28/08/18

Monument Valley, il West


L’immagine tipica e inconfondibile del selvaggio West, nell’immaginario globale, è rappresentata da paesaggi desertici e rossastri intervallati da colonne, guglie, pinnacoli e torri di arenaria dalla caratteristica cima larga e piatta. Sono i paesaggi di un ben preciso luogo del mondo, un luogo abitato dagli uomini fin da tempi molto antichi ma paradossalmente dimenticato per quasi un secolo e riscoperto dall’occidente, e soprattutto dal cinema che ne ha fatto una icona, in tempi molto più recenti. Meno di un secolo fa, a metà degli anni trenta del novecento. 


La storia parte una decina di anni prima, negli anni venti, quando una coppia di “occidentali”, Harry Goulding e sua moglie Leone detta ‘Mike’, decidono di trasferirsi in una zona fra l’Arizona e lo Utah, in territorio Navajo, a quasi cento chilometri dalla più vicina città, per allevare pecore lontani dalla civiltà industriale che sta prendendo il sopravvento nel paese. 


Il loro rapporto con i nativi, che sono in qualche modo nuovamente proprietari del territorio da quando nel 1868 gli fu “concesso” di tornare a vivere nei loro luoghi di origine dopo esserne stati cacciati con la violenza, é di rispetto e collaborazione. I coniugi Goulding imparano ad apprezzare lo stile di vita, la cultura e il rapporto con la natura tipico dei Navajo, e comprendendo le loro difficoltà di sopravvivenza in un mondo sempre più occidentalizzato cominciano a collaborare con loro aiutandoli a sviluppare un buon commercio basato sui loro prodotti artigianali (collane d’argento, tappeti) e si organizzano per fornire loro medicinali e altri generi di prima necessità. Diventano così parte della comunità Navajo, contribuendo a mantenere l’indipendenza, e con essa l’integrità e l’isolamento, di quella popolazione e di quel territorio. Da quando infatti quelle zone, quasi un secolo prima, sono state riconsegnate ai nativi, il mondo occidentale impegnato in tutt’altre faccende se ne è praticamente dimenticato. Pochi le conoscono, pochi ci si avventurano. 


Uno dei pochi e sicuramente uno dei primi, nel 1935, è un fotografo di origine tedesca. Si chiama Joseph Muench, personaggio con una storia che meriterebbe un altro racconto a parte. Inutile dire che rimane incantato dalla selvaggia e monumentale bellezza di quei luoghi. Scatta le sue foto, poi prosegue i suoi viaggi. Harry Goulding se ne ricorderà un anno dopo, quando la depressione che nel frattempo ha messo in ginocchio gli Stati Uniti e una siccità di biblica ferocia (la stessa magistralmente raccontata da Steinbeck in Furore) stanno ormai mettendo a dura prova anche la sopravvivenza della comunità Navajo e di loro stessi. 


Cercando un’idea per risollevare le sorti di quello straordinario angolo di mondo, recupera Muench e le sue foto, e parte per Los Angeles. Lì ci sono gli studi di Hollywood, l’industria dei sogni che macina film e che fra i suoi grandi successi già annovera molte pellicole di un genere tutto americano, il western. 


A questo punto il caso, o forse non solo quello, fa sì che Harry si presenti negli studi della United Artists. Non è una casa di produzione qualsiasi, è stata fondata quasi vent’anni prima da quattro giganti della storia del cinema: Charles Chaplin, Douglas Fairbanks, Mary Pickford e D. W. Griffith. Negli anni trenta, quando Harry Goulding varca i suoi cancelli, la United Artists annovera fra i suoi registi di punta un signore dal nome talmente banale da sembrare inventato per non dare nell’occhio, e che ha al suo attivo già diversi western di una certa fama. Si chiama John Ford. 


È un tipo passato alla storia, oltre che per una sequenza impressionante di capolavori, anche per una leggendaria frase che si dice abbia usato per presentarsi ai suoi produttori, e che riassume in un lampo il suo carattere, la sua chiarezza di idee, la sua (apparente) semplicità e il suo carisma: “Mi chiamo John Ford. Faccio Western.”  In quel periodo lui e il suo staff stanno lavorando su una sceneggiatura tratta da un racconto di Ernest Haycox (Stage to Lordsburg) a sua volta ispirato da un racconto di Guy de Maupassant (Boule de Suif). È la storia di una diligenza e del microcosmo creato dai suoi occupanti, riproduzione in miniatura di una umanità variegata, e del viaggio complesso e pericoloso che avrebbero affrontato attraverso le praterie del selvaggio west. Il titolo del film sarebbe stato Stagecoach, in italiano sarebbe diventato “Ombre rosse”. Semplicemente uno dei pilastri della storia del cinema. 


Harry Goulding, con la sua cartellina piena di fotografie, chiese di parlare con uno dei dirigenti che si occupavano di film western. La segretaria (che per forza di cose immaginiamo occhialuta e antipatica) gli fece capire che ben difficilmente qualcuno lo avrebbe ricevuto, per di più senza un appuntamento. Harry non era arrivato fin lì per rinunciare, e la leggenda vuole che si procurò un sacco a pelo e si piazzò nella sala d’attesa per diversi giorni, finché a un funzionario non fu affidato l’ingrato compito di riceverlo per poi liberarsene in qualche modo. Fatto sta che quel funzionario era quello che si stava occupando di cercare le location per Stagecoach. Harry gli fece vedere le fotografie, e un momento dopo quello chiamava a gran voce John Ford per mostrargliele. Un altro momento successivo e Ford aveva già deciso che gli esterni del film si sarebbero girati lì, dovunque si trovasse quel luogo straordinario. 


Si può ben dire che l’immagine che tutti abbiamo del West è nata quel giorno in quello studio di Hollywood, e da quel giorno la Monument Valley cessò quasi in un istante di essere un deserto semisconosciuto e dimenticato per diventare uno dei luoghi giustamente più famosi del mondo. 
John Ford si trasferì dai Navajo con la sua troupe e girò in soli quattro giorni tutti gli esterni del film (sembra quasi incredibile per un film che si svolge quasi totalmente in esterni). Per la sequenza principale del film, il furibondo attacco alla diligenza da parte dei pellerossa, le riprese furono effettuate da un’automobile lanciata sulle pianure di arenaria a velocità proibitiva. E quei pochissimi minuti di film valgono una cinematografia intera. I Navajo parteciparono alle riprese (e una buona parte del merito va alle loro fenomenali acrobazie a cavallo) e pur non essendo mai stati rappresentati in modo molto lusinghiero né in quel film né in altri successivi dello stesso regista, interpretando di volta in volta Apache, Comanche e altre tribù anche molto diverse dalla propria, il rapporto fra loro e John Ford fu sempre molto buono, crediamo non solo per i soldi che il lavoro nel cinema procurava loro. Fatto sta che anche dopo la morte del grande regista, nel 1973, i nativi della Monument Valley continueranno a ricordarlo come Natani Nez (Tall Leader), il Grande (Alto) Capo, e uno dei punti panoramici più caratteristici della valle si chiamerà per sempre “John Ford’s Point”. 


Il film avrà meritati successi e riconoscimenti, crescenti col passare degli anni. I panorami mozzafiato, la caratterizzazione dei personaggi, le scene d’azione tecnicamente straordinarie, un giovanissimo John Wayne che da quel film in poi diventerà a sua volta icona irrinunciabile del cinema di genere (la sua entrata in scena, con la camera in Dolly che avanza verso di lui piantato a gambe larghe in mezzo al sentiero, è entrata nel mito). E con il film le sue strepitose location conosceranno una popolarità planetaria destinata a rinnovarsi di continuo. Lo stesso Ford tornerà altre volte a girare fra quei panorami, per la bellezza di altri sei film, fra i quali altri autentici capolavori: “Sfida infernale” (My Darling Clementine), “Rio Bravo” (Rio Grande) e il magnifico “Sentieri Selvaggi” (The Searchers). 
Alla fine degli anni sessanta l’altrettanto grande Sergio Leone, dopo aver riscritto coordinate e iconografia del western reinventando i paesaggi della frontiera nella vicina Andalusia spagnola con la sua Trilogia del dollaro, piazzerà anche lui la sua cinepresa nella Monument Valley proprio in occasione del suo addio al western, per il suo monumentale (è il caso di dirlo) “C’era una volta il West”, omaggiando così i veri luoghi di nascita del genere, e innalzando a livelli lirici le sue panoramiche e le sue zoomate grazie alle musiche di un ispiratissimo Ennio Morricone. 
E così il cinema dei decenni successivi avrebbe di continuo riportato il suo sguardo fra quelle arenarie rosse per le situazioni più varie, quando anche storie molto distanti dal genere cowboy necessitavano in un modo o nell’altro di evocare il mito della frontiera. Fra i tanti, “Easy Rider” di Dennis Hooper, “Assassinio sull’Eiger” di Clint Eastwood, “Thelma e Louise” di Ridley Scott, “Forrest Gump” e “Ritorno al futuro III” di Robert Zemeckis. 
Ma, al di là della sua storia cinematografica, la Monument Valley è un luogo totalmente magico, realmente unico al mondo e quasi al di fuori dello stesso. La dominante rossa donatagli dalla spropositata abbondanza di ossido di ferro sembra proiettare il visitatore su un pianeta diverso dal nostro, gli orizzonti sconfinati e le prospettive aeree che offre ad ogni angolo evocano di continuo forze primordiali che quasi si esercitano a plasmare il paesaggio davanti ai nostri occhi, le gigantesche formazioni rocciose sembrano ad ogni istante cambiare dimensioni, innalzarsi o sgretolarsi un attimo dopo che il nostro sguardo si è posato su di loro. 
Il territorio è ancora dei Navajo, gestiscono loro gli ingressi e le attività in quello che ora è diventato un “Tribal Park” facente parte della Navajo Nation Reservation, alcuni gruppi più integrati, altri ancora molto riservati. Sfruttano il turismo a volte anche con prezzi un po’ esosi, ma in qualche modo riescono ancora a sopravvivere sulla loro straordinaria e sorprendente terra senza essere ancora del tutto schiacciati dalla nostra prepotenza chiassosa e poco contemplativa. Tutto sommato il traffico nella valle risulta, e almeno così appariva al momento della mia visita, sopportabile e non eccessivo (la strada sterrata che la percorre permette solo velocità molto basse e non ad ogni tipo di veicolo) e a parte il discusso Hotel che si trova all’ingresso (sempre gestito dai nativi), le altre strutture all’interno della zona sono sporadiche e poco invadenti. Per tutto il resto (nel tempo e nello spazio) domina ovunque quel che deve dominare in un luogo così unico e incomparabile: silenzio, vento, polvere rossa, orizzonti lontani e indefiniti, cavalli e giganti di pietra. 
Un paradiso apparentemente deserto che contiene un mondo intero.

Alessandro Borgogno

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


ALESSANDRO BORGOGNO

Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.

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