24/12/17

PPP - 26 -

PIER PAOLO PASOLINI. UNA MORTE DA CONTRAPPASSO MASSONICO





Pier Paolo Pasolini è stato una delle poche voci fuori dal coro nel desolante panorama intellettuale della seconda metà del XX secolo, un sassolino nell’ingranaggio di un sistema che non ammette defezioni di sorta. La sua morte violenta ha ancora oggi un qualcosa di paradigmatico, di simbolico per la ferocia con cui il delitto è stato consumato, per i successivi depistaggi delle forze dell’ordine e della magistratura e per l’emozione che suscitò negli strati non corrotti del popolo italiano. Ma non solo. Essa è stata anche simbolo di un mondo che stava scomparendo, di una funzione – quella dell’intellettuale non organico al sistema – che di lì a poco sarebbe crollata sotto i colpi della subcultura da spettacolo. Possiamo vedere in Pasolini l’ultimo grande vate che l’Italia, e forse il mondo intero, abbia conosciuto.

Il 2 novembre 1975, giorno dei Morti, il corpo massacrato di Pasolini viene ritrovato in un campetto di calcio su una spiaggia di Ostia. Massacrato a colpi di bastonate e poi ripetutamente investito, ormai morente, da un auto guidata non si sa da chi. Senza voler entrare nella ricostruzione della dinamica della sua morte e dell’identità dei suoi colpevoli, il delitto Pasolini rientra perfettamente nella categoria del delitto massonico, ed è questo l’aspetto che qui mi propongo di approfondire.

Pasolini, dicevamo, era un intellettuale inviso al sistema, per più di un motivo: accusatore del governo democristiano e delle sue nefandezze, al punto che gli attribuirà la responsabilità morale della Strage di Piazza Fontana; polemico verso il consumismo disumanizzante che in quegli anni cominciava a infiltrarsi nella società italiana; avversato dal Partito Comunista per la sua libertà di pensiero e per il suo approccio alla realtà antiideologico; odiato dalla destra per la sua diversità di omosessuale, l’intellettuale era visto un po’ da tutte le parti come un eretico, un sovversivo che attraverso la sua poliedrica opera artistica scagliava dardi contro la corruzione della società e della politica.

Ed è proprio nell’opera artistica dell’intellettuale, in particolare nelle sue ultime opere letterarie e cinematografiche, che va estratta la chiave per comprendere da un punto di vista esoterico la sua tragica morte.

Cominciamo con la sua ultima opera letteraria che non è, come viene spesso scritto, il romanzo inedito Petrolio, ma un piccolo saggio, La Divina Mimesis, il cui manoscritto venne consegnato da Pasolini all’editore Einaudi pochi giorni prima di morire. Si tratta di una raccolta di riflessioni estetiche nele quali il poeta indaga il rapporto tra la realtà e l’imitazione della realtà attraverso l’arte, arrivando alla conclusione che l’imitazione artistica della realtà non è, come aveva affermato Platone, una copia imperfetta della stessa, ma perfetta, perché coincide con la realtà stessa. Di più: l’imitazione anticipa la realtà, ne rappresenta la profezia, perciò è divina. Nel saggio in questione c’è un passo davvero inquietante in cui il poeta annuncia al mondo che sarà “ucciso a colpi di bastone” (S.60). Questo annuncio sconvolgente di lì a pochi giorni si trasformerà in un avvenimento reale. Coincidenza o profezia, in questo caso morte poetica e morte reale sembrano davvero costituire una mimesis perfetta. Ma le “coincidenze” non si fermano qui. C’è un’altra opera, questa volta cinematografica, in cui il poeta preannuncia la sua morte violenta: Il Vangelo secondo Matteo. Portato a termine nel 1964, anch’esso rientra nella teoria della divina mimesis, dove Pasolini pone ai piedi della croce sua madre Susanna, nella veste di Maria di Nazareth, quasi a voler sottolineare la corrispondenza tra arte e realtà. Del resto Pasolini, fervente cristiano, sosteneva che “tutto ciò che è mitico è realistico” e “tutto ciò che è realistico è mitico”, stabilendo così un continuum tra sogno e realtà, tra invenzione e realtà, tra simbolo e realtà, poiché arte, sogno e simbolo altro non sono che imitazioni perfette della realtà e, proprio perché perfette, coincidenti con essa.

Dunque il poeta aveva trasfuso nelle sue opere i suoi presagi di morte. Di morte sacrificale, poiché le modalità con cui essa avvenne, e i successivi insabbiamenti, hanno i caratteri di un vero e proprio sacrificio rituale. E non è un caso che per celebrale questo sacrificio i sacerdoti occulti che decretarono la morte del poeta scelsero come località Ostia. Ostia è un toponimo che richiama il vocabolo latino Hostia, con il quale si indicava la vittima offerta in sacrificio alla divinità. In tale prospettiva la scelta di Ostia e del campetto da calcio come recinto “sacro” per celebrare il sacrificio cruento della vittima, appare di una limpidezza sconcertante.

Esiste anche un’altra opera dove Pasolini manifesta il sentore della sua morte. Essa è una poesia del 1943 (poi rielaborata nel 1974 in una nuova versione): Il giorno della mia morte. Si tratta di un piccolo componimento preceduto, nella seconda versione, dai seguenti versetti del Vangelo di Giovanni: “se il chicco di grano, caduto in terra, non morirà, rimarrà solo, ma se morirà, darà molto frutto”. Il testo della poesia è di una lucidità sconcertante, quasi profetica, si è tentati di pensare: “In una città, Trieste o Udine, per un viale di tigli, di primavera, quando cambiano il colore le foglie, io cadrò morto”. Dunque il poeta vide la sua morte violenta. Vide il crollo di una civiltà che cadeva sotto i colpi dell’omologazione. Vide l’orrore del presente, i suoi idoli materiali, le bassezze dell’umanità, le sue fragilità. Ma poté vederle perché vide prima le sue, di fragilità. La realtà in qualche modo gli faceva da specchio e, anziché voltarsi dall’altra parte, la guardò in faccia senza esitare. E infine la rappresentò nella sua arte. Ecco il significato della Divina Mimesis come approccio al reale: non si può cogliere l’orrore del mondo se non si è disposti a guardare l’orrore, l’abisso che abita in noi, che di quel mondo siamo parte integrante.

Pasolini era anche lui un uomo fragile, ma non rinunciò a denunciare l’orrore del potere. Ed è questo che non gli venne mai perdonato. Il suo ultimo film-capolavoro, Salò o le 120 giornate di Sodoma, uscito nelle sale cinematografiche poche settimane dopo il suo omicidio, è il Manifesto dello svelamento dell’orrore del mondo che ci circonda ma anche l’elaborazione del lutto per un mondo che non esiste più, un mondo fagocitato da un potere subdolo, strisciante e perverso. Ed è proprio la perversione del potere e l’uso deviato della sessualità che Pasolini denuncia nel film con lucido realismo. Nel film scompare ogni traccia di “sacro”, inteso come limite. Tutto è lecito: la violenza inaudita, l’abuso psicologico, la tortura, l’assassinio. Tutti i poteri di questo mondo sono accusati da Pasolini: politico, religioso, militare e culturale. Il ritorno al passato, a un mondo genuino, semplice, ancora pervaso dall’incanto del “limite”, non esiste più, è stato spazzato via dalla disillusione prodotta dall’omologazione culturale e dal consumismo. Quel consumismo cannibale che consuma corpi, li abusa e poi li macina nella ruota sacrificale del nichilismo. Salò è insieme il rimpianto per un mondo che mai più tornerà e il grido di denuncia di un sistema che sacrifica (sia in senso metaforico che in senso letterale, come precisò il poeta in un’intervista a una emittente francese, poco prima di morire) vittime umane.

Questo grido di denuncia non passò inosservato ai sacerdoti del potere, i quali si attivarono subito per far tacere per sempre una voce scomoda che aveva osato svelare i meccanismi perversi di cui il potere si serve per nutrirsi e perpetuare se stesso. Così venne decretata la morte di Pasolini per contrappasso. Si tratta di una pratica diffusa nelle centrali deviate del potere, in base alla quale in condannato alla pena capitale deve essere ucciso in un modo che evoca direttamente il reato di cui si è macchiato. Pasolini, che nella sua produzione artistica, diede delle bastonate metaforiche al potere deviato, pericò fu condannato a morire di bastonate.

Chi ha ucciso Pasolini era a conoscenza della Legge del contrappasso massonico. Ed era anche a conoscenza dell’autoprofezia che Pasolini fece riguardo alla sua morte nel saggio La divina Mimesis, che doveva in quei giorni essere dato alle stampe. Qualcuno ebbe accesso al manoscritto, lesse la sua morte poetica “a colpi di bastonate” e si adoperò per realizzare la profezia. Con la morte del poeta si volle chiudere un cerchio. Ma ciò che di “divino” rimane impresso nella vicenda cruenta di Pasolini è che egli morì sì, ma non da uomo sconfitto. Pasolini sapeva che prima o poi lo avrebbero messo a tacere, ma non rinunciò ad esprimersi. Ed è proprio la sua morte violenta che, come un faro nella notte, proietta una luce che illumina il senso profondo della sua opera e della sua vita. Così come la morte di Kennedy e di altri uomini di buona volontà che si sono espressi, con il loro esempio sono diventati, come afferma Giovanni, il chicco che cadendo dà molto frutto.

fonte: http://federicafrancesconi.blogspot.it/

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