo, opponendosi con determinazione a qualsiasi forzatura filologia e teorica voluta dalle interpretazioni erudite dell'aristotelismo contemporaneo. Accese furono le dispute con altri filosofi del tempo, come, per esempio Zabarella. Le sue numerose opere filosofiche furono pubblicate in quattro volumi, con il titolo di Opera philosophica (1600).

Alessandro Piccolomini

 Nella sala della Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università di Padova, in riconoscimento della suo operato, si conserva un suo ritratto..

Giovanni Battista (1555 ca. - † 1637) Nipote di Francesco Maria, fu vescovo di Salamina, poi vescovo suffraganeo di Santa Sabina ed infine vescovo di Chiusi dal 1633 al 1637.
Da Angelo di Bandino discesero:

Alessandro (1420 ca. - † ?) Laico e maestro di casa del Pontefice Pio II. Fu da questi fatto senatore di Roma nel 1460. Scoprì una congiura condotta da alcune famiglie romane, per estromettere il papa dal soglio pontificio. Assicurò alla giustizia molti cospiratori, alcuni dei quali furono messi a morte. Tornato in patria, nel 1481 lo troviamo impegnato nell'amministrazione politica e governativa di Siena.

Alessandro (1508 - † 1578) Insigne personaggio, figlio di Angelo del precedente Alessandro ed accademico intronato, fu professore di filosofia e astronomo, nonché coadiutore dell'Arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini. Divenne Vescovo di Patrasso, anche se non si occupò effettivamente della diocesi greca. In età giovanile si dedicò al teatro comico. Ha lasciato diverse opere sia in campo filosofico che letterario. Diversi sono i suoi trattati di astronomia.

Ramo di Francesco - Seconda linea dei Carli Piccolomini

Questa linea, secondogenita e poi unica sopravvissuta del ramo di Rustichino, visse, prevalentemente, a Siena ed i suoi componenti, generati da Francesco (1300 ca. - † ? ) si dedicarono alla vita politica della Repubblica, dove furono presenti, con diversi Capitani del Popolo, consiglieri e provveditori. Sono presenti, anche, due cavalieri di Santo Stefano e un cavaliere di Malta, nonché artisti ed eruditi.

Pietro (1418 - † 1484). Aveva predisposto l'acquisto del castello di Ripa d'Orcia, già feudo dei Salimbeni, il cui territorio era compreso tra i fiumi Asso e Orcia, da una parte e le corti di Vignoni e San Quirico, dall'altra. Acquisto che fu poi perfezionato nel 1484 dalla moglie Francesca.

Bartolomeo (1503 - † 1535 o 1538). Coetaneo di un altro grande erudito della famiglia, Alessandro, ebbe una educazione particolarmente intensa, sotto la guida di maestri notabili di Siena ed anche provenienti da altre città. Ne uscì un giovane colto e preparato, in diversi campi accademici, che spaziavano dal latino e greco, alla storia, all'astrologia, alla cosmografia e alla matematica.

 Non tralasciò neanche musica e pittura. Nella sua breve vita, si impegnò in campo politico, divenendo, consigliere del Capitano del Popolo ed avendo alcuni incarichi diplomatici. Entrò, di prepotenza ed in età giovanile, nell'Accademia degli Intronati, assumendo lo pseudonimo di l' Attaccato. L'ambiente dell'accademia gli permise di esprimere le sue convinzioni ed il suo pensiero filosofico. Importante fu il sodalizio con Aonio Paleario e Claudio Tolomei, dei quali fu allievo, divenendo strenuo sostenitore delle loro convinzioni dottrinali. Scrisse diverse opere, non tutte passate alla stampa. In esse emerge convinta e consapevole una strategia volta a promuovere il volgare, in tutte le zone della cultura e vita sociale. Nella sua poliedrica produzione letteraria, diventa paladino di questa esigenza e, al riguardo, si impegna direttamente, come, per esempio, nella traduzione del IV Canto dell'Eneide. Il volgare viene comunque promosso in tutte le sue opere, siano esse, orazioni, trattati, poemi o poesie liriche scanzonate. Come esempio della sua consapevole strategia, si può citare l'orazione religiosa in lode di San Giovanni Battista, che fu la prima, composta in lingua Italiana, e non latina, ad essere recitata in Duomo.
Indubbiamente è questo un personaggio, da poco riscoperto dai ricercatori, che mette in luce l'afflato culturale ed il potenziale che avevano i giovani senesi, in tutte le discipline. Potenziale che invece, all'alba del rinascimento, con la perdita dell'identità nazionale, da parte della Repubblica, non riuscì ad esprimersi, compiutamente, come nel passato.

Bandino (1548 ca. - † ?). Viene ricordato per il suo estro artistico, con il quale si dilettò, a fare piccole sculture, che venivano utilizzate per lo più per decorare presepi. Le più famose, quelle raffiguranti San Bernardino e Santa Caterina, furono donate alla Chiesa di Santa Caterina da Siena dell'omonima Arciconfraternita[87] di Roma. Inoltre realizzò numerose statuette per il presepe di quella chiesa, ispirandosi a dame e cavalieri della corte, i quali, nelle visite che effettuavano, vi si potevano riconoscere, provocando curiosità ed ammirazione. Fino al punto, che il cardinale Gonzaga, rimasto ammirato dalla naturalezza, di una statuetta raffigurante un'ostessa, volle acquistarle tutte e portarle alla reggia di Mantova[87]. Delle statue dei santi è rimasta solo quella di Santa Caterina, scampata ai numerosi danni, causati dalle piene del Tevere. È conservata nell'oratorio dell'arciconfraternita, al primo piano dell'edificio annesso. Un altro presepe fu fatto da Bandino per la famiglia Falconi di Piazza Capranica.

Celio (Siena 1609 – † Siena 1681). Si laureò a Siena in giurisprudenza, subito dopo si recò a Roma accolto dai cugini Celio e Alessandro Bichi, che lo introdussero nella curia. Entrò ben presto nella stima di Urbano VIII, che lo nominò luogotenente dell'Auditore della Camera Apostolica. Fu utilizzato dal papa per brevi nunziatura presso la corte francese. Dopo la morte di Innocenzo X, il cugino Alessandro Bichi. divenuto cardinale, lo nominò suo conclavista e quindi poté essere presente nel conclave che elesse nel 1654, il senese Fabio Chigi, al soglio pontificio, col nome di Alessandro VII. Da questi, fu nominato Arcivescovo di Parigi e, contemporaneamente, nunzio apostolico a Parigi. La sua nunziatura, però non fu fortunata, per i conflitti sorti tra lo Stato Pontificio e la Francia. Dovette sopportare non pochi disagi. Richiamato in patria, nel 1664 ottenne la porpora cardinalizia, con il titolo di San Pietro in Montorio. Fu nominato legato in Romagna e nel 1670, tornò a Siena, come Arcivescovo e vi rimase fino al 1681, anno della sua morte.

Piccolomini Clementini

Questa linea genealogica è una derivazione di quella dei Carli Piccolomini, nata per effetto di alcuni importanti istituti patrimoniali che, attraverso vari matrimoni, l'hanno interessata. Istituti giuridici che hanno imposto ai suoi componenti di aggiungere, in occasioni degli intrecci delle diverse eredità, i cognomi Clementini, Febei ed Adami. Il cognome che ne è scaturito alla fine è stato quello dei Piccolomini Clementini Adami.

Emilio (1690 ca. - † ?). Nella prima metà del XVIII secolo, era uno dei discendenti dei Carli Piccolomini e sposò Maddalena Febei

Marietta Piccolomini Clementini

Quest'ultima divenne erede del fedecomesso istituito nella famiglia Clementini, dal conte Francesco di quella famiglia. In virtù di questa eredità Emilio, divenne Patrizio d'Orvieto, con l'obbligo di aggiungere, al proprio, il cognome Clementini e trasferirsi nella cittadina umbra. Con donna Maddalena si estinsero anche i Febei.
Così, in conclusione, i due figli di Emilio, Francesco Maria e Innocenzo, oltre il largo patrimonio della famiglia, si divisero, anche quello delle due famiglie dei Febei e dei Clementini, aggiungendo ciascuno i rispettivi cognomi.
Francesco Maria (1736 ca. - † ?). Iniziò la breve linea dei Piccolomini Febei
Giovanni Battista di Francesco Maria, sposò la fermana, Cecilia Adami, anche lei, ultima della sua famiglia. Quindi, ereditò il patrimonio Adami e i suoi figli cambiarono il loro cognome in Piccolomini Febei Adami,

Pietro di Giovanni Battista (1810 ca. - † ?) ebbe una figlia, Maria Cristina, che non avendo discendenti, con testamento del 7 settembre 1891 nominò erede universale del patrimonio Febei, un ospizio di beneficenza, con lo scopo di provvedere gratuitamente al ricovero, al mantenimento e all'assistenza di persone povere e malate. L'Istituto, prese il nome del padre e assunse il nome di Istituto di beneficenza Pietro Piccolomini Febei a Orvieto.

Lorenzo, altro figlio di Giovanni Battista, depositario del patrimonio Adami, non ebbe discendenza e con lui si estinse il ramo dei Piccolomini Febei Adami. Come indicato, in seguito, adottò, lasciandolo erede, il nipote Giorgio Piccolomini Clementini, che aggiunse il cognome Adami.
Innocenzo (1735 ca. - † ?). Continuò la linea dei Piccolomini Clementini, originari, che poi si estinse alla fine del '900.
Nella discendenza di Innocenzo Piccolomini Clementini, sono da ricordare:

Maria Teresa Violante (1834 - † 1899) di Carlo di Innocenzo. Fu un soprano italiano, che ebbe un ragguardevole successo nel XIX secolo. Il suo nome d'arte era Marietta, riuscì, a dispetto dei pregiudizi aristocratici del tempo, ad ottenere dal padre, l'autorizzazione ad intraprendere la carriera artistica. Ed i genitori non ebbero a pentirsi. La sua carriera fu travolgente. Iniziata all'età di diciotto anni, a Roma, continuò, in un irresistibile ascesa, attraverso tutte le principali città d'Italia, per poi raccogliere trionfi a Parigi e Londra e Dublino. Nel 1857 fece una tournée che percorse tutta l'Europa. Si ritirò nel 1863..

Pietro (1860 ca. - † ?) di Niccolò di Pietro di Innocenzo. Alla fine del XIX secolo, questo componente della famiglia, particolarmente colto e sensibile, nonché appassionato di architettura e belle arti, decise, con ampio dispendio di denaro, di sottoporre a dei lavori conservativi l'antico castello di famiglia di Ripa d'Orcia. Era un castello molto antico, edificato dai Salimbeni, probabilmente nell'XI secolo, anche se le prime notizie emergono nel XII secolo. Pietro si avvalse di valenti professionisti, che ne curarono il restauro, sotto la sua personale sovraintendenza. Curò in modo quasi maniacale tutti i particolari. Non solo il mastio con le annesse abitazioni padronali, fu restituito all'antico splendore, ma tutte le abitazioni del borgo fortificato, vennero ripristinate nella loro architettura originaria. Per quasi tutto il XX secolo è stato così conservato, con la sua caratteristica museale. Solo negli anni '90, ne è stata cambiata la destinazione, senza che però venisse alterata la sua fisionomia storica e culturale.

Giorgio (1880 ca. - † ?) di Innocenzo di Carlo di Innocenzo. Discendente ultragenito dei Piccolomini Clementini, fu adottato da Lorenzo Piccolomini Febei Adami, visto in precedenza. Questo ramo beneficiò del patrimonio Adami, lasciatogli dal padre adottivo Lorenzo. La linea Piccolomini continuò, mutando ancora una volta il cognome, che divenne Piccolomini Clementini Adami.

Piccolomini della Triana (già Carli Piccolomini)

Questa linea interessa i componenti superstiti dei Carli Piccolomini. Ultimi della loro linea, assunsero il cognome di Piccolomini della Triana, per effetto dell'eredità, lasciata loro, da Nicolò dei Piccolomini della Triana originari.

Nicolò Piccolomini della Triana (Roma 1913 - † Napoli 1942) Fu l'ultimo nato del ramo dei Piccolomini della Triana (già Carli Piccolomini), ma non l'ultimo in ordine di tempo. Morì, infatti, prima del padre nel 1942. Personaggio poliedrico, ha lasciato dietro di sé, per il suo carattere volitivo e indipendente, un ricordo eroico non privo di romantico fascino. Sua madre figlia di un ricco costruttore romano del XIX secolo, influenzò molto la sua educazione. Visse fin dall'infanzia in una famiglia divisa. Il padre Silvio infatti viveva a Pienza e la madre a Roma. Quindi passava sei mesi nella dimora paterna immerso nella rigida e austera educazione Pientina, consona a quello che doveva diventare il quindicesimo conte e signore della Triana.

Gli altri sei mesi, li passava con la madre, moderna e scanzonata con la sua new system education. Dal 1916 Nicolò passa sempre più tempo a Roma; trascorre le sue giornate tra il Pincio, Villa Borghese e il Palatino, e i monumenti antichi della capitale. Dopo la divisione definitiva dei genitori, si trasferisce definitivamente nella Casa del Sole che la madre possedeva, nei vasti possedimenti vicino alla Città del Vaticano. Da lei, attinse quello spirito libero che, poi, lo accompagnerà nel corso della sua breve vita. Da bambino, effettuò numerosi viaggi, che gli consentirono di imparare fluentemente inglese, francese e tedesco. Dopo la morte dell'adorata madre, avvenuta nel 1932, completò i suoi studi e, finito il liceo, volle iscriversi alla Regia Accademia d'Arte Drammatica diretta da Silvio D'Amico, contro il fermo diniego del padre. Ma in questa sua avventura ebbe l'appoggio dell'illustre amico di famiglia Guido Chigi Saracini. Nello stesso periodo prende il brevetto di pilota. Fonda, con l'amico Alessandro Brissoni, la compagnia teatrale Il Carro dell'Orsa Minore. Si cimenterà come attore, produttore e regista, ottenendo un buon successo sia di pubblico che di critica, Questa, però fu una breve stagione. Chiamato alle armi, non volle stare dietro una scrivania, come avrebbe potuto. Nel inverno del 1942, perse la vita. Poco dopo il decollo, l'aereo, sul quale volava, esplose nel cielo di Napoli, per cause mai accertate. Conscio del pericolo al quale lo esponeva la guerra, dispose, che, il suo maestro, Silvio D'amico, procedesse alla fondazione di una casa di riposo per attori anziani ed indigenti. Nasceva, così, nel 1943 la Fondazione Nicolò Piccolomini per l'Accademia d'Arte Drammatica, nella quale confluì la Casa del Sole ed il grande parco che la circondava, nel cuore della capitale. Entrambi, madre e figlio, riposano nel mausoleo di famiglia di Pienza.
Silvio Piccolomini della Triana (1875 ca. - † Pienza 1963). Ultimo discendente della linea Carli Piccolomini. Questa linea non fu mai coinvolta nei grandi lasciti, che la consorteria aveva riservato agli altri rami della famiglia. Nel 1895, si estinsero i Piccolomini della Triana scaturiti dai Salamoneschi.

 Niccolò l'ultimo nato, nominò erede, questo Silvio che, insieme ai fratelli Girolamo, Alessandro e Ascanio e le sorelle Bianca e Giulia, rappresentava l'ultima discendenza dei Carli Piccolomini. Unico obbligo, imposto dal testatore, era quello di assumere il cognome Piccolomini della Triana. Tale successione, portò in questo ramo, corposi possedimenti, tra cui lo storico Palazzo Piccolomini di Pienza, voluto da Pio II, e la vasta corte dell'altrettanto storico Castello della Triana. Il potere della famiglia Piccolomini, dopo una formidabile serie di vescovi, che occuparono la cattedra di Pienza, diminuì notevolmente dopo l'accorpamento della diocesi con quella di Chiusi e Montepulciano. Dall'inizio dell'Ottocento, Pienza perse quel ruolo di centralità che aveva acquisito a partire dal XV secolo con il pontefice piccolomineo. Silvio, volle con ogni mezzo rilanciare la città dei suoi avi. Lavorò a lungo con la moglie Anna Menotti al progetto estetico e sociale per riportare Pienza ai fasti di un tempo. Fu quattro volte sindaco della città, dai tempi dell'Italia liberale a quella fascista fino a quella democratica. Le ampie diatribe che lo ponevano ora in campo fascista, ora in campo antifascista, a distanza di quasi un secolo risultano del tutto sterili. Silvio Piccolomini, amò la sua Pienza al di sopra di tutto e si batté sempre per la sua ricostruzione ed il suo rilancio. Inoltre portò a termine un'opera di risanamento dell'antico Castello della Triana, in cui, tuttavia, abitò poco e solo saltuariamente.
Agli inizi degli anni '60 del XX secolo, Silvio, dopo la morte della moglie ed il figlio, vide morire intorno a sé tutti i fratelli. Non avendo discendenza e non più legato ai vincoli della consorteria, ormai sciolta nel lontano 1821, decise di dare il suo vasto patrimonio in beneficenza. Destinataria fu la Società Di Esecutori Di Pie Disposizioni di Siena, che tuttora, negli anni 2000, gestisce le diverse proprietà ed il Palazzo di Pienza, trasformato in museo, ove si tengono eventi culturali e concerti.

L'alienazione, degli ultimi antichi presidÎ familiari, sancisce, in definitiva, la fine di un'epoca, nella storia dei Piccolomini. Nel XXI secolo, sopravvivono entrambi i rami di Bartolomeo e Rustichino. Rimangono depositari della straordinaria memoria storica e culturale di questa grande famiglia italiana. Sono rispettivamente la linea dei Piccolomini Naldi Bandini e quella dei Piccolomini Clementini Adami, accanto alle quali si ricorda anche quella dei Piccolomini d'Aragona, tuttora presenti in Campania.

Prelati

Cattedra

Ramo

Periodo

Enea Silvio Piccolomini
Francesco Piccolomini
Pontefice Massimo col nome di Pio II
Pontefice Massimo col nome di Pio III
Piccolomini
Piccolomini Todeschini
(1459 - 1464)
(1503 - 1503)

Giovanni Piccolomini
Celio Piccolomini
Giacomo Piccolomini
Enea Silvio Piccolomini
Titolo di Santa Balbina
Titolo di S.Pietro in Monte d'Oro
Titolo di Babbo Balbina e di San Marco
Titolo di Sant'Adriano al Foro
Piccolomini Todeschini
Carli Piccolomini
Piccolomini d'Aragona (Salamoneschi)
Piccolomini della Torre a Castello
(1459 - 1464)
(1503 - 1503)
(1845 - 1861)
(1766 - 1769)

Giacomo Piccolomini (Beato)
Antonio Piccolomini
Gabriele Piccolomini
Niccolò Piccolomini
Aldello Piccolomini
Agostino Piccolomini
Girolamo I Piccolomini
Francesco Piccolomini
Girolamo II Piccolomini
Francesco Bandini Piccolomini
Alessandro Piccolomini
Francesco Maria I Piccolomini
Pompeo Piccolomini
Germanico Bandini Piccolomini
Alessandro Piccolomini
Ascanio I Piccolomini
Francesco Piccolomini
Fabio Piccolomini
Ascanio II Piccolomini
Giovanni Battista Piccolomini
Alessandro II Piccolomini
Ambrogio Maria Piccolomini
Niccolò Piccolomini
Francesco Maria II Piccolomini
Federico Piccolomini
Giulio Piccolomini
Vescovo di Sarzana e di Luni
I Arcivescovo di Siena
Vescovo di Chiusi Arciv. di Siviglia
Arcivescovo di Benevento
Vescovo di Grosseto e di Sovana
Amministratore apostolico di Fermo
Vescovo di Pienza
Vescovo di Bisignano
Vescovo di Montalcino e Pienza
IV Arcivescovo di Siena
Vescovo di Pienza e Montalcino
Vescovo di Montalcino e Pienza
Vescovo di Tropea
Vescovo di Corinto
Arcivescovo di Patrasso
Vescovo di Rodi e V Arciv. di Siena
Vescovo di Grosseto
Vescovo di Massa e Populonia
X Arcivescovo di Siena
Vescovo di Salamina e di Chiusi
Vescovo di Chiusi
Vescovo di Trivento e Arciv. di Otranto
Arcivescovo di Tessalonica
Vescovo di Montalcino, Pienza e Perge
Vescovo di (?)
Arcivescovo di Rossano
Piccolomini
Piccolomini di Modanella
Piccolomini del Mandolo
Non determinato
Piccolomini Salamoneschi
Non determinato
Non determinato
Piccolomini d'Aragona
Carli Piccolomini
Bandini Piccolomini
Carli Piccolomini
Carli Piccolomini
Piccolomini d'Aragona
Bandini Piccolomini
Carli Piccolomini
Piccolomini Pieri
Piccolomini del Mandolo
Piccolomini Salamoneschi
Piccolomini Pieri
Piccolomini del Mandolo
Non determinato
Piccolomini d'Aragona
Non determinato
Piccolomini di Modanella
Piccolomini d'Aragona (?)
Piccolomini d'Aragona
(1380 - 1383)
(1458 - 1459)
(1463 - 1483)
(1464 - 1468)
(1492 - 1510)
(1494 - 1496)
(1498 - 1510)
(1498 - 1530)
(1510 - 1535)
(1529 - 1588)
(1535 - 1563)
(1554 - 1599)
(1560 - 1562)
(1560 - 1574)
(1574 - 1578)
(1588 - 1597)
(1611 - 1622)
(1615 - 1629)
(1628 - 1671)
(1630 - 1637)
(1657 - 1661)
(1666 - 1682)
(1706 - 1710)
(1741 - 1784)
(?)
(1611 - ?)

Altri prelati

Incarico

Ramo

Periodo

Francesco Piccolomini
Nicolò Piccolomini
Nicolò Piccolomini
Gaspare Piccolomini
8° Preposito Gen. della Comp. di Gesù
Uditore della Sacra Romana Rota
Segret. dei Memoriali di Alessandro VII
Cameriere del Pontefice Pio II
Piccolomini della Triana
Carli Piccolomini
Salamoneschi
Piccolomini
(1649 -1651)
(1531)
(1628)
(1459 - 1464)
Beati

Ambrogio Piccolomini, secondo generale e confratello di Bernardo Tolomei fondatore della Congregazione Benedettina di Santa Maria di Monte Oliveto,
Giovanni Piccolomini (beato)
Giacomo Piccolomini (XIV secolo), Vescovo, citato nella sezione Prelati.
Giovacchino Piccolomini (XIII secolo), citato nelle sezione Ramo di Rustichino.
Bindo Piccolomini XV secolo, Gesuato
Mino Piccolomini, XV secolo
Bartolomeo Piccolomini, XIV secolo Gesuato
Giacomo Piccolomini, eremita (Eremo di San Salvatore di Lecceto)

fonte: Wikipedia