30/12/17

un esperimento di nome Nazino, l'isola dei cannibali


La Russia è un Paese transcontinentale con una superficie di 17 098 242 km², che si estende tra Europa ed Asia. E’ il più vasto Stato del mondo. Oltre la metà del suo territorio è disabitata. Confina con molti stati, alcuni dei quali hanno nomi sconosciuti ai più. 
Numerosi sono i territori inospitali che la compongono. Il vento soffia in queste terre coperte di ghiaccio per molti mesi all’anno, rendendo ancora più freddo quello che alcuni definiscono inferno bianco.
Proprio in questi luoghi, nel 1933 ha avuto luogo un interessante “esperimento sociale di sopravvivenza”, così è stato definito dalle autorità sovietiche del tempo. Il governo era guidato da Iosif Vissarionovič Džugašvili, per molti rivoluzionario di professione, per altri “un caso clinico di un sadismo non sessuale” (cit. Erich Fromm). Tutti lo conosciamo come Josif Stalin, padre della rivoluzione bolscevica del 1917.
Dal 1924, dopo una vita avventurosa e ai limiti della legalità, divenne gradualmente dittatore del suo Paese fino al 1953, anno della sua morte.
Josif Stalin, georgiano di origine, era per tutti l’uomo d’acciaio. Guidava il paese con fermezza, avvalendosi di uomini fedeli e preparati, che con la sua guida avrebbero riportato la Russia ai fasti di un tempo.



Tra il 1932 e il 1933 il paese visse un periodo davvero difficile. La nazione intera si trovò ad affrontare una mastodontica carestia, causata da diversi fattori, ma fondamentalmente riconducibile, a mio avviso, a due scelte fatte dal governo di Stalin. Prima causa fu la collettivizzazione forzata, iniziata con una imponente campagna di massa tra 1929 e il 1933. I contadini sovietici ricevevano un certo tipo di dividendo soltanto dopo che erano stati inviati allo Stato i beni che obbligatoriamente dovevano essere prodotti entro le quote stabilite. La collettivizzazione forzata, non è da confondersi con la collettivizzazione volontaria, come quella che ha luogo neiKibbutz israeliani. La seconda causa fu lo sterminio dei kulaki, antica classe produttrice agricola, proprietaria di numerose terre, considerati nemici dello stato.
Nel 1927 Stalin, in occasione di una crisi agricola, decise di reintrodurre le misure sulla requisizione di cereali tipiche del comunismo di guerra, ed iniziò una dura campagna denigratoria contro i kulaki. Le loro terre, confiscate, entrarono nel meccanismo della collettivizzazione forzata. Vennero unificate in cooperative agricole chiamate Kolchoz o in aziende di stato, chiamate Sovchoz, che avevano l'obbligo di consegnare i prodotti al prezzo fissato dallo stato. L’opposizione di contadini e kulaki non tardò arrivare, ma fu vana: nascosero le derrate alimentari, macellarono il bestiame senza autorizzazione del governo e in alcuni casi scesero in campo con le armi. La repressione dello stato fu spietata, eliminazioni fisiche e deportazioni di massa nei campi di lavoro colpirono milioni di contadini.



In questo clima di generale cambiamento e di grande difficoltà, nel febbraio del 1933, Genrich Grigor'evič Jagoda, capo della polizia segreta sovietica, e Matvei Berman, responsabile dei Gulag, presentarono a Stalin un grandioso progetto di “ricollocazione forzata”, che avrebbe coinvolto circa 2 milioni di persone. I territori prescelti per attuare il favoloso progetto furono Siberia e Kazakistan.
A questo punto i commenti sulla follia del piano e sull’assurdità nella scelta del territorio potrebbero essere innumerevoli. Ma non sta a me giudicare ciò che è ovvio per tutti quelli che leggeranno come si svolsero i fatti. Secondo i due strateghi, deportando un così elevato numero di persone nelle terre individuate, l’Unione Sovietica sarebbe riuscita a mettere in produzione in circa due anni, 1 milione di ettari di terre incolte, dando vita a comunità del tutto autosufficienti. Il numero dei candidati alla deportazione, dopo un’ attenta analisi, fu dimezzato nell’aprile del 1933, ed era costituito da contadini, kulaki, criminali e soggetti urbani socialmente sgraditi provenienti dalla grandi città. Il reclutamento, sarebbe stato favorito dal sistema dei passaporti sovietici, mediante il quale tutti i cittadini di età superiore ai 16 anni dovevano ricevere un passaporto russo, senza possibilità di libera scelta della nazionalità. In realtà questo esperimento era il secondo nel suo genere. Nei tre anni precedenti furono realizzati insediamenti forzati impiegando 2 milioni di kulaki, con una riuscita abbastanza soddisfacente. Ma la situazione interna attuale era differente, la Russia era fortemente indebolita dalla grave carestia e si trovava, in quel momento nell’incapacità di fornire un adeguato supporto logistico all’operazione. Nonostante questo, Stalin diede il via libera al progetto sociale.
Secondo il programma, i predestinati dovevano giungere a destinazione nell’isola di Nazino, una remota zona a nord di Tomsk, nel cuore della Siberia, che più che un’isola era una lunga e stretta lingua di terra, circondata dalla taiga, nel punto di confluenza tra i fiumi Orb e Nazina, coperti dal ghiaccio fino alla fine di maggio.
Il campo di prigionia più grosso era previsto proprio a Tomsk. Aveva la capacità di ospitare 15.000 deportati, ma all’inizio delle operazioni era in ristrutturazione.
In aprile arrivarono i primi ricollocati. Erano circa 25.000, costituiti per lo più da kulaki, contadini e cittadini della Russia meridionale. Nessuna struttura esistente era in grado di accoglierli tutti. Molti fra loro erano ammalati e malnutriti già in partenza. Arrivarono alla stazione di Tomsk su due treni, uno da Leningrado e uno da Mosca, che ci impiegarono 10 giorni per giungere a destinazione. Il viaggio fu tremendo. La razione di cibo giornaliera era costituita da 300 gr. di pane a testa. I più forti, si unirono per rubare ai compagni di viaggio cibo e vestiti. Impreparate all’arrivo di tanti disperati, tra cui molte persone pericolose, le autorità di Tomsk decisero di relegare il fiume umano in un luogo circoscritto e lontano dalle unità abitative. Abbandonati a loro stessi, con sempre meno cibo a disposizione, i deportati cominciarono a lamentare anche la necessità di acqua. I mezzi disponibili erano del tutto insufficienti e così pure il personale di sorveglianza. Per questa si decise di inviare una parte dei prigionieri verso il campo di Alexandro Vakhovskaya, non attrezzato e inadeguato per dare accoglienza a quella massa di disperati.
Il 14 maggio 6.000 coloni, seminudi e senza attrezzature adeguate, furono caricati per il trasferimento su quattro chiatte fluviali, usate in genere per il trasporto legname. Fu loro consegnata una razione giornaliera di 200 gr. di pane a testa. I prescelti erano per lo più criminali, allontanati dal resto del gruppo per alleggerire il clima al campo di raccolta, oppure cittadini indesiderati di Mosca e Leningrado.



A sorvegliare il folto gruppo vi erano due comandanti e 50 guardie inesperte, anche loro inadeguatamente attrezzate per fronteggiare il freddo ancora pungente. A completare il convoglio, un carico da 20 tonnellate di farina, che sarebbe dovuto servire durante i primi giorni per consentire di organizzare le attività e sfamare i deportati. Destinazione: isola di Nazino una striscia di terra lunga 3 chilometri e larga 600 metri nel punto più ampio, un inferno in terra. Il viaggio terminò il 18 maggio. Arrivarono 322 donne, 4556 uomini e 27 cadaveri. Pochi di quelli che sbarcarono lo fecero con le loro gambe, erano troppo deboli.
Il 21 maggio, tre ufficiali medici presenti sul posto, accertarono 70 nuovi decessi e riscontrarono i primi cinque casi di cannibalismo.
Il 22 maggio cominciò la distribuzione delle razioni di farina destinate a sfamare i prigionieri. Scoppiarono le prime risse per accaparrarsi una maggiore quantità di cibo. Intervennero le guardie in maniera sommaria per sedare gli scontri, aprirono il fuoco a caso sulla folla, colpendo nel mucchio impazzito. Il giorno successivo si ritentò la distribuzione, ma ancora una volta scoppiarono risse sedate volta a fucilate. Per evitare ulteriori problemi, i guardiani divisero in squadre da 150 unità tutti i superstiti, con a capo un brigadiere che aveva il compito di prendere in consegna la razione per tutto il suo gruppo, e che spesso si approfittò della propria posizione di privilegio. Non avendo forni per cuocere il pane, i prescelti per questo esperimento sociale si cibarono di farina cruda mescolata con acqua del fiume. Scoppiò un’epidemia di dissenteria che fece nuove vittime.
Il 27 maggio arrivarono altre 1200 persone, ma nessuna derrata aggiuntiva.
I più audaci cercarono di fuggire su zattere preparate in emergenza, che affondarono quasi subito. Molti annegarono, stroncati dalle acque gelide, dalla debolezza e dalle malattie che avevano fiaccato il loro fisico. In pochi riuscirono a sopravvivere, ma vennero comunque considerati morti, in quanto totalmente inabili ad affrontare la traversata della taiga verso il primo centro abitato, Tomsk.
Nel frattempo Stalin aveva ritirato la sua autorizzazione a procedere, ma ormai i selezionati erano già stati trasferiti. Nel mese di giugno vennero accertati altri casi di cannibalismo, furono in totale arrestate 50 persone. I cadaveri venivano accatastai in cumuli tenuti sotto controllo costante per scongiurare altri casi di antropofagia. I sopravvissuti, circa 2800 persone, furono trasferiti in altri insediamenti, sempre lungo il fiume Nazina. Molti morirono durante gli spostamenti a causa del tifo.
In luglio altri 250 superstiti furono trasferiti da Nazino, insieme ad un gruppo di 4200 persone proveniente da Tomsk. Le malattie e le privazioni fecero il resto sull’improvvisata popolazione di Nazino. Dei 7000 circa che giunsero in quella maledetta lingua di terra , 200 scamparono per miracolo alla morte.
Il caso dell’ Isola dei Cannibali, così venne ribattezzata, è rimasto sepolto dal segreto per oltre 50 anni.
I tragici fatti di quei giorni sono stati portati alla luce solo nel 1988, con l’inizio dell’apertura verso l’occidente e l’avvento della Glasnost.
Vorrei riportare qui una testimonianza inserita nel libro scritto da Nicolas Werth, L’isola dei cannibali, in cui si racconta tutta la verità che ci arriva dai documenti messi a disposizione dalle autorità sovietiche:



«Sull'isola c'era una guardia di nome Kostja Venikov, era giovane. Faceva la corte a una bella ragazza, anche lei deportata. La proteggeva. Un giorno dovendosi allontanare, disse a un compagno: "Sorvegliala tu", ma anche quello, con tutta quella gente intorno non riuscì a fare granché... qualcuno la prese e la legò a un pioppo: le tagliarono il petto, i muscoli, tutto quello che si poteva mangiare, tutto, tutto, avevano fame. Bisogna pur mangiare. Quando Kostja tornò la ragazza era ancora viva (...) Cose così erano all'ordine del giorno. Per tutta l'isola si vedeva carne avvolta negli stracci. Carne umana tagliata e appesa agli alberi».
Cosa posso aggiungere? La storia va raccontata tutta, sia quella dei vinti che quella dei vincitori.


Rosella Reali

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/


Bibliografia

Emil Ludwig, Stalin. Saggio biografico, Roma, Vega, 1944. 

Erich Fromm, undicesimo capitolo, in Anatomia della distruttività umana, Milano, 1975.; Fromm definisce Stalin "un caso clinico di un sadismo non sessuale". 

N.Bucharin, E. Preobrazenskij, L'accumulazione socialista, Editori Riuniti, Roma, 1969 

Ivan Dzjuba, L’oppressione delle nazionalità in URSS, Roma, 1971 


Nicolas Werth, L’isola dei cannibali. Siberia, 1933: una storia di orrore all'interno dell'arcipelago gulag, Corbaccio, 2007

Rosella Reali 

Sono nata nel marzo del 1971 a Domodossola, attualmente provincia del Verbano-Cusio-Ossola. 
Mi piace viaggiare, adoro la natura e gli animali. 
L'Ossola è il solo posto che posso chiamare casa. 
Mi piace cucinare e leggere gialli. 
Sono solare. Sorrido sempre e guardo il mondo con gli occhi curiosi tipici dei bambini. 
Adoro i vecchi film anni '50 e la bicicletta è parte di me. Non me ne separo mai.
Da grande aprirò un agriturismo dove coltiverò l'orto e alleverò animali. Chi mi aiuterà? 
Ovviamente gli altri viaggiatori. 
Questa avventura con i viaggiatori ignoranti? 
Un viaggio che spero non finisca mai..

26/12/17

il bimbo di Trento e la pasqua di sangue


Trento, 23 marzo 1475. sera del giovedì santo. Un bimbo si allontanò inspiegabilmente da casa. La madre, moglie di un conciatore della città, impaurita e angosciata lo cercò, lo chiamò. Non lo trovò. Decise di recarsi dai vicini per chiedere aiuto. La donna,  accompagnata da un nutrito gruppo di persone, continuò le ricerche sino al sabato sera. Le paure si trasformarono in realtà quando la mattina della domenica, Pasqua del 1475, un gruppo di ebrei si recò velocemente dal vescovo della città per avvisare d'aver trovato il corpo, martoriato, del bimbo nelle acque di un torrente nei pressi delle loro abitazioni, non lontano da quelle del conciatore. Il corpo fu rinvenuto in condizioni terribili: l'assassino aveva spogliato il piccolo, lo aveva seviziato e infine aveva inflitto un considerevole numero di coltellate, chiudendo lo scempio con l'asportazione del pene e dei testicoli. Le indagini iniziarono subito. Le voci correvano di contrada in contrada, di borgo in borgo. Gli assassini e torturatori del bimbo non potevano che essere loro, gli ebrei. Il diffuso antisemitismo era alimentato dalle predicazioni del frate francescano Bernardino da Feltre. Il predicatore fu responsabile dell'aumento della violenza contro gli ebrei nelle zone dove portava la sua parola. Secondo Bernardino da Feltre gli ebrei erano gli assassini di Cristo e colpevoli di esercitare l'usura, che rimaneva una delle poche attività loro consentite insieme al commercio di cose usate.


Il principe vescovo, Giovanni Hinderbach, decise di ascoltare il francescano, e una buona parte del popolo, sostenendo con forza la tesi che il bimbo era stato vittima di un omicidio rituale perpetrato dalla locale comunità ebraica. L'accusa si basava sull'idea che le violenze erano finalizzate alla raccolta del sangue di un bambino da utilizzare per impastare il pane azzimo per la Pasqua ebraica. Gli ebrei furono agguantati dalle forze dell'ordine locali. Quindici persone, di età compresa tra i quindici e novant'anni, furono torturati intensamente per mesi sino a strappare loro una confessione. La condanna non poteva che essere la morte, secondo le regole e i dettami del tempo. Contestualmente alla sentenza fu emesso un provvedimento che bandiva perpetuamente gli ebrei dalla città di Trento. Una sola donna, Bruna, resistette più a lungo rispetto agli altri. Ma le torture furono tali da condurre alla morte dell'indagata. Poco prima di morire confessò l'omicidio e si pentì. Fu assolta dai suoi peccati e sepolta in terra benedetta. Il processo fu seguito dal legato di papa Sisto IV, che aveva il compito di sovrintendere lo svolgimento dello stesso, che si dichiarò apertamente favorevole all'innocenza degli accusati poiché riteneva infondata ogni accusa contro di loro. Nulla servì la sua opposizione. 


Tutti gli accusati trovarono la morte secondo i supplizi in uso al tempo. Quel bimbo, torturato e selvaggiamente ucciso, si chiamava Simonino. Il popolo decise di adottarlo e  venerarlo come beato, nonostante il fermo diniego di Sisto IV. Nonostante il divieto pontificio, in virtù delle capacità organizzative del principe vescovo, il culto del piccolo Simonino si diffuse rapidamente in Trentino e nei territori vicini. Il papa fu costretto a fare un passo indietro dichiarando valido il processo. Il Vaticano ammise ufficialmente il culto di Simonino nel 1588 e concesse l'indulgenza plenaria a chi fosse andata in pellegrinaggio presso le reliquie il giorno dedicato al santo. Papa Benedetto XIV con la bolla papale Beatus Andreas, del 1755, ribadiva l'esattezza del processo e confermava la correttezza di dedicare a Simonino pubblico culto riaffermando che il martirio era avvenuto per mano degli ebrei in odio alla fede di Cristo. Da Trento la devozione popolare si diffuse nella vicina zona di Brescia, dove furono attribuiti diversi miracolo a Simonino. Era usanza invocarlo a protezione dei fanciulli. La forte devozione comportò che, oltre all'annuale festa in onore del bimbo, ogni dieci anni si svolgeva una processione solenne con la salma del beato e dei simboli raffiguranti i presunti strumenti delle torture subite da Simonino portate in corteo lungo le strade di Trento. Il trascorrere del tempo fu galantuomo verso gli ebrei coinvolti in questa assurda vicenda poiché, grazie al percorso di revisione critica del processo da parte della chiesa cattolica, si giunse a quella che è nota come la svolta del Simonino. Nel 1965 si giunse alla soppressione del culto e la rimozione della salma dalla chiesa dedicata a San Pietro che la ospitava. 


Questa decisione comportò l'abolizione della tradizionale processione per le vie di Trento. La revisione della posizione della chiesa cattolica portò ad una riconciliazione con la comunità ebraica che, dopo l'assurdo processo ai danni delle persone accusate d'omicidio e le conseguenti pene capitali, aveva lanciato il cherem, assimilabile alla scomunica della chiesa cattolica, sull'intera città di Trento, che non vide soggiorno di ebrei da quel lontano 1475 per ordine espresso del principe vescovo. La svolta del Simonino portò pace e tranquillità sulla vicenda sino a quando Ariel Toaff, rabbino e storico italo-israeliano, nel 2007 pubblicò un saggio dal titolo Pasque di sangue: ebrei d'Europa e omicidi rituali, dove ipotizzava devianze dalle norme della halakhah, la tradizione normativa religiosa dell'ebraismo, da parte di alcune comunità ebraiche ashkenazite relativamente all'astensione da ogni contatto con il sangue. Gli ebrei ashkenaziti sono i discendenti delle comunità ebraiche stanziatesi nel medioevo nella valle del Reno, e ashkenazita significa appunto germanico. 


Nel IX secolo l'immigrazione in Germania di numerosi ebrei dall'Italia meridionale diede origine a una consistente comunità ashkenazita. Il fatto che i presunti aguzzini del piccolo Simonino appartenessero a questa comunità ebraica comportò diversi problemi poiché, in seguito alla pubblicazione del libro, si poteva comprendere come alcuni gruppi deviati di ebrei, in risposta ai torti subiti, avessero potuto utilizzare sangue umano per rituali magici. Il libro di Toaff fu ritirato dal commercio e l'autore si trovò al centro di una tempesta mediatica. La vicenda legata a Simonino costituisce una testimonianza delle persecuzioni subite dalle comunità ebraiche, e delle false accuse di omicidio rituale, che ebbero notevole diffusione in Europa.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Bibliografia

Giorgio Summaripa, Martirio Simone da Trento, Verona, Giovanni Alvise, Alberto Alvise, 1478

Ariel Toaff, Pasque di sangue: Ebrei d'Europa e omicidi rituali, Bologna, Il mulino, 2007

Anna Esposito e Diego Quaglioni, Pasque di sangue, le due facce del pregiudizio, Corriere della Sera, 11 febbraio 2007

Ebrei e accusa di omicidio rituale nel Settecento: il carteggio tra Girolamo Tartarotti e Benedetto Bonelli (1740-1748) di Nicola Cusumano, UNICOPLI, 2012


FABIO CASALINI – fondatore del Blog I Viaggiatori Ignoranti
Nato nel 1971 a Verbania, dove l’aria del Lago Maggiore si mescola con l’impetuoso vento che, rapido, scende dalle Alpi Lepontine. Ha trascorso gli ultimi venti anni con una sola domanda nella mente: da dove veniamo? Spenderà i prossimi a cercare una risposta che sa di non trovare, ma che, n’è certo, lo porterà un po’ più vicino alla verità... sempre che n’esista una. Scava, indaga e scrive per avvicinare quante più persone possibili a quel lembo di terra compreso tra il Passo del Sempione e la vetta del Limidario. È il fondatore del seguitissimo blog I Viaggiatori Ignoranti, innovativo progetto di conoscenza di ritorno della cultura locale. A Novembre del 2015 ha pubblicato il suo primo libro, in collaborazione con Francesco Teruggi, dal titolo Mai Vivi, Mai Morti, per la casa editrice Giuliano Ladolfi. Da marzo del 2015 collabora con il settimanale Eco Risveglio, per il quale propone storie, racconti e resoconti della sua terra d’origine. Ha pubblicato, nel febbraio del 2015, un articolo per la rivista Italia Misteriosa che riguardava le pitture rupestri della Balma dei Cervi in Valle Antigorio.

24/12/17

PPP - 26 -

PIER PAOLO PASOLINI. UNA MORTE DA CONTRAPPASSO MASSONICO





Pier Paolo Pasolini è stato una delle poche voci fuori dal coro nel desolante panorama intellettuale della seconda metà del XX secolo, un sassolino nell’ingranaggio di un sistema che non ammette defezioni di sorta. La sua morte violenta ha ancora oggi un qualcosa di paradigmatico, di simbolico per la ferocia con cui il delitto è stato consumato, per i successivi depistaggi delle forze dell’ordine e della magistratura e per l’emozione che suscitò negli strati non corrotti del popolo italiano. Ma non solo. Essa è stata anche simbolo di un mondo che stava scomparendo, di una funzione – quella dell’intellettuale non organico al sistema – che di lì a poco sarebbe crollata sotto i colpi della subcultura da spettacolo. Possiamo vedere in Pasolini l’ultimo grande vate che l’Italia, e forse il mondo intero, abbia conosciuto.

Il 2 novembre 1975, giorno dei Morti, il corpo massacrato di Pasolini viene ritrovato in un campetto di calcio su una spiaggia di Ostia. Massacrato a colpi di bastonate e poi ripetutamente investito, ormai morente, da un auto guidata non si sa da chi. Senza voler entrare nella ricostruzione della dinamica della sua morte e dell’identità dei suoi colpevoli, il delitto Pasolini rientra perfettamente nella categoria del delitto massonico, ed è questo l’aspetto che qui mi propongo di approfondire.

Pasolini, dicevamo, era un intellettuale inviso al sistema, per più di un motivo: accusatore del governo democristiano e delle sue nefandezze, al punto che gli attribuirà la responsabilità morale della Strage di Piazza Fontana; polemico verso il consumismo disumanizzante che in quegli anni cominciava a infiltrarsi nella società italiana; avversato dal Partito Comunista per la sua libertà di pensiero e per il suo approccio alla realtà antiideologico; odiato dalla destra per la sua diversità di omosessuale, l’intellettuale era visto un po’ da tutte le parti come un eretico, un sovversivo che attraverso la sua poliedrica opera artistica scagliava dardi contro la corruzione della società e della politica.

Ed è proprio nell’opera artistica dell’intellettuale, in particolare nelle sue ultime opere letterarie e cinematografiche, che va estratta la chiave per comprendere da un punto di vista esoterico la sua tragica morte.

Cominciamo con la sua ultima opera letteraria che non è, come viene spesso scritto, il romanzo inedito Petrolio, ma un piccolo saggio, La Divina Mimesis, il cui manoscritto venne consegnato da Pasolini all’editore Einaudi pochi giorni prima di morire. Si tratta di una raccolta di riflessioni estetiche nele quali il poeta indaga il rapporto tra la realtà e l’imitazione della realtà attraverso l’arte, arrivando alla conclusione che l’imitazione artistica della realtà non è, come aveva affermato Platone, una copia imperfetta della stessa, ma perfetta, perché coincide con la realtà stessa. Di più: l’imitazione anticipa la realtà, ne rappresenta la profezia, perciò è divina. Nel saggio in questione c’è un passo davvero inquietante in cui il poeta annuncia al mondo che sarà “ucciso a colpi di bastone” (S.60). Questo annuncio sconvolgente di lì a pochi giorni si trasformerà in un avvenimento reale. Coincidenza o profezia, in questo caso morte poetica e morte reale sembrano davvero costituire una mimesis perfetta. Ma le “coincidenze” non si fermano qui. C’è un’altra opera, questa volta cinematografica, in cui il poeta preannuncia la sua morte violenta: Il Vangelo secondo Matteo. Portato a termine nel 1964, anch’esso rientra nella teoria della divina mimesis, dove Pasolini pone ai piedi della croce sua madre Susanna, nella veste di Maria di Nazareth, quasi a voler sottolineare la corrispondenza tra arte e realtà. Del resto Pasolini, fervente cristiano, sosteneva che “tutto ciò che è mitico è realistico” e “tutto ciò che è realistico è mitico”, stabilendo così un continuum tra sogno e realtà, tra invenzione e realtà, tra simbolo e realtà, poiché arte, sogno e simbolo altro non sono che imitazioni perfette della realtà e, proprio perché perfette, coincidenti con essa.

Dunque il poeta aveva trasfuso nelle sue opere i suoi presagi di morte. Di morte sacrificale, poiché le modalità con cui essa avvenne, e i successivi insabbiamenti, hanno i caratteri di un vero e proprio sacrificio rituale. E non è un caso che per celebrale questo sacrificio i sacerdoti occulti che decretarono la morte del poeta scelsero come località Ostia. Ostia è un toponimo che richiama il vocabolo latino Hostia, con il quale si indicava la vittima offerta in sacrificio alla divinità. In tale prospettiva la scelta di Ostia e del campetto da calcio come recinto “sacro” per celebrare il sacrificio cruento della vittima, appare di una limpidezza sconcertante.

Esiste anche un’altra opera dove Pasolini manifesta il sentore della sua morte. Essa è una poesia del 1943 (poi rielaborata nel 1974 in una nuova versione): Il giorno della mia morte. Si tratta di un piccolo componimento preceduto, nella seconda versione, dai seguenti versetti del Vangelo di Giovanni: “se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà solo, ma se morirà, darà molto frutto”. Il testo della poesia è di una lucidità sconcertante, quasi profetica, si è tentati di pensare: “In una città, Trieste o Udine, per un viale di tigli, di primavera, quando cambiano il colore le foglie, io cadrò morto”. Dunque il poeta vide la sua morte violenta. Vide il crollo di una civiltà che cadeva sotto i colpi dell’omologazione. Vide l’orrore del presente, i suoi idoli materiali, le bassezze dell’umanità, le sue fragilità. Ma poté vederle perché vide prima le sue, di fragilità. La realtà in qualche modo gli faceva da specchio e, anziché voltarsi dall’altra parte, la guardò in faccia senza esitare. E infine la rappresentò nella sua arte. Ecco il significato della Divina Mimesis come approccio al reale: non si può cogliere l’orrore del mondo se non si è disposti a guardare l’orrore, l’abisso che abita in noi, che di quel mondo siamo parte integrante.

Pasolini era anche lui un uomo fragile, ma non rinunciò a denunciare l’orrore del potere. Ed è questo che non gli venne mai perdonato. Il suo ultimo film-capolavoro, Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito nelle sale cinematografiche poche settimane dopo il suo omicidio, è il Manifesto dello svelamento dell’orrore del mondo che ci circonda ma anche l’elaborazione del lutto per un mondo che non esiste più, un mondo fagocitato da un potere subdolo, strisciante e perverso. Ed è proprio la perversione del potere e l’uso deviato della sessualità che Pasolini denuncia nel film con lucido realismo. Nel film scompare ogni traccia di “sacro”, inteso come limite. Tutto è lecito: la violenza inaudita, l’abuso psicologico, la tortura, l’assassinio. Tutti i poteri di questo mondo sono accusati da Pasolini: politico, religioso, militare e culturale. Il ritorno al passato, a un mondo genuino, semplice, ancora pervaso dall’incanto del “limite”, non esiste più, è stato spazzato via dalla disillusione prodotta dall’omologazione culturale e dal consumismo. Quel consumismo cannibale che consuma corpi, li abusa e poi li macina nella ruota sacrificale del nichilismo. Salò è insieme il rimpianto per un mondo che mai più tornerà e il grido di denuncia di un sistema che sacrifica (sia in senso metaforico che in senso letterale, come precisò il poeta in un’intervista a una emittente francese, poco prima di morire) vittime umane.

Questo grido di denuncia non passò inosservato ai sacerdoti del potere, i quali si attivarono subito per far tacere per sempre una voce scomoda che aveva osato svelare i meccanismi perversi di cui il potere si serve per nutrirsi e perpetuare se stesso. Così venne decretata la morte di Pasolini per contrappasso. Si tratta di una pratica diffusa nelle centrali deviate del potere, in base alla quale in condannato alla pena capitale deve essere ucciso in un modo che evoca direttamente il reato di cui si è macchiato. Pasolini, che nella sua produzione artistica, diede delle bastonate metaforiche al potere deviato, pericò fu condannato a morire di bastonate.

Chi ha ucciso Pasolini era a conoscenza della Legge del contrappasso massonico. Ed era anche a conoscenza dell’autoprofezia che Pasolini fece riguardo alla sua morte nel saggio La divina Mimesis, che doveva in quei giorni essere dato alle stampe. Qualcuno ebbe accesso al manoscritto, lesse la sua morte poetica “a colpi di bastonate” e si adoperò per realizzare la profezia. Con la morte del poeta si volle chiudere un cerchio. Ma ciò che di “divino” rimane impresso nella vicenda cruenta di Pasolini è che egli morì sì, ma non da uomo sconfitto. Pasolini sapeva che prima o poi lo avrebbero messo a tacere, ma non rinunciò ad esprimersi. Ed è proprio la sua morte violenta che, come un faro nella notte, proietta una luce che illumina il senso profondo della sua opera e della sua vita. Così come la morte di Kennedy e di altri uomini di buona volontà che si sono espressi, con il loro esempio sono diventati, come afferma Giovanni, il chicco che cadendo dà molto frutto.

fonte: http://federicafrancesconi.blogspot.it/

18/12/17

l'Ordine del Giorno Grandi non provocò la caduta di Mussolini

il complotto dei generali, l’ambasciata di Filippo d’Assia, l’incontro con il re a Villa Savoia. 





Alle 3,55 del 25 luglio 1943, Mussolini esce sconfitto dalla riunione del Gran Consiglio del fascismo. Prende congedo e chiede al segretario del Partito di accompagnarlo, in auto, a Villa Torniola. Alle otto dello stesso mattino Mussolini è già in piena attività. Contemporaneamente, a Villa Savoia, residenza privata della famiglia reale, Vittorio Emanuele III apprende dal colonnello Tito Torella di Romagnano, suo secondo aiutante di campo, di un possibile colpo di stato. Romagnano racconta che nelle primissime ore del mattino il generale Angelo Cerica, comandante in capo dell’Arma, lo aveva invitato a recarsi al comando di viale Liegi per una urgentissima comunicazione. In un incontro teso e drammatico, Cerica aveva messo al corrente Romagnano di un sorprendente colloquio avuto la sera prima con il capo di Stato Maggiore Generale, Vittorio Ambrosio: ‘Ieri sera- racconta Cerica- sono stato chiamato a Palazzo Vidoni dal generale Ambrosio. Dopo aver accennato alla riunione del Gran Consiglio e alle sue possibili conseguenze, Ambrosio mi ha detto: Posdomani Mussolini andrà dal re, al Quirinale, per la solita udienza. Quando starà per uscire, tu devi farlo scomparire. Hai capito? Devi farlo scomparire com’è scomparso Matteotti, Mussolini va spedito senza lasciar traccia, in modo che il re non dovrà mai sapere nulla dell’accaduto’. Vittorio Emanule III apprende così il piano dei suoi generali di rapire e assassinare Mussolini. E, si infuria.
Chi sono i capi militari che hanno ordito il piano? Tra i cospiratori c’è il generale Castellano, primo aiutante di Ambrosio, il più giovane generale dell’esercito. Ma il cervello della congiura è il generale Giacomo Carboni, che dopo l’8 settembre sarà accusato della mancata difesa di Roma dai tedeschi. Nato a Reggio Emilia il 29 aprile 1889 da una famiglia di origine sarda, il padre Giovanni Maria convinto mazziniano era stato ufficiale nelle guerre di indipendenza. La madre era di origine anglo-americana. Carboni incontrò Mussolini nel 1912 a Milano, mentre era comandante di plotone al 5° alpini. Partecipò alla guerra italo-turca come volontario facendosi promuovere tenente per meriti di guerra nel 1913. Divenuto capitano degli alpini, nel corso della prima guerra mondiale è sul fronte dolomitico come addetto al comando nella 2ª divisione di fanteria, sarà decorato al valor militare. Dopo il conflitto tra il 1936 e il 1937 comanda l'81º Reggimento fanteria "Torino", e svolge una serie di operazioni speciali in Etiopia che lo avvicinarono al SIM (Servizio informazioni militare). Nel 1937 è promosso generale di brigata e nominato vicecomandante della 22ª Divisione fanteria "Cacciatori delle Alpi". Lo si ricorda soprattutto per aver diretto il SIM nel periodo della cosiddetta “non belligeranza”, fino alla drammatica estate del 1943. Fu il regista che aprì e chiuse l’esperienza bellica italiana al fianco dei tedeschi. Su posizioni antitedesche, nei mesi precedenti la dichiarazione di guerra mantenne per conto di Galeazzo Ciano e Pietro Badoglio relazioni con gli addetti militari di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti, e redasse rapporti pessimistici sulle capacità militari italiana e germanica. Come scrive  Solange Manfredi nel suo libro Psyops, Carboni era assai vicino a Giuseppe Cambareri spia-mago-esoterista al servizio degli Alleati. Proprio a Carboni, il Cambareri offrì la sua casa e la sua organizzazione come sede del quartier generale impegnato nella difesa di Roma dopo l’armistizio del 1943.  Carboni era un conoscitore attento della realtà americana, e in dichiarazioni e scritti si vanterà più volte di essere stato il primo, tra gli esponenti della fronda militare, a proporre al generale Ambrosio l’adozione di misure energiche contro il Duce. Carboni, come detto più sopra, ebbe un ruolo essenziale negli avvenimenti che seguirono la caduta di Mussolini. Il 18 agosto 1943 fu nominato da Badoglio commissario del SIM, carica che mantenne sino alla capitolazione delle forze armate italiane. Entrò a far parte del Consiglio della Corona, presieduto dal sovrano, cui erano deputate le decisioni politiche più importanti, assieme a Badoglio, il Capo di Stato Maggiore generale Ambrosio e il Capo di Stato Maggiore dell'esercito Mario Roatta. Carboni fu posto da Ambrosio al comando del Corpo d'Armata Motocorazzato a difesa di Roma. Il 1º settembre 1943, in una riunione "allargata" del Consiglio della Corona, presente in rappresentanza del re il Ministro della Real Casa Pietro d'Acquarone, fu ascoltato il generale Castellano di ritorno dalla Sicilia dove aveva contattato i plenipotenziari degli Stati Uniti per trattare la resa dell'Italia. Fu proposto l’armistizio corto, nonostante le obiezioni di Carboni, armistizio che sarà sottoscritto due giorni dopo, il 3 settembre a Cassibile. Il 7 settembre 1943, Carboni ricevette due ufficiali americani Maxwell Taylor e William Gardiner che gli comunicarono ufficialmente che l'indomani, alle 18.30, doveva essere resa nota l'avvenuta sottoscrizione dell'armistizio e nel frattempo si dovevano concordare i particolari dell'Operazione Giant 2 per la difesa di Roma. Carboni sostenne che lo schieramento italiano non avrebbe potuto resistere più di sei ore alle truppe tedesche. Per decidere su come agire al meglio Carboni e i due ufficiali americani si recarono da Badoglio, e Carboni riuscì a convincere il maresciallo della giustezza della sua posizione. Badoglio richiese dunque l'annullamento dell'Operazione Giant 2 al generale Eisenhower, che però, irritato dal tira e molla italiano, dalle onde di Radio Algeri rese nota la stipula dell'armistizio tra l'Italia e le forze alleate all'ora prevista. Alle 18.45 dell'8 settembre 1943, si tenne una concitata riunione del Consiglio della Corona, dove, nonostante la contrarietà del generale Carboni, i presenti decisero di accettare lo stato di fatto e il Capo del governo fu incaricato di comunicare alla nazione la conclusione della resa. L'annuncio del Maresciallo Badoglio avvenne un'ora dopo, dai microfoni dell'EIAR. Alle ore 5.15 del 9 settembre, a battaglia in corso e all'insaputa del suo superiore Vittorio Ambrosio, il generale Mario Roatta impartì al generale Carboni l'ordine di spostare su Tivoli parte del Corpo d'Armata Motocorazzato posto a difesa di Roma (135ª Divisione corazzata "Ariete II" e 10ª Divisione fanteria "Piave") e di disporvi una linea di fronte escludente la difesa della Capitale. Roatta informò inoltre Carboni che a Tivoli avrebbe ricevuto ulteriori ordini dallo Stato Maggiore che si sarebbe provvisoriamente insediato a Carsoli. Più tardi pervenne a Carboni il formale ordine scritto con il quale lo si nominava anche comandante di tutte le truppe dislocate in Roma. Nel frattempo Vittorio Emanuele III e la sua famiglia, il Maresciallo Badoglio, i capi di Stato maggiore Ambrosio e Roatta e i ministri militari erano già in fuga, alla volta di Brindisi. Poco dopo le ore 7.30, indossati abiti civili e presa con sé la cassa del servizio, Carboni si recò con auto diplomatica a Tivoli per organizzare il nuovo schieramento di truppe e ricevere ulteriori ordini. Non riuscendo a rintracciare Roatta proseguì sino ad Arsoli dove apprese che la colonna dei sovrani e del Maresciallo Badoglio era ormai lontana. Rimase alcune ore ospite del produttore Carlo Ponti, sino a quando il suo aiutante di campo non gli comunicò che l'ordine di Roatta delle ore 5.15 era stato confermato e, pertanto, provvide a riportarsi a Tivoli, dove insediò il suo comando. Nel frattempo, a Roma, in virtù del grado gerarchicamente più elevato, il Maresciallo Enrico Caviglia stava procedendo a contattare i tedeschi per la cessazione del fuoco. Alle ore 14.00, a Tivoli, Carboni incontrò il colonnello Giuseppe di Montezemolo, inviato da Caviglia, mentre l'Ariete e la Piave stavano iniziando il ripiegamento previsto. Non sembra che Montezemolo sia stato particolarmente esplicito nel comunicare a Carboni le intenzioni di Caviglia di trattare con i tedeschi. Nel primo pomeriggio del 9 settembre, Carboni dette ordine alla Divisione Granatieri di Sardegna, che stava combattendo la 2ª Divisione Paracadutisti tedesca al Ponte della Magliana, di resistere ad oltranza e alle divisioni Ariete e Piave di predisporsi, a sud, per prendere alle spalle la "paracadutisti" e a nord, per tagliare la strada alla 3ª Divisione Panzergrenadier che stava sopraggiungendo dalla Via Cassia.
Mentre ciò avveniva, Montezemolo e il generale Giorgio Carlo Calvi di Bergolo, a Frascati, incontravano il comandante tedesco Albert Kesselring che chiese quali condizioni per il prosieguo delle trattative, la resa dell'intero corpo d'armata motocorazzato italiano. In seguito ai contatti presi fra gli alti comandi italiano e tedesco, tra le 16.00 e le 17.00 del 9 settembre, da Roma, fu verbalmente ordinato alla Granatieri di Sardegna di lasciare il conteso ponte della Magliana per un concordato transito delle truppe germaniche verso il nord. In serata, le nuove posizioni su cui si erano attestati i granatieri furono nuovamente investite dalla divisione tedesca che continuò a procedere verso il centro di Roma. La mattina del 10, Carboni rientrò nella Capitale ormai assediata, installando il suo personale comando in un appartamento di Piazzale delle Muse e trovò le strade tappezzate di manifesti, fatti stampare da Caviglia, che avvertivano la popolazione che le trattative con i tedeschi erano a buon punto. L'accordo di resa fu firmato al Ministero della Guerra alle ore 16.00 del 10 settembre, tra il tenente colonnello Leandro Giaccone, per conto del generale Calvi di Bergolo e il feldmaresciallo Kesselring. Dopo la resa, Carboni fece distruggere buona parte degli archivi del SIM, custoditi nelle due sedi di Forte Braschi e Palazzo Pulcinelli, occultandone una parte superstite nelle catacombe di San Callisto. Nonostante la resa, lo storico Ruggero Zangrandi ritiene il generale Giacomo Carboni il vero vincitore della "battaglia di Roma" del 1943, per aver impedito alle efficienti 2ª Divisione Paracadutisti e 3ª Divisione Panzergrenadier, tenendole completamente impegnate, di ricongiungersi al resto dell'armata germanica nei pressi di Salerno, permettendo così agli anglo-americani di effettuare lo sbarco sulla Piana del Sele del 9 settembre 1943, già di per sé difficoltoso e ampiamente contrastato. Certo Carboni fece l’interesse degli aglo-americani. Nel giugno 1944 fu spiccato nei suoi confronti un mandato di cattura per la mancata difesa di Roma, ma eluse il provvedimento e si rese latitante grazie alle protezioni dei servizi di Intelligence degli Alleati anglosassoni, in particolare l'OSS americano. Più tardi fu processato in contumacia e, il 19 febbraio 1949 fu assolto da ogni accusa per aver adottato "determinazioni indirizzate all'intendimento di arrestare fuori dalle porte della Capitale l'invasione ad opera delle forze germaniche". Nel secondo dopoguerra, Carboni si avvicinò ai partiti della sinistra e fornì loro numerosi elementi di lettura sulla Intelligence italiana, dal SIM al SIFAR. Nel 1951, un precedente ordine di congedo assoluto emesso nei suoi confronti venne annullato e fu deciso il suo trasferimento nella riserva.
Ritorniamo a Villa Savoia. Messo al corrente del piano ordito contro il duce, Vittorio Emanuele III prende in mano la situazione. Convoca a colloquio il generale Cerica e lo informa che alle 17 riceverà in udienza Mussolini, al quale chiederà di rassegnare le dimissioni da presidente del Consiglio. Dopodiché Mussolini dovrà essere trasportato in un luogo assolutamente sicuro. Il 22 luglio, tre giorni prima, il re aveva ricevuto tramite il genero Filippo d’Assia, notizia della decisione presa da Hitler dopo il fallimento dell’incontro di Feltre: era pronta per l’Italia l’operazione Alarico, pensata nel caso che l’Italia rompesse, unilateralmente, l’alleanza con il Reich. L’operazione prevedeva l’istituzione del controllo militare diretto tedesco sulla Penisola. Erano, infatti, giunte notizie certe sul progetto mussoliniano di aggregare attorno all’Italia le potenze dell’Asse per imporre con forza alla Germania la pace separata con la Russia. Una parte dei vertici militari tedeschi erano favorevoli, non Hitler. Mussolini aveva messo al corrente il sovrano sulla linea che intendeva seguire, e il sovrano gli aveva espresso il suo pieno appoggio operativo. Ma ora l’ambasciata di Filippo d’Assia cambiava le carte in tavola e una tremenda minaccia si addensava sull’Italia.
Mussolini nel frattempo riceve a palazzo Venezia il segretario del Partito, Scorza e gli comunica che alle 17 sarà a Villa Savoia dal re, per proporgli alcuni provvedimenti riguardanti il Governo, che alle 20 saranno annunciati alla radio al paese. Aggiunge poi che, dopo la riunione della notte del Gran Consiglio forse sarebbe stato meglio sciogliere il Partito e ricostruirlo su nuove basi riformando lo stesso Gran Consiglio. Mussolini poi apprende da De Cesare che Goring ha accolto la sua richiesta di anticipare il suo arrivo a Roma per il 27 luglio. Entrano nello studio del duce l’ambasciatore giapponese Hisaka e il sottosegretario Bastianini. Sono le 12. Secondo quella che poi sarà la testimonianza di Bastianini, Mussolini chiede all’ambasciatore di comunicare al presidente Tojo che mercoledì 28 luglio egli farà un passo energico verso il Fuhrer per far cessare le ostilità sul fronte orientale, giungendo a patti con la Russia. In modo da concentrare tutto il potenziale bellico sul Mediterraneo contro gli anglo-americani. Mussolini chiede dunque che il Giappone appoggi questa sua posizione presso il Fuhrer per giungere il più presto possibile alla cessazione delle ostilità nei confronti della Russia. In caso contrario non ci sarebbero state più le condizioni per continuare la lotta contro il comune nemico anglo-americano. Dopo l’ambasciatore giapponese, Mussolini riceve il generale Galbiati che chiede come procedere nei confronti degli ammutinati della notte che hanno votato l’ordine del giorno Grandi. Mussolini risponde di aspettare. Gli sono già giunte alcune defezioni, tra cui quelle di Cianetti e poi tra qualche ora si vedrà con il re con il quale deciderà che fare.
Ore 17 incontro con il re. Mussolini viene a sapere della decisione di Hitler, in seguito al fallimento di Feltre, di dare avvio all’Operazione Alarico, vale a dire all’occupazione del territorio italiano e in primo luogo della capitale, proprio nelle prime ore del mattino di lunedì 26 luglio. E’ chiaro che il fhurer punta ad eliminare Mussolini dalla scena politica. Il re inoltre informa Mussolini del complotto dei generali per rapirlo e assassinarlo, e sollecita Mussolini ad affidarsi alla sua protezione, mentre i carabinieri proteggeranno i suoi familiari. In accordo con il re, Mussolini raggiungerà sotto la protezione dei carabinieri la caserma Podgora in via Quintino Sella a Roma. Nel frattempo il re riceverà Badoglio a Villa Savoia per incaricarlo di un gabinetto d’urgenza. Un cambiamento ai vertici del potere, in accordo con Mussolini dunque. All’uscita da Villa Savoia Mussolini sale su un’autoambulanza già in attesa che parte in direzione della caserma Podgora. I poteri ora passano nelle mani di Pietro Badoglio. Alla caserma Podgora Mussolini riceverà la lettera firmata ‘Badoglio’ che di fatto gli chiede di approvare il passaggio dei poteri. Mussolini risponderà con una lettera nella quale di fatto approverà il colpo di stato. Poi, sempre scortato dai carabinieri, e a bordo dell’autoambulanza sarà trasferito alla caserma della Legione Allievi di via Legnano, dove attenderà le decisioni di Vittorio Emanuele III.
Quello che accadde poi lo sappiamo. O meglio, ancora oggi sappiamo solo alcune cose, di sicuro mezze verità. Certo, la caduta di Mussolini non fu provocata dall’Ordine del Giorno Grandi come scritto nei libri di storia e come raccontato nelle fictions televisive.


Fonte principale: S., Bonifazi, 25 Luglio 1943: il caso è chiuso.

fonte: http://larapavanetto.blogspot.it/

11/12/17

le linee di Nazca

In Sudamerica, Perù meridionale, nell'altopiano di Nazca, sopra un tavolato di circa 500 Kmq, si trova uno degli enigmi più affascinanti dell'archeologia.

In questo luogo tra i più aridi del mondo, dove soffiano venti impetuosi, negli anni '20 un pilota militare avvistò nel deserto strani segni, presentò regolare rapporto ma da allora, per 50 anni, su Nazca calò il segreto di Stato.

Sul suolo dell'altopiano sono state disegnate con una incredibile perizia, tutta una serie di figure antropomorfe, zoomorfe e geometriche, tutte realizzate con tratto continuo.

Per vederle occorre essere ad una quota di almeno 300 metri dal suolo; per ammirarle tutte insieme bisogna superare i 1.000 metri.

Sono centinaia di disegni talmente grandi da essere visibili solo dall'alto e, non esistendo alcun punto elevato nelle vicinanze, per osservarli occorre un mezzo volante. La scimmia, ad esempio, è lunga 130 m e larga 90 m.
Come hanno fatto a disegnarla se non era possibile controllare dall'alto le proporzioni del geroglifico? ..


Il Colibrì è lungo 50 m, il ragno 45 m, il condor 120 m, come il pellicano, la lucertola arriva a 188m!

Questi geroglifici possono essere definiti la più grande opera grafica del mondo. Sono stati realizzati asportando dal suolo lo strato superficiale di ciottoli vulcanici neri, in modo da scoprire il fondo più chiaro composto di sabbia giallina. Un'operazione di poche decine di centimetri.
L'eternità di queste opere è garantita da una particolare combinazione climatica che crea un effetto di fissaggio dei ciottoli sul terreno: una volta disposti non si muovono più.

Finora gli studiosi hanno determinato con certezza solo che ci sono state due fasi distinte, la più antica ed evoluta è quella delle raffigurazioni zoomorfe e antropomorfe, la più recente e meno evoluta è quella dei temi geometrici. 
Le varie forme sono talmente complesse da risultare difficili da riprodurre anche con carta e penna.

Le figure zoomorfe (come il cane, la scimmia, il ragno, il condor, la balena...), così come quelle antropomorfe (teste di uomini, mani..) e quelle raffiguranti piante e fiori, sono circondate da un labirinto di forme geometriche di una precisione sconcertante.

La più grande delle figure è un rettangolo. 

Ci sono delle linee perfettamente rette che sono lunghe più di 8 Km, una arriva a 65 Km!

A Nazca i misteri sono di casa

Il geroglifico del ragno rappresenta uno dei più rari aracnoidi del mondo, che vive solo nella foresta amazzonica e si riconosce per essere l'unico esemplare ad avere l'organo riproduttivo su una delle zampe, un particolare che è visibile solo al microscopio. Perché gli artisti di Nazca hanno attraversato le Ande, sono penetrati nella foresta amazzonica, hanno scovato uno di questi rarissimi ragni, per poi raffigurarlo in un disegno che nessuno poteva vedere dal basso?

E che dire dei disegni che raffigurano la balena e la scimmia? Non si può certo affermare che siano animali comuni nel Perù.

C'è anche la raffigurazione di un uomo col braccio destro alzato e stivali ai piedi.

Ci sono numerose ed enigmatiche teste circondate da aureole splendenti. Nella baia di Pisco, si nota il geroglifico di un candelabro o tridente, anch'esso di dimensioni impressionanti, che annuncia dall'oceano l'esatta collocazione dei geroglifici di Nazca, mediante la sua precisissima orientazione. Di date neanche a parlarne, perché è impossibile datare un'opera effettuata asportando dei ciottoli dal terreno. Per chi sono state disegnate le figure, visto che sono visibili solo dall'alto?

La risposta scontata è che siano state realizzate per qualcuno che dall'alto potesse vederle, cioè per qualcuno che volasse nel cielo. Secondo alcuni astronomi la figura del ragno è un preciso diagramma della costellazione di Orione, realizzato in modo da studiare, nel corso delle epoche, gli spostamenti delle tre stelle della cintura, più o meno con lo stesso meccanismo con cui funziona la meridiana.

Gli allineamenti stellari di Nazca sono ancora in studio, ma già sono state scoperte linee che con precisione indicano solstizi, equinozi e particolari fenomeni celesti. Secondo alcuni matematici le linee di Nazca sono da considerarsi una scrittura cifrata, vale a dire una sorta di frase in geroglifico che contiene un messaggio preciso, organico, quindi intelligente, ancora tutto da decifrare. Secondo le popolazioni locali i segni nel deserto furono fatti dagli dei, i Viracochas, figure divine molto particolari adorate dagli Incas. Erano esseri dalla pelle bianca ed i tratti somatici europei, avevano la barba, venivano dal mare (o dal cielo sopra al mare), portarono la civiltà e la pace ai loro antenati e, prima di andare via, promisero che un giorno sarebbero tornati.

La più contestata delle teorie su Nazca è l'ipotesi Extraterrestre

In pratica i geroglifici sarebbero una sorta di segnaletica stradale ad uso degli Ufo, contenente le informazioni necessarie ai viaggiatori del cielo. Una variante di questa teoria prevede le linee di Nazca come vere e proprie piste di atterraggio. Va detto che, a causa della morbidezza del terreno, sarebbe impossibile sia un atterraggio tradizionale che uno verticale. Naturalmente, un velivolo che si muove, atterra e decolla utilizzando i campi elettromagnetici e non toccando materialmente il suolo (come quelli descritti da molti testimoni di incontri ravvicinati del III e IV tipo), non avrebbe nessun problema. Nazca rimane un mistero archeologico, un imbarazzante rompicapo per tutti quegli studiosi che vogliono a tutti i costi definire primitivi gli uomini vissuti su questo pianeta migliaia di anni fa. 

Ipotesi

Fra le varie ipotesi per tentare di capire come sia stato possibile realizzare i giganteschi geroglifici di Nazca, vi è la teoria del pallone aerostatico. Occorre ricordare che, per realizzare un disegno che si estende per 100 metri, è indispensabile poter controllare dall'alto le proporzioni di cosa si sta tracciando.

A Nazca le linee rette, che è possibile segnare allineando tre paletti ad occhio, corrono per Km (in alcuni casi più di 8 Km) con un margine di errore di appena 2 metri ogni Km (0,2%). Anche oggi, con la moderna tecnologia, sarebbe arduo fare altrettanto.

Assolutamente inspiegabili sono i disegni zoomorfi o comunque "figurativi", realizzati con un unico tratto continuo, in un labirinto di arabeschi e con una stilizzazione niente affatto primitiva. Come facevano a verificare dall'alto?

L'ipotesi avanzata da alcuni scienziati, è che gli Indios di Nazca avessero scoperto l'uso della mongolfiera. 
A bordo dei palloni aerostatici, i direttori dei lavori potevano controllare la corretta realizzazione del geroglifico e indicarne le direttive.

L'idea nasce da una decorazione presente in alcuni frammenti di vasellame ritrovati in zona, rappresentante un oggetto simile ad una mongolfiera. Nei pressi di alcune delle linee sono stati ritrovati dei cerchi scuri che potrebbero essere le tracce delle fosse di combustione utilizzate per riscaldare l'aria nelle mongolfiere. Nel 1975 fu tentato un esperimento con cui si verificò che, con i materiali disponibili tra il 500 a.C. ed il 700 d.C. (datazione accreditata dagli scienziati più ortodossi per le linee di Nazca), era possibile realizzare una mongolfiera in grado di compiere brevi voli.

Questa teoria, però, non è accettata da tutti gli studiosi per due motivi: non sono mai stati ritrovati resti delle presunte mongolfiere ed i voli possibili erano troppo brevi e rischiosi per permettere un adeguato e continuo controllo dei lavori.

Quella, comunque, più accreditata e realistica induce a pensare che gli antichi peruviani abbiano dapprima realizzato disegni in scala ridotta che sarebbero stati successivamente riportati ingranditi sul terreno con l'aiuto di un opportuno reticolato di corde (in maniera simile a come fece Gutzon Borglum, l'artista che scolpì i volti dei Presidenti statunitensi sul monte Rushmore). Inoltre, non è del tutto esatto il fatto che le linee non si possano osservare da terra: infatti ci sono molte colline e montagne nell'area di Nazca che avrebbero permesso agli artisti di osservare il proprio lavoro in prospettiva.

C'è da tener presente anche che, sicuramente, appena disegnate, le linee dovevano essere ben visibili, di colore giallo brillante, come le impronte recenti di pneumatici che passano nella zona.

Non solo in Perù

- In Russia, sul fondo del Mare Di Aral, un enorme lago salato che si sta essiccando, sta venendo lentamente alla luce una nuova Nazca che si estende su un'area di 500 Kmq. L'aspetto straordinario dei geroglifici russi è che sembrano avere un ordine preciso, convergono tutti verso un punto, dove è segnata una freccia. Per il resto, sono in tutto simili a quelli di Nazca: visibili solo dall'alto, incredibilmente precisi.
- Nel deserto di Mojave, in California, lungo il corso del fiume Colorado, nel fondo di laghi ora asciutti, c'è una fila di canali tagliati artificialmente in maniera regolare, nota come Labirinto di Mojave.
- Sulle pareti del Titus Canyon, nella Valle della Morte, ci sono gigantesche incisioni raffiguranti pecore, lucertole, figure geometriche, un candelabro capovolto simile a quello di Nazca e linee ondulate.
- In Cile ci sono strani intrecci di canali regolari, visibili solo dall'alto.
- In Australia, fotografando dal satellite Europa I, di giorno e con i raggi infrarossi, la pianura di Nullarbor (una distesa di sabbia di 167.000 kmq), si sono notate sul terreno 5 righe parallele, larghe circa 14 km, lunghe 400 km e distanti da 80 a 100 km l'una dall'altra. Un complesso troppo regolare ed esteso per poter essere uno scherzo della natura.
- Figure simili a quelle di Nazca, ma più piccole, si trovano anche sulle Ande, intorno al lago Titicaca.

Fonte: flyingobject.altervista.org

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Non molto tempo fa il professor Masato Sakai, specialista in archeologia andina, che ha indagato sulle linee di Nazca per oltre dieci anni, ha stimato che circa un migliaio delle linee rette trovate a Nazca servivano a facilitare le comunicazioni ed i collegamenti tra i villaggi e le persone.

Secondo la teoria proposta dal professor Sakai, le linee di Nazca sono state realizzte in un periodo di circa 2000 anni partendo dal 400 A.C.

Mentre la sua teoria è sicuramente interessante, non si riesce a spiegare lo scopo generale delle figure, forme geometriche e gigantesche “piste” sulle montagne le cui cime sembra siano state rimosse con lo scopo di creare una superficie quasi piatta che stranamente imita le piste dei nostri giorni.


La domanda è: perché non interpretiamo le giganti linee come quelle che sembrano … piste giganti?

Ebbene, innanzitutto ciò sarebbe in contrasto con tutto quello che la storia ci ha raccontato negli ultimi cent’anni.

L’uomo antico che abitava le regioni delle Americhe, Asia e Africa era primitivo e non avanzato, così l’idea che le linee di Nazca avrebbero potuto essere state usate come una sorta di pista gigante sembrerebbe ridicola a coloro i quali si attengono agli storici e agli archeologi tradizionali .

Purtroppo è stato dimostrato che gli studiosi sono molto attenti quando si tratta di siti come le linee di Nazca, Puma Punku, Tiahuanaco, Teotihuacan, ecc …

Solo perché gli studiosi tradizionali dichiarano che sarebbe impossibile che l’umanità antica possedesse una tecnologia avanzata migliaia di anni fa, non significa necessariamente che sia vero.

Una domanda importante che dobbiamo porci è se le linee di Nazca fossero in realtà un’arte antica o un modo per l’uomo antico di comunicare, allora perché ci sono anomalie magnetiche presenti nei pressi di queste linee misteriose?

Secondo i rapporti, gli scienziati dell’Università di Dresda sono andati alla ricerca delle linee di Nazca, hanno misurato il campo magnetico ed hanno trovato variazioni del campo magnetico sotto alcune delle linee.

Anche la conduttività elettrica è stata misurata a Nazca, dove i test sono stati eseguiti direttamente sulle linee ed intorno a loro. I risultati hanno mostrato che la conduttività elettrica era 8000 volte più alta rispetto alle linee adiacenti.

Secondo i ricercatori, a circa otto metri al di sotto di alcune delle linee ci sono anomalie del campo magnetico.

C’è qualcosa a Nazca che la rende unica, diversa da qualsiasi altro luogo sulla terra, ma noi semplicemente non sappiamo cosa sia.


Nazca: L’antica pista Vimana

I testi antichi, in particolare i testi indiani, parlano dell’antico Vimana. Secondo molte interpretazioni i Vimana sono i veicoli degli dei che hanno visitato la Terra in un lontano passato.

Gli studiosi tradizionali ritengono che queste incredibili macchine volanti non siano altro che un mito. Si dice che fossero in grado di viaggiare per brevi periodi di tempo in luoghi diversi del pianeta e avessero anche la capacità di viaggiare da un pianeta all’altro .

Aachaarya Naaraayana dice: “ciò che può accelerare sulla terra, sull’acqua, attraverso l’aria, dal proprio potere, come un uccello, è un” Vimana. “

Shankha dice: Gli esperti della scienza dell’aeronautica dicono: “Ciò che può volare attraverso l’aria da un luogo ad un altro è un Vimana”.

E Vishwambhara dice: “Gli esperti dicono che quello che può volare in aria da un paese all’altro, da un’isola ad un’altra isola e da un mondo all’altro è un” Vimana “.

Il Vaimānika Śāstra un testo sanscrito del 20° secolo sulla tecnologia aerospaziale, fa un’affermazione riguardo i vimānas menzionati nell’antica epopea sanscrita: erano veicoli volanti aerodinamici avanzati; simile a un razzo in grado di effettuare voli interplanetari. Come sostenuto dall’ antica teoria aliena.

Mostrati nel 1952 da G.R. Josye, i testi contengono 3000 shlokas (versi) in 8 capitoli che Shastry sostiene essere stati fisicamente consegnati a lui dall’antico saggio Bharadvaja. La propulsione dei Vimana, secondo Kanjilal (1985), avviene attraverso “Mercury Vortex Engines” (Motori a Vortici di Mercurio), un concetto simile alla propulsione elettrica.

Gli autori sostengono che il saggio Maharishi Bharadwaj avrebbe descritto più di 7000 anni fa “aeromobili in viaggio tra i paesi, continenti e pianeti.”

Allo stesso tempo il Vice Cancelliere dell’Università di Mumbai, Rajan Welukar, ha detto che “non c’è ragione di credere in quello che dicono dei veda, ma è qualcosa che vale la pena studiare.”

Quindi le “piste” giganti che sono chiaramente visibili in Perù presso Nazca sono in realtà “marcatori di navigazione” per veicoli antichi come il Vimana?

Gli ‘dèi’ utilizzavano questi percorsi in un passato lontano per visitare la gente in Perù?

E se l’antico popolo avesse solo cercato di imitare le figure in onore di quegli “dèi” che venivano dall’alto?

È interessante notare che, secondo alcune leggende locali, il misterioso creatore Inca, ildio Viracocha, avrebbe commissionato le Linee di Nazca ed altri glifi in passato.

Si dice che queste linee siano state create dallo stesso Viracocha. Era il grande maestro Dio delle Ande.

Viracocha era una delle divinità più importanti nel Pantheon Inca, visto come il creatore di tutte le cose o la sostanza da cui tutte le cose sono create e intimamente associato con il mare.

Secondo il mito registrato da Juan de Betanzos, Viracocha è salito dal Lago Titicaca (o talvolta dalla grotta di Pacaritambo) durante il periodo dell’oscurità per potare luce.

Alcune delle parti di Nazca hanno disegni sorprendenti, triangoli altamente precisi che sono un mistero.

Alcuni dei triangoli sembrano essere stati fatti da qualcosa che ha letteralmente pressato il suolo di almeno 30 centimetri con una forza incredibile. Gli antichi a Nazca sarebbero stati in grado di fare questo? Con i piedi?

Come si può creare un triangolo “perfetto” di sei miglia pressando il terreno nel deserto? Queste sono solo alcune delle teorie sulle enigmatiche linee di Nazca che gli studiosi tradizionali stanno cercando di spiegare.

Fonte: nonsiamosoli.info

fonte: https://crepanelmuro.blogspot.it/


Il "candelabro di Paracas" è un geoglifo inciso sul fianco di una collina della penisola di Paracas, a Pisco Bay. Alcune stime fanno risalire l'enigmatica formazione al 200 a.C., ma secondo alcuni studiosi l'incisione sarebbe molto più antica. Si trova a 3 ore da Nazca.