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28/03/21

pittore - voce dell'Encyclopédie


Cavaliere Louis de Jaucourt

Di Paola Mangano

La voce Pittore dell’Encyclopédie, redatta dal Cavaliere Louis de Jaucourt (*), è rintracciabile nel volume dodicesimo della seconda edizione (1769), nella versione originale francese on line seguendo il link che riporto di seguito – Byterfly. alle pagine 203 e 204.
Anche se l’attenzione degli enciclopedisti era rivolta da una parte alle tecnologie e dall’altra ad argomenti filosofici, politico-religiosi e scientifici – sui quali è oggi reperibile una abbondante e qualificata saggistica – esiste un notevole numero di voci, non ancora sufficientemente studiate, che riguardano le cosiddette belle arti. 
L’arte nell’Encyclopédie, recuperando la sua originaria dimensione tecnica, diviene fenomeno pienamente legato alla sfera del lavoro e dell’utilità sociale, estrinsecabile in una molteplicità di pratiche, finalizzata all’incremento ed alla diffusione della cultura nella società.
In tutta la mole delle voci artistiche mi concentrerò su quelle che più interessano la pittura al fine di trarne qualche spunto di riflessione, lungi da me e dalle mie competenze proporre un’analisi critica autorevole.

Pittore

Artista che sa rappresentare ogni sorta di oggetti per mezzo di colori e pennello.
La fortuna di un pittore è di essere nato dotato di genio. (1) Questo genio è quel senso che eleva i pittori al di sopra di loro stessi, che permette loro di immettere l’anima nelle immagini e il movimento nelle composizioni che rappresentano. L’esperienza prova a sufficienza che non tutti nascono col genio che permette di diventare pittori. Abbiamo visto uomini di spirito, che avevano copiato parecchie volte ciò che la natura ha prodotto di più piacevole, invecchiare col pennello e la tavolozza in mano, senza elevarsi al di sopra del rango di mediocri coloristi e servili copiatori di rappresentazioni altrui. Gli spiriti più comuni sono capaci di essere pittori, ma mai grandi pittori.
Per i pittori non è sufficiente avere del genio, concepire idee nobili, immaginare le composizioni più eleganti e trovare le espressioni più patetiche: è anche necessario che la loro mano sia stata resa docile a flettersi con precisione in cento maniere diverse, per diventare capaci di tracciare con esattezza la linea che l’immaginazione richiede. Il genio ha, per così dire, le braccia legate in un artista la cui mano non sia sciolta. Quanto abbiamo detto per la mano, vale per l’occhio; bisogna che l’occhio di un pittore sia presto abituato a giudicare con un’operazione sicura e facile, al tempo stesso quale effetto debba fare una figura di una certa altezza in un gruppo e quale effetto farà un certo gruppo in un quadro, dopo che il quadro sarà dipinto. Se l’immaginazione non ha a disposizione mano e occhio capaci di assecondarla in ciò che richiede, dalle più belle idee generate da questa immaginazione non può che risultare un quadro grossolano, che lo stesso artista che lo ha dipinto rifiuterà, in quanto si renderà conto che l’opera prodotta dalla propria mano è inferiore all’opera immaginata dal suo spirito.
Lo studio necessario per perfezionare occhio e mano non si fa dedicando qualche ora distratta a un lavoro spesso interrotto. Tale studio richiede una totale attenzione e una perseveranza che si protragga per molti anni. E’ nota la massima che impedisce ai pittori di lasciar passare un intero giorno senza stendere almeno qualche pennellata; non per niente si applica questa massima a tutte le professioni, tanto la si è ritenuta saggia: nulla dies sine linea. (2)
L’unico periodo della vita che è particolarmente adatto a far acquisire perfezione all’occhio e alla mano è quel tempo in cui gli organi, sia interni sia esterni, stanno completando la loro formazione: è il periodo che va dai quindici ai trent’anni. Durante questi anni gli organi contraggono facilmente tutte le abitudini, di cui la loro intima conformazione li rende suscettibili. Ma se si perdono questi anni preziosi, se si lascia che passino via senza trarne profitto, la docilità degli organi svanisce irrimediabilmente e nessun sforzo può essere fatto per rivitalizzarla. Sebbene la lingua sia un organo molto più agile della mano, tuttavia, pronunceremo sempre male una lingua straniera imparata dopo i 30 anni.
Un pittore deve essere conscio di quale genere di pittura gli è proprio e limitarsi a questo genere. Rimane confuso tra la folla chi invece potrebbe essere elevato al rango degli illustri maestri, chi si è lasciato trascinare da una cieca imitazione, che lo ha spinto a diventare abile in quei generi di pittura per i quali non era nato e che gli hanno fatto trascurare quelli per i quali invece era adatto. Le opere che ha tentato di fare sono, se si vuole, di una classe superiore; ma non è forse meglio essere citati per essere uno dei primi ritrattisti del proprio tempo, piuttosto che un miserabile arrangiatore di figure ignobili e storpie?
I giovani pittori che aspirano al successo devono ancora guardarsi dalle passioni violente, in particolare l’impazienza, l’avventatezza, l’avversione. Quelli che si trovano in cattiva situazione economica non disperino di migliorare la propria situazione con l’applicazione; l’opulenza allontana dal lavoro e dall’esercizio della mano, la fortuna nuoce più al talento di quanto non possa essere utile; ma d’altra parte, in uno Stato i meriti, gli onori, e le ricompense sono necessari per incoraggiare lo sviluppo delle belle arti e per formarvi artisti superiori. Un pittore in Grecia era un uomo celebre non appena meritava di esserlo. Questo tipo di merito faceva di un uomo comune un personaggio e lo eguagliava a ciò che c’era di più grande e d’importante nello stato; i portici pubblici in cui i pittori esponevano i loro quadri erano i luoghi dove gli uomini più illustri della Grecia si recavano di volta in volta per esprimere il proprio giudizio. Le opere dei grandi maestri non erano allora affatto considerate come oggetti ordinari di arredamento, destinati ad abbellire gli appartamenti di un privato, ma venivano reputate i gioielli dello Stato e un vero tesoro pubblico, di cui tutti i cittadini dovevano gioire. Si paragoni dunque l’alacrità che gli artisti di un tempo avevano nel perfezionare il proprio talento con la brama che noi vediamo nei nostri contemporanei nell’ammassare ricchezze, o nel fare qualche cosa di più elevato che li agevoli ad arrivare ai grandi impieghi dello Stato.
Sebbene la reputazione di un pittore dipenda maggiormente, che non quella dei poeti, dall’approvazione degli esperti, tuttavia, questi non sono gli unici giudici del loro merito. Nessuno di loro perverrebbe, se non molto tempo dopo la morte, al meritato prestigio che gli è dovuto, se tale giudizio spettasse agli altri pittori. Fortunatamente i suoi rivali conterranei ne sono i maestri solo per un certo periodo. Il pubblico che viene illuminato rivendica a poco a poco il giudizio al proprio tribunale e rende a ciascuno quella giustizia che gli spetta. Ma in particolare un pittore, che tratta grandi soggetti, che dipinge cupole e volte di chiesa o che fa grandi quadri destinati a essere sistemati in quei luoghi ove molti uomini sono soliti riunirsi, è più conosciuto per quello che è, piuttosto che il pittore che lavora a quadri di cavalletto destinati a essere chiusi in appartamenti privati.
Ci sono inoltre luoghi, tempi e paesi in cui il merito di un pittore è riconosciuto più che altrove. Per esempio i quadri esposti a Roma saranno maggiormente apprezzati nel loro giusto valore, di quanto non lo sarebbero se fossero esposti a Londra o a Parigi. Il gusto naturale dei Romani per la pittura, le occasioni che essi hanno di gustarne, se così si può dire, i loro costumi, la loro scarsa operosità, l’occasione che loro hanno di vedere continuamente nelle chiese e nei palazzi capolavori di pittura, e può anche darsi la sensibilità dei loro organi, rendono questa nazione adatta più di ogni altra ad apprezzare il merito dei propri pittori senza l’aiuto della gente del mestiere. Infine un pittore ha conseguito una buona reputazione, quando le sue opere hanno assunto valore presso gli stranieri; non è sufficiente avere un piccolo gruppo di gente che le apprezzi, bisogna che siano comprate e ben pagate; ecco la pietra di paragone del loro valore.
Ciò che talvolta impedisce il talento dei pittori, dice al proposito Voltaire (3), e ciò che sembrerebbe spegnerlo è il gusto accademico, è lo stile che i pittori traggono da coloro che ne sono ritenuti i maggiori esponenti. Le accademie sono senza dubbio molto utili per formare gli allievi, soprattutto quando i direttori operano seguendo le norme del grand gout, ma se un direttore persegue il petit gout, se il suo stile è secco e arido, se le sue figure fanno le smorfie, se le sue espressioni sono insipide, se il suo colorito è debole, gli allievi, soggiogati dall’imitazione, o per il desidero di compiacere a un cattivo maestro, perdono completamente l’idea della belle nature. Datemi un artista che sia totalmente preoccupato di acquisire lo stile dei pittori suoi contemporanei, ne risulterà che ciò che produce sarà compassato e forzato. Datemi un uomo dallo spirito libero, pregno della belle nature che copia, ebbene quest’uomo riuscirà. Quasi tutti gli artisti sublimi sono fioriti prima dell’istituzione delle accademie, o hanno lavorato secondo un gusto diverso da quello che vigeva in quelle società; quasi nessuna opera che viene definita accademica ha ancora costituito, in alcun genere, un’opera di genio.

Il Cavaliere De Jaucourt

L’Encyclopedie, Tomo XII, pag. 203

La traduzione è tratta da Collezione dell’Enciclopedia, L’Arte e l’Architettura a cura di Cinzia Maria Sicca e Lucia Tongiorgi Tomasi, 1979 Gabriele Mazzocca Editore

La scena raffigura uno studio in cui si è cercato di riunire diversi tipi di pittura. Sullo sfondo dell’atelier si vedono due statue antiche, un globo, una squadra e alcuni libri, tutte cose utili ai pittori e che testimoniano lo studio dell’antichità, della storia, della geografia e dell’architettura.

La fig. 1. rappresenta un pittore di soggetti storici. a, Scaleo; b, bacile per lavare i pennelli o grande scatola per colori; c,macina di pietra per i colori.

La fig. 2. rappresenta un ritrattista. d, scatola dei colori.

La fig. 3. raffigura un pittore intento a eseguire una riduzione di un quadro del quale vuole fare una copia; e, quadro che gli serve a modello; f, tela sulla quale ha tracciato tanti quadrati quanti ne ha fatti su quello che si propone di ridurre (o di copiare).

La fig. 4. rappresenta un pittore di ritratti in miniatura.

Nella tavola in basso

Fig. 1. Poggiamano. 2. 3. e 4. Spatole di forme differenti. 5 e 6 Spazzolini di cui ci si serve per fondere i colori. 7. 8. e 9. Pennelli. 10. 11. e 12. Tavolozze di forme diverse

Per eccellere nell’attività di pittore occorrono doti naturali, acquisizione della tecnica e molta pratica quotidiana. Per gli enciclopedisti l’insieme di questi fattori non possono che estendere i limiti dell’arte portando l’artista tanto in alto da elevarsi da lui stesso. 
Genialità, tecnica ed esperienza quindi; tuttavia il genio non sempre sa disciplinarsi ed adeguarsi alle regole anzi Kant individua nel “Genio” quella facoltà, che hanno certi uomini privilegiati, di dare la regola all’arte offrendola come esempio da seguire. Per questo l’opera dell’artista che possiede il genio non è soltanto piacevole, ma bella e paragonabile alla bellezza naturale, perché non sottostà a regole, ma le crea. 
Il genio è un puro dono della natura, e il suo prodotto è il frutto di un momento ispirato; il gusto è il risultato di un lungo studio, poggia sulla conoscenza di una quantità di regole solidamente stabilite o supposte tali, produce opere di bellezza meramente convenzionale. Le regole e le leggi del gusto sono di ostacolo per il genio. 
Un’apparente contraddizione pervade questo scritto. Da una parte il genio deve imparare la tecnica e quindi sottostare a regole ben precise di studio e dall’altra non ne deve tener conto perché sarà lui stesso a crearne di nuove. Ma quello che in fondo si vuol dire è che in un mondo ideale l’artista dotato di genio saprà appropriarsi di tecniche e metodi per farne un uso proprio, come e dove non ha importanza. Tuttavia, credo che con il passare del tempo questo concetto di genio si sia trasformato in un escamotage per giustificare qualsivoglia realizzazione pseudo-artistica.
Si chiede in questo scritto al giovane pittore dal guardarsi dalle passioni violente che possono nuocere al talento così come l’ambizione alla fama e alla ricchezza; eppur, che io ricordi, sono più numerosi gli artisti tormentati che quelli di pacato spirito e diventare famoso e ricco pare sia l’aspirazione di ogni individuo di quella e di questa contemporaneità. 
Jaucourt riprende in questo articolo pressoché alla lettera uno scritto volterriano del 1752 (nota n. 3), argomentazioni molto prossime a quelle sostenute nella voce Talent delle Pensées da Rousseau, sempre pronto a rifiutare ogni genuflessione nei confronti del potere istituzionale a tutto vantaggio della natura: “Tante istituzioni in favore delle arti non fanno che nuocere loro. Moltiplicando impudentemente i soggetti si confondono; il vero merito resta soffocato nella folla, e gli onori dovuti al più abile sono tutti per il più intrigante.” J.-J. Rousseau, Les pensees de J.J. Rousseau, citoyen de Geneve. Si esprime qui un concetto prettamente illuminista contro la tradizionale pittura accademica, conservatrice e di maniera, dove non c’è contatto tra l’artista e la realtà. Si radicalizza quindi lo scontro tra il mondo accademico e lo stato moderno nascente, caratteristica non secondaria dell’intera iniziativa editoriale dell’Encyclopédie – le cui vicende travagliate sono un rilevante sintomo della difficoltà di transizione fra “vecchio” e “nuovo” sapere. 

Note:
*) Cavaliere Louis de Jaucourt (Paris, Sept 27, 1704;  Compiègne, Feb 3, 1779), fu il più prolifico tra gli oltre 130 collaboratori dell’Encyclopédie. Ha studiato teologia a Ginevra, scienze esatte e naturali a Cambridge, medicina a Leida, dove ha incontrato Tronchin. Tornato a Parigi nel 1736, visse in una società mondana e filosofica. Figura pressoché sconosciuta sebbene centrale per l’Encyclopédie contribuendo con ben 17.000 articoli. Fu lui a coordinare la redazione degli ultimi volumi e scrisse per loro più della metà degli articoli, in un momento in cui D’Alembert aveva lasciato l’avventura e quando Diderot, notevolmente occupato sul lavoro delle tavole, aveva grande bisogno del suo sostegno.
1) Il concetto di genio è presente nelle voci artistiche dell’Encyclopedie con il significato di elemento vivificatore dell’imitazione della bella natura che tuttavia non può prescindere da norme interne che lo disciplinano. Ad esso è strettamente connesso il gusto.
2) La locuzione latina “Nulla dies sine linea”, tradotta letteralmente, significa nessun giorno senza una linea. (Plinio il Vecchio, Storia Nat., 35). La frase è riferita al celebre pittore Apelle, che non lasciava passar giorno senza tratteggiare col pennello qualche linea. Nel significato comune vuole sottolineare la necessità dell’esercizio quotidiano per raggiungere la perfezione e per progredire nel bene.
3) Voltaire nel Catalogue de la plus parts des ecrivains francais, cit., dice “Alle volte i talenti dei pittori sono costretti proprio da ciò che apparentemente dovrebbero svilupparli: il gusto accademico e la maniera che i pittori seguono secondo il gusto di coloro che presiedono alle accademie. Le accademie sono indubbiamente utili per formare il gusto degli allievi, soprattutto quando i loro direttori lavorano secondo il buon gusto. Ma se il maestro ha poco gusto, se la sua maniera è arida o leziosa, se le sue figure sono scorrette, se i suoi quadri sono dipinti come ventagli, gli allievi, soggiogati dall’imitazione o dalla voglia di piacere a un cattivo maestro, perdono completamente l’idea della bella natura. Sulle accademie pesa una fatalità: non si è mai vista un’opera, detta accademica, in nessun genere, che sia un’opera di genio. Se un artista è troppo preso dal timore di non impadronirsi della maniera dei suoi confratelli, le sue produzioni saranno compassate e forzate, ma se un uomo è di spirito intraprendente, pieno della natura che imita, riuscirà. Quasi tutti gli artisti sublimi, o sono fioriti prima delle fondazioni delle accademie o hanno lavorato secondo un gusto diverso da quello che regnava in quella società.”

 PITTURA - STORIA DELLE BELLE ARTI DA L'ENCYCLOPEDIE

 fonte: PASSIONARTE

avviamento del pittore moderno al buon gusto

 

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Anton Raphael Mengs, Autoritratto (circa 1775); olio su pannello, 102 x 77 cm, museo dell’Ermitage, San Pietroburgo

Copiare la natura o le grandi opere degli artisti del passato? Ha ancora senso oggi porsi questa domanda finalizzata alla formazione dell’artista moderno? In un mondo dominato dalle macchine vi è ancora posto per quell’artista tradizionale inteso come pittore o scultore?
Domande che generano altri quesiti.
Anche se il termine artista viene e verrà sempre di più associato ad altre forme di arte sono convinta che la pittura e la scultura sopravviveranno ancora, per lo meno finché nell’uomo non si esaurirà l’istinto di esprimersi usando quelle tecniche.
Non solo; auspico un ritorno alle belle arti, intese come rappresentazione della storia, al fine di educare raccontando delle immagini. Un’arte che deve farsi popolare, essere utile a tutti, un’arte che non necessita di essere spiegata ma che anzi, attraverso la sua diretta lettura, riesca ad instillare in colui che la osserva uno stato emozionale. La figurazione è la forma artistica che più risponde a questo fine. Si dice che la pittura figurativa in questi anni stia tornando alla luce della ribalta in Italia, assecondando una tendenza che all’estero esiste già da tempo. Considerata una tecnica “tradizionale” o superata non viene nemmeno più insegnata nelle accademie e scuole d’arte, in netto contrasto con ciò che avviene fuori dal nostro paese.
Anche da queste riflessioni nasce il mio interesse verso la didattica artistica neoclassica, a parer mio, ultima vera espressione formativa dell’artista nella storia.
Non volendo mettere in discussione la capacità autodidattica di un individuo realmente dotato artisticamente è indubbio che rudimenti tecnici siano di grande utilità se non fondamentali per poi “organizzare le sensazioni in un’estetica personale”. Quasi tutti gli impressionisti, per fare un esempio, ebbero una formazione di tipo accademico, chi frequentando la Scuola di Belle Arti, chi studi privati, chi recandosi al Louvre per copiare gli antichi maestri. Diversamente da quello che accade oggi la loro opposizione all’istituzione accademica si basava sulla conoscenza della materia che andavano contestando.
Un nuovo orientamento didattico, che poi dovrebbe essere una rivisitazione dei dettami accademici del passato, recupero delle regole classiche, potrebbe permettere di uscire dalla deriva involutiva, e mercantilistica, nella quale si è andata a schiantare l’arte post-contemporanea?
Inseguendo questi dubbi ricerco risposte nel passato.

Parto da questo trattato di estetica neoclassica tratto da “Pensieri sulla Bellezza e sul Gusto nella pittura” di Anton Raphael Mengs, pubblicati in tedesco nel 1762 e tradotti in tutte le maggiori lingue europee. Il capitolo numero 7 “Avviamento del pittore moderno al buon gusto” si propone di formare l’artista dell’epoca sia dal punto di vista teorico che da quello del gusto: avviare il giovane artista nel cammino dell’arte significa fornirgli validi strumenti per coltivare la propria sensibilità e orientarsi autonomamente nella formazione del gusto.

Cap. 7. Avviamento del pittore moderno al buon gusto

Due sono le vie che conducono al buon gusto qualora chi lo cerca sia accompagnato dalla ragione; l’una è più difficile dell’altra. La più difficile è quella di scegliere dalla natura stessa ciò che è più necessario e bello; l’altra, più facile, è quella di imparare dalle opere, in cui la scelta è già stata effettuata.

Per la prima via gli antichi sono arrivati alla perfezione, cioè alla bellezza e al buon gusto; la maggior parte dei moderni però, dopo i tre geni già ricordati (Si tratta di Correggio, Tiziano e Raffaello come espliciterà anche più sotto.), sono giunti al buon gusto per la seconda. Quei tre grandi artisti hanno percorso non solo la prima strada, ma anche un’altra di mezzo tra la natura e l’imitazione. È molto più difficile trovare il buon gusto attraverso la natura che attraverso l’imitazione, poiché la prima via esige un certo discernimento filosofico per poter giudicare rettamente ciò che in natura è buono, migliore ed ottimo. Nell’imitazione delle opere d’arte questo riesce più facile, giacché possiamo comprendere più facilmente le opere degli uomini che quelle della natura. Perciò è necessario adoperare bene quest’ultimo metodo e pensare a giudicare delle opere dei grandi maestri, come essi hanno giudicato la natura; altrimenti si rimarrà alla superficie e non si comprenderanno mai le ragioni della loro bellezza.

E come l’uomo sin dalla nascita e nella sua tenera infanzia deve essere nutrito nel modo richiesto dalla natura sino a che, col crescere degli anni, sia diventato abbastanza forte da servirsi di cibi più grossi per alimento, così si deve procedere col debole intelletto di un giovinetto principiante nell’insegnamento di un’arte. Non bisogna apprestargli subito i cibi più pesanti e le bevande più forti, cioè le cose più difficili e le idee più elevate, altrimenti il suo intelletto si stordirebbe e si smarrirebbe, oppure monterebbe in superbia, poiché i principianti facilmente credono di saper tutto, quando il maestro abbia loro parlato.

Lo scolaro deve, da principio, essere nutrito col latte più puro dell’arte, cioè con le opere più perfette dei grandi maestri. Perciò dirò quanto prima come si debba pensare delle opere dei grandi maestri e come giudicarle.

Anzitutto lo scolaro deve aver davanti soltanto le cose migliori e nemmeno vedere cosa che sia brutta e tanto meno imitarla. In principio, egli deve imitare esattamente le cose belle senza cercare le ragioni per cui sono belle. E così acquisterà la giustezza dell’occhio che è lo strumento più necessario di tutta l’arte. Arrivato a questo punto, può cominciare a riflettere con giudizio sulle opere dei grandi artisti e a indagare le loro ragioni. E si faccia così: veda ed esamini tutto ciò che trova di bello in ciascun quadro; e quando egli trovi nelle opere di ciascun artista alcune cose curate sempre bene e bene dipinte, vuol dire che quelle parti sono state l’oggetto principale e la scelta del maestro; ma se egli troverà tali parti in alcuni quadri e in altri no, vuol dire che in esse non consiste l’essenza della sua arte e che esse non sono state né il suo scopo, né il suo gusto e perciò non sono le ragioni della bellezza delle sue opere e del suo gusto.

Nella pittura però vi sono due parti, in cui consiste la bellezza, cioè la forma e il colore; alla forma appartiene anche il chiaroscuro. Con la forma si determinano le espressioni delle passioni umane; col colore le qualità delle cose, cioè quello che diciamo molle, duro, umido, asciutto e simili. Raffaello, per esempio, ha posseduto, in sommo grado, l’espressione, e questa è la ragione della sua bellezza: essa si trova in tutte le sue opere, nelle più belle come nelle inferiori. Benché nei suoi quadri riconosciuti migliori egli abbia osservate le regole del chiaroscuro e del colorito, tuttavia questa specie di bellezza non deriva da una meditata indagine, ma è il frutto dell’imitazione della natura. Per conseguenza nelle sue opere bisogna osservare, con quanta eccellenza egli rappresenti l’espressione. E perfetta l’espressione quando, per esempio, un uomo adirato o allegro o triste – o affetto da altri sentimenti – non possa significare altro che la propria passione e la significhi in quella forza e misura che è richiesta dal singolo soggetto, in modo che dalle figure si possa conoscere la storia e non che alla storia si ricorra per comprendere il significato delle figure.

Si considerino così le opere di Correggio: vi si troverà maggior diletto che non nelle opere di tutti gli altri maestri. Il pittore deve perciò sapere quale parte della pittura produca questo grandissimo piacere. La pittura diventa piacevole attraverso gli occhi, e gli occhi trovano nella quiete il loro diletto. Per procurare loro questa dolce quiete non v’ è parte più adatta nella pittura che il chiaroscuro e l’armonia: e questo fu il compito del Correggio.

Si osservino tutte le sue opere e in tutte si troverà questa parte. Mentre cercava la quiete degli occhi, egli trovò anche la grandezza delle forme, poiché tutto ciò che è piccolo infastidisce l’occhio più di ciò che è grande; e questa fu tutta la causa della sua bellezza.

Tiziano invece cercò la verità, ma non per la stessa strada di Raffaello. Raffaello rappresentava l’uomo intero, ma soprattutto l’anima e i sentimenti e le passioni umane; Tiziano invece cercò la verità nelle singole parti dell’uomo e delle altre cose. Perciò egli si applicò ad esprimere col colore le qualità e l’essere di tutte le cose. E vi riuscì benissimo: nelle sue opere, infatti, ogni cosa ha i colori che deve avere. La carne da lui dipinta sembra avere sangue, grasso, umori, muscoli e vene, e perciò produce quella grande apparenza della verità. Questa è dunque la parte che si deve cercare in lui e che si ritroverà sempre nelle sue opere, in quelle belle come in quelle inferiori.

Sono queste le cause degli effetti e delle bellezze di questi tre grandi artisti; e con lo stesso metodo si devono cercare anche negli altri grandi maestri le cause della loro bellezza.

Io ho tracciato il cammino di questa ricerca, quando ho detto che bisogna osservare ciò che un maestro persegue costantemente e che si trova in tutte le sue opere. In questo modo si arriva a conoscere le ragioni che lo hanno determinato e che derivano dal suo carattere e sentimento naturale.

Voglio ora mostrare come essi siano giunti a formarsi dei loro sentimenti un loro proprio gusto. Essi erano saggi ed avevano una specie di intelletto filosofico, come ho già detto: riconobbero che l’uomo non può essere perfetto in tutte le sue parti; per conseguenza ciascuno di loro scelse quella parte in cui credeva consistesse la più alta perfezione dell’arte e con cui potesse commuovere prima sé e poi gli altri e piacere a loro. Tutt’e tre avevano la medesima intenzione, cioè di piacere e di commuovere, ma nessuno può commuovere con opere materiali ove non faccia vedere le cause che lo hanno commosso. Ne segue che egli è stato commosso da una causa simile nella natura. E questo il caso di questi maestri: essi esprimevano ciò che avevano sentito; ma che ciascuno di loro si sia applicato a un compito diverso e che abbia scelto chi una parte chi un’altra, deriva dal loro naturale temperamento.

Raffaello dovette possedere un sentimento moderato e insieme uno spirito effervescente, che produceva in lui pensieri sempre espressivi e gli faceva trovar piacere in tutto ciò che è significativo. Correggio ebbe uno spirito mite e dolce che provocava la sua avversione di fronte a tutto ciò che è troppo forte ed espressivo e gli faceva scegliere soltanto il piacevole e il soave. Tiziano ebbe indubbiamente meno spirito degli altri due e, poiché i sentimenti di ciascuno corrispondono al suo temperamento, sentì perciò di più l’aspetto materiale che lo spirituale della natura: Raffaello rimane dunque sempre il più grande.

Ho detto, in principio, che il gusto consiste nel saper scegliere queste o quelle parti e nel rigettare o tralasciare quelle che non hanno le qualità necessarie: in ciò il gusto dell’arte è simile al gusto del palato; poiché come si chiama acido, dolce o amaro tutto quello che non rivela nessun altro sapore oltre il suo proprio o almeno rivela il suo in maniera predominante, così anche nell’arte v’è il dilettevole, il vero, il significativo, quando queste qualità non sono confuse tra loro, ma una di esse vi predomina e tutto l’inutile vi è stato rigettato.

Così Raffaello, nell’invenzione delle sue opere, cominciò dall’espressione in maniera che non mosse mai un membro alle sue figure ove non fosse necessario e non avesse un’espressione, anzi non diede in ogni figura e in ogni membro neppure una pennellata senza qualche motivo che servisse all’espressione principale. Dalla formazione dell’uomo sino al più piccolo movimento tutto, nelle sue opere, serve al movimento fondamentale: e poiché egli rigettò tutto ciò che non esprime nulla, le sue opere sono piene di un gusto espressivo. Se poi le opere di Raffaello non piacciono a prima vista a tutti, è perché le sue bellezze sono bellezze della ragione e non degli occhi e sono perciò sentite dalla vista soltanto dopo essere passate attraverso l’intelligenza. E poiché molti uomini hanno un intelletto molto debole, non sentono sempre le bellezze di questo pittore. Raffaello, essendosi proposto come scopo principale l’espressione, ha messo in ciascuna figura un’espressione diversa, secondo che lo esigeva la storia dei suoi quadri; e poiché egli possedeva questa espressione in tutte le parti della pittura, […] essa è diventata il suo gusto particolare. Nella stessa maniera, cioè tralasciando ciò che non era necessario al suo scopo fondamentale, Correggio ha acquistato il gusto del dilettevole e Tiziano quello della verità.

Anton Raphael Mengs, Pensieri sulla Bellezza, Abscondita, Milano, 2003

“Due cause appaiono in generale aver dato vita all’arte poetica, entrambe naturali: da una parte il fatto che l’imitare è connaturato agli uomini fin dalla puerizia (e in ciò l’uomo si differenzia dagli altri animali, nell’essere il più portato ad imitare e nel procurarsi per mezzo dell’imitazione le nozioni fondamentali), dall’altra il fatto che tutti traggono piacere dalle imitazioni” (Aristotele, dalla Poetica)

fonte: PASSIONARTE

02/05/20

pubblicato il mio racconto "Suger...."

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Possiamo annunciare che è uscito Italiae Medievalis Historiae X, l’atteso volume con i racconti vincenti della quattordicesima edizione del Premio letterario Philobiblon.

Quattordicesima edizione

25 ottobre 2019
I risultati della quattordicesima edizione:
1) Gherardo da Massa e il zizzolo a Ravenna di Riccardo Baruzzi
2) Suger o La visione estetica delle virtù celesti di Paola Mangano
3) Quando la prima falce di luna di Paola Rolfo
3) La masnada del dragone rosso di Roberto Masini

21/04/20

Suger, abate di Saint Denis

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All’interno della “Restauri Nicora” seguo il settore teorico amministrativo che comprende anche studi storico/archivistici, qualora ve ne sia necessità, ed è soprattutto questo lato del mio lavoro quello che più mi affascina e mi appassiona tant’è che anche nel tempo libero mi dedico a ricerche su temi che mi coinvolgono e mi entusiasmano in quel momento.
Il tema artistico resta comunque il filo conduttore e testimonianza ne è questo blog.
Lo scorso inverno tra le tante idee che mi frullavano per la testa mi decido di voler approfondire le mie conoscenze sullo stile gotico. Scopro così nella mia libreria un libro acquistato 10 anni orsono “La cattedrale gotica ” di Otto Von Simson (un’edizione del 2008 ma un libro scritto negli anni sessanta) un libro che non avevo mai avuto occasione di leggere dove, come è giusto che sia, si parla della chiesa di Saint Denis e dell’abate Suger.

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St. Denis si trova a nord di Parigi e fu fondata sul luogo di sepoltura di San Dionigi, santo martire, primo vescovo di Parigi. Si narra che il santo fu decapitato a Montmartre e che camminò, con la testa tra le mani, sino al punto in cui sorge oggi la chiesa.
Alla morte del santo venne subito costruito un piccolo santuario, che divenne meta di numerosi pellegrinaggi negli anni successivi. Per questa ragione, in seguito, re Dagoberto I decise di ingrandirlo e di fondarvi la prima abbazia, nel VII secolo.
Saint Denis si era affermata nei secoli successivi come l’abbazia reale per eccellenza in Francia. Molti principi avevano studiato nella sua scuola, Carlo il Calvo e Ugo Capeto ne erano stati abati e nel corso dei secoli la chiesa abbaziale era stata eletta luogo di sepoltura di molti re francesi.

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Saint-Denis toccò l’apice della sua influenza sotto l’abate Suger.
Eletto nel 1122 all’età di 41 anni Suger fu descritto, anche da chi non lo amava, come un grande uomo d’affari con tuttavia un naturale senso dell’equità e una personale rettitudine.
Infaticabilmente attivo sino a tarda età mise tutte le sue qualità al servizio di due ambizioni: rafforzare il potere della corona di Francia e potenziare l’abbazia di St. Denis.
Ampliando e migliorando i possessi dell’abbazia Suger creò le basi per una radicale riorganizzazione del convento, oggi scomparso, considerato al tempo del monachesimo tra i più grandi monasteri di Francia occupando una posizione di potere e prestigio senza uguali.
Al tempo stesso Suger cominciò a raccogliere i fondi per la ricostruzione e la decorazione della basilica diventata troppo piccola per raccogliere tutti i fedeli.

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Suger scrisse due trattati dove descrive la sua chiesa e i suoi tesori artistici.
Il Libretto sulla Consacrazione della Chiesa di St. Denis e la Relazione sull’amministrazione, dove in realtà non vengono descritti gli aspetti concreti della realizzazione architettonica.
Suger ci narra la costruzione della sua abbazia alla stregua di un processo spirituale. Il processo di edificazione e di coloro che vi partecipano doveva essere ispirato dall’armonia divina, riconciliando tutti gli elementi discordanti per infondere nei fedeli che l’avrebbero contemplata il desiderio di stabilirla anche all’interno del proprio ordine morale.
Sono stata colpita da un episodio che Suger descrive nel Libretto sulla Consacrazione della chiesa. Un passaggio molto noto che racconta della ricerca di tronchi di sufficiente grandezza per la costruzione della copertura della nuova parte occidentale della chiesa, una vicenda di cui oltre che protagonista Suger fu appassionato sostenitore.

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Tra le mie tante ricerche in rete scopro il sito dell’Associazione Culturale Italia Medioevale all’interno del quale l’associazione ha istituito il Premio Letterario Italia Medievale © Philobiblon, riservato a racconti brevi ed inediti liberamente ispirati al Medioevo. Decido quindi di partecipare al concorso narrando l’episodio della ricerca di tronchi come a parer mio doveva essersi svolto cercando nel contempo di descrivere la figura di Suger, per quello che 20.000 battute me lo potevano permettere, la sua visione estetica delle virtù celesti e alcuni dei personaggi con cui venne in contatto in vita sua fino a quel momento (1137), tra i più noti Bernardo di Chiaravalle e Abelardo.

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I passaggi che ho scritto di fantasia, comunque legati il più possibile al periodo storico, mi sono serviti quindi come spunto per introdurre la disposizione mentale e morale di Suger nell’atto di edificazione della sua chiesa. Per esempio, descrivo la cella di Suger anche se non ci è noto l’aspetto che avesse. La immagino rigorosa ma al contempo arricchita da oggetti sacri preziosi e da una bifora con vetri policromi che anticipa ciò che poi trasferirà nella sua chiesa. Questo espediente mi ha dato la possibilità di parlare dell’infatuazione per la luce che aveva Suger, la luce che doveva illuminare all’interno dell’abbazia il visitatore e le menti semplici, conferendogli la capacità di innalzarsi alla visione di Dio.

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Così come è un dato accertato dal suo biografo e segretario personale, il confratello Guglielmo, che io peraltro ho inserito nel racconto, che Suger si intrattenesse spesso la sera con i suoi monaci parlando di fatti memorabili che aveva visto o sentito raccontare. Tuttavia non ci è dato sapere se avesse mai discusso con loro del “Sic et non” di Abelardo. Inserendolo nel mio racconto mi ha permesso di parlare di questo personaggio che aveva soggiornato nel monastero ed era venuto in contatto con Suger stesso.

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Sul personaggio Suger ci sarebbe tantissimo da dire.
Quello che qui importa ricordare è che Suger è ritenuto l’ideatore di quello che oggi chiamiamo stile gotico. Non fu però un vero e proprio architetto come lo intendiamo ai nostri giorni anche se nei suoi scritti dimostra di avere conoscenze di questioni tecniche.
Nel mettere in pratica le sue idee di natura estetica e simbolica, supportate dagli scritti dello Pseudo Dionigi l’Areopagita, che a quel tempo era identificato come il Dionigi patrono di Francia, e dalle opere di Scoto Eriugena, Suger dovette assumersi molte responsabilità di fronte alle figure competenti nel campo dell’architettura che lo affiancarono.

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Non meno incisivo fu il suo potere di persuasione nei confronti di coloro che furono coinvolti nella costruzione della chiesa. La fede profonda che permeava ogni sua azione gli fece riconoscere l’amore provvidenziale e miracoloso del Creatore in ogni felice evento della costruzione.
Fu così che tutti questi insiemi di fattori portarono alla edificazione di un edificio che dal punto di vista sia artistico che costruttivo segnò una rivoluzione.

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Infine è ciò che io ho cercato di trasportare in “Suger o La visione estetica delle virtù celesti”, il mio racconto, classificato secondo alla XIV edizione del premio letterario “Philobiblon”. Prossimamente sarà pubblicato online sul portale dell’Associazione e in formato cartaceo a cura di Italia Medievale.
La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 30 novembre nella prestigiosa sede della Sagrestia del Bramante in Santa Maria delle Grazie a Milano.
Un sentito ringraziamento all’associazione per aver apprezzato il mio lavoro.

Paola Mangano

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Suger o La visione estetica delle virtù celesti

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Sono onorata di comunicare di essermi classificata seconda al Premio Letterario Italia Medievale, Philobiblon con il mio racconto “Suger o La Visione Estetica delle Virtù Celesti”.
La premiazione avrà luogo sabato 30 novembre 2019 alle ore 17,00 nella prestigiosa Sacrestia del Bramante annessa alla Basilica di Santa Maria delle Grazie, con ingresso libero da Via Caradosso, 1 a Milano.
Un sentito grazie all’Associazione Italia Medievale per aver apprezzato il mio lavoro.
Il racconto sarà pubblicato online sul portale dell’Associazione e in formato cartaceo a cura di Italia Medievale.

Paola Mangano
 
fonte: PASSIONARTE

04/04/20

Piazza Ducale di Vigevano (PV) - Gli affreschi. Storia e restauro


a cura di Paola Mangano
“Restauri Nicora di Mauro Nicora & C. sas”



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Premessa 

Il mio primo incontro con la Piazza Ducale di Vigevano risale a circa dodici anni fa.
Lo definirei come una passione travolgente che da quel primo momento non mi ha più abbandonato. Rappresenta in pieno il mio gusto architettonico e pittorico; un ampio e pur raccolto spazio pubblico che, nonostante i rifacimenti e ritocchi subiti nel tempo, mantiene intatta l’atmosfera e il sapore di quel primo rinascimento che sarà per sempre vanto e gloria della cultura all’interno di quello che fu il ducato di Milano. La piazza, recinto internamente vuoto e prospetticamente ordinato nel quale ogni interruzione dei limiti spaziali, pur necessaria per l’arrivo di strade, è accuratamente evitata o dissimulata per non infrangerne la continuità, ha mantenuto per tutti i cinque secoli trascorsi dalla sua edificazione il ruolo di centro di vita civile e mercantile. Nonostante lo scorrere incessante degli anni con gli inevitabili cambiamenti di usi e costumi questo splendido progetto architettonico mantiene inalterato il richiamo della vita del borgo ove l’uomo moderno, estraniandosi dal caos cittadino, riesce ancora a ritrovare la pacata serenità dell’incontro, della chiacchera, del piacere dell’intrattenimento tant’è che lo spazio ha assunto negli anni l’appellativo di “piazza salotto”. E in questo turbinio di atmosfere ed emozioni ho avuto la fortuna, in quanto co-titolare della Restauri Nicora, di essere coinvolta nel ritrovamento e restauro di una porzione di affreschi originali quattrocenteschi, unici superstiti del primario impianto decorativo pittorico che possiamo, senza ombra di dubbio definire essere al riguardo la scoperta del secolo. Gli studi che ho svolto, perché si potesse affrontare con consapevolezza un intervento del genere, mi hanno portato ad accumulare tutta una serie di carteggi che ho ritenuto interessante riassumere in questo volume. Molti sono gli approfondimenti inerenti a tale argomento portati a termine da autorevoli studiosi e a cui mi sono appassionatamente rivolta. Ritengo però che essi siano per lo più indirizzati ad un pubblico di accademici e perciò poco confacenti alla grande divulgazione. Allo stesso tempo ho potuto constatare che in commercio esistono pubblicazioni a riguardo fin troppo stringate, sicuramente idonee per lo sprovveduto turista di passaggio ma non sufficientemente approfondite per potersi rivolgere all’amante dell’arte più competente ed attento. Per questo motivo il sunto di tutti questi mie anni di ricerche, messo a punto in questa pubblicazione ed arricchito dalle relazioni tecniche di restauro dei lavori eseguiti, mi pare conciliare al meglio la voglia di conoscenza con una lettura scorrevole e leggera adatta ad un pubblico vario che ama l’approfondimento senza doversi scontrare con la compostezza didattica dell’accademismo.

Paola Mangano

fonte: PASSIONARTE

07/03/20

didattica neoclassica all’Accademia di Brera – i maestri – la scuola di Architettura

di Paola Mangano

Alla sua apertura (1776) l’Accademia di Brera non aveva ancora uno statuto, anche se direttive generali di altissima influenza furono suggerite da Giuseppe Parini nel saggio “Delle cagioni del presente decadimento delle Belle Lettere e delle Belle Arti e di certi mezzi per restaurarle” scritto nel 1769 ove formulò tra l’altro in linea di massima il programma per un istituto d’arte.
Dovettero passare dieci anni prima che un nuovo “Piano Generale e Costituzioni”per l’Accademia venisse redatto da Pietro Paolo Giusti funzionario di governo sotto Maria Teresa, barone di Santo Stefano, Consigliere al Dipartimento delle materie ecclesiastiche, pie fondazioni, studi e belle arti.
Siamo ancora lontani dall’organicità e razionalità che saprà conferire all’Istituto il futuro segretario Giuseppe Bossi (1801/1807) anche se quest’ultimo dalla riforma di Giusti prenderà molti spunti.

Giuseppe Bossi, Autoritratto con Gaetano Cattaneo, Carlo Porta e Giuseppe Taverna, 1809, olio su tela 1809, cm 52 x 63. Pinacoteca di Brera

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Tuttavia anche se mancante di statuti e di piani disciplinari l’Accademia di Brera in quei primi anni di vita sotto la direzione del segretario Carlo Bianconi (1778-1801) “….valeva almeno come dieci accademie Clementine non già per numero di soci o per fatto di patenti, ma per utili scuole, sebbene non tutte fossero abbastanza ben dirette.” come affermava con orgoglio il giovane Giuseppe Bossi che a Brera studiò e a soli 23 anni ne divenne segretario.
Perché se è pur vero che un’adeguata organizzazione è necessaria per far funzionare e progredire qualsiasi istituto scolastico sono in definitiva i maestri che con la loro conoscenza, competenza e predisposizione all’insegnamento ne decretano il successo.
E maestri eccellenti erano parte di quel corpo docenti dei primi anni di rodaggio dell’Accademia di Brera. Ce ne lascia un gustoso sunto il segretario Bianconi nel 1802 proprio al termine del suo mandato come segretario (lettera conservata presso l’Archivio dell’Accademia di Brera, Carte Bianconi).

“L ‘Accademia di Brera nel 1800” di Carlo Bianconi
(ASAB, Carpi DV 13)
Milano, da Brera, il giorno 14 fruttidoro anno VIII, cioè il dìp(rimo) settembre 1800.
Al Cittadino Commissario Governativo presso l’Amministrazione Dipartimentale
d’Olona il Segretario perpetuo dell’Accad. Milanese delle Belle Arti. [ … ]. . .
L’Accademia delle Belle Arti fondata nel 1776 ha sei scuole corrispondenti a sei
diverse qualità di disegno utili tutte alla società, e sono
la 

1°d’Ornati
2° d’architettura
3° d’Elementi di figura
4° de’ Gessi
5°del Nudo
6° d’incisione in rame.

La prima d’ornati serve a molte arti istillando in esse buon gusto e venusta bellezza.
Diffatti questo buon senso e questa gradevole bellezza si vede estendersi sensibilmente
per ogni arte che dal disegno norma e lume riceve, e ciò dall’epoca della
fondazione della nostra Accad(emia) , per cui anche il com(m)ercio ne sente chiaramente
vantaggio. Questa scuola conta molte volte nell’inverno da cento scolari, e
qualche volta cento venti, e sino cento trenta ancora. Attende a si numerosa gioventù
da se solo il cittad(ino) professore Albertolli Giocondo, il di cui amore, attenzione e
sapere per il progresso de’ scolari è veramente degno di tutti gli elogj .
La 2• Scuola è quella d’architettura. È debitore il gusto a questa del buon senso
nelle fabbriche che da tutti si distingue; buon senso che si va estendendo ancora ne’
luoghi vicini. Due sono le persone che attualmente insegnano in questa Scuola; una
come principale e professore ed è il cittad. Polak Leopoldo, l’altra come subalterno e
maestro elementare, ed è il cittad. Amati Carlo. Ambedue bramosi di adempire i
rispettivi loro doveri, che con lode interamente compiscono.
La 3• Scuola è quella degli Elementi di Figura. Dopo l’indicata degli ornati è la
più numerosa delle altre tutte, e serve come di base alla pittura e scultura, poichè queste
non possono far cosa alcuna di retto senza l’appoggio del disegno rappresentatore
delle forme del corpo umano. N’è il solo maestro il cittadino Aspar Domenico, che
con tutta la premura ed intenzione attende al progresso della gioventù a lui commessa.
Fa poi meraviglia che tanto faccia e per la non ferma sua salute, e per la ben scarsa
mercede alla opera sua tanto faticosa.
La 4• Scuola è de’ Gessi, il di cui oggetto è d’inserire nella mente de’ giovani
quale sia la più fine bellezza delle forme umane mediante le statue antiche . Serve questo
lodevolissimo studio tanto ai pittori che agli scultori, e però attendono al medesimo
non meno i professori di pittura che l’altro di scultura nel tempo corrispondente
alla rispettiva loro incombenza riguardante la Scuola del Nudo. Li professori di pittura
sono li cittad(ini) Traballesi Giuliano e Knoller Martino, e l’altro di scultura il cittadino
Franchi Giuseppe. Tutti e tre sono pieni di premura per il progresso della gioventù,
e cercano ogni strada per fare il debito loro.
La 5° Scuola è quella del Nudo a cui attendono li su(ddetti) tre pofessori di pittura
e scultura nel tempo e modo già fissato. È questo studio la prova del progresso de’
giovani, e serve ancora a provetti nell’arte, poiché la natura è il prototipo che imitare
si dee, è la vera maestra delle arti pittura e scultura.
La 6• ed ultima scuola è quella dell’Incisione in rame. Sta alla testa di essa come
professore di tal arte il cittad(ino) . Longhi Giuseppe che tanto si prende pensiero
dell’avanzamento de’ suoi scolari, che già se ne scorge chiaramente il frutto, e si ha ben
giusta ragione di credere che di giorno in giorno si farà maggiore.
Passando ora alle innovazioni utili all’Accademia che far si potessero, dico che si
dovrebbe pensare spezialmente a due cose. Al piano cioè che si desidera da anni, ed a
distribuire de’ premj alla gioventù che fa progressi nell’arte. Per il piano converrebbe
fare non poche meditazioni perché tutto tornasse in vero vantaggio degli studj, e per
la distribuzione de’ premj converrebbe fissare i modi, ed il quantitativo da distribuirsi.
Salute e rispetto
Carlo Bianconi

Il segretario Bianconi non parla della cattedra delle lettere e delle arti, incarico che ricopriva Giuseppe Parini, né fa menzione del resto dei suoi corsi di iconografia e mitologia che lo stesso  Parini dovette cedergli.
Un’altra sottile mancanza è l’aver ignorato, o forse deliberatamente omesso, il ruolo prestigioso che ricoprì Giuseppe Piermarini come professore di architettura dagli esordi dell’Accademia sino al 1797 quando i francesi, da poco entrati in Milano, lo destituirono non vedendo di buon occhio i suoi sentimenti filoaustriaci. Del resto il Piermarini, assorbito dalle commissioni pubbliche e private, era assente di frequente e lo suppliva il luganese Pietro Taglioretti.
Eppur è giusto rimarcare che le lezioni di Piermarini avevano“preparato lo sguardo degli studenti ad accogliere il nuovo secolo” come tende a sottolineare Hellmut Hager (Professore Emerito di Storia dell’Arte presso la Pennsylvania State University, in Le Accademie di architettura in Storia dell’architettura italiana, Il settecento).
Nel corso della sua attività didattica Giuseppe Piermarini utilizzò i dettagli delle proprie opere come strumenti di apprendimento, aggiornando così, nell’insegnamento degli ordini, le lezioni del Vignola (Jacopo Barozzi da Vignola detto il Vignola 1507-1573, Regola delli cinque ordini d’architettura)
Alla classe di architettura si arrivava dopo aver frequentato corsi scientifici di base mentre alle classi di ornato potevano accedere gli allievi provenienti dalle scuole provinciali di disegno ma anche dagli orfanotrofi cittadini al fine di avere una formazione artigianale adeguata a realizzare i partiti decorativi in armonia con l’architettura ma anche a sostenere lo sviluppo delle industrie del milanese. Piermarini puntava a un coordinamento assoluto tra architettura e decorazione. Per questo era essenziale la collaborazione con il professore d’ornato Giocondo Albertolli al quale dedicherò un articolo completo prossimamente.

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Scuola italiana – Ritratto dell’architetto Leopoldo Pollack, 1780, olio su tela cm.72,5×58 GAM

Quindi al Piermarini subentrò l’allievo viennese Leopold Pollock, come evidenziato da Bianconi, ma per un breve periodo. Infatti dopo appena tre mesi, in seguito all’intercettazione di una sua lettera, con la quale veniva scoperto aver contatti con il governo di Vienna per costruire un teatro di corte in quella città, fu messo in carcere e dovette dimettersi dalla carica accademica. Lo sostituì l’amico Giacomo Albertolli (nipote di Giocondo) anche lui solo per pochi mesi sino al 25 luglio 1799 quando nel breve ritorno degli austriaci fu diffidato dalla Regia commissione imperiale austriaca dall’insegnamento e quindi sospeso dalla carica conferitagli dal Governo francese. La cattedra tornò a Pollach per un anno accademico, 1799- 1800; ad Albertolli però venne concesso di rimanere a Milano. Il successivo rovescio politico (la nuova conquista dell’Italia da parte di Napoleone attuata dal 1800) destituì Pollach riconfermando Albertolli che vi insegnerà sino alla sua prematura morte nel 1805 a soli quarantatre anni.

….ecco troncata a quarantatre anni la vita di un uomo che certamente
non era l’ultimo della terra. Il nostro segretario Bossi è
con me afflittissimo per una tale perdita, che non sappiamo
come potrà essere rimpiazzata. Egli insegnava lo stile puro, e
severo, e già abbiamo un numero di allievi che hanno molto
merito, ma che avrebbero bisogno ancora che gli fosse continuata
la sopressa coltura per rendergli fermi nella massima, e bene
difendersi dalla comune eresia dell’arte….

scriverà lo zio Giocondo qualche giorno dopo la sua morte.
La scuola di Architettura era suddivisa in due sezioni: al titolare di cattedra spettava l’insegnamento della parte più «sublime d’essa»con il cospicuo stipendio di 2600 lire annue, mentre all’aggiunto competevano gli Elementi di Architettura con sole 600 lire annue. Giacomo Albertolli insegnò nella prima sezione.

Sono stato eletto professore d’Architettura civile in questa Accademia delle Belle Arti.
Sono successore del mio maestro Piermarini. Ieri l’altro sono stato installato. Ho due aiutanti, e moltissimi scolari; e faccio scuola tutti i giorni. (4 novembre 1798)

Il piano d’istruzione della scuola comprendeva lo studio dell’architettura classica romana attraverso i trattatisti, dagli ordini di Vitruvio dell’edizione Galiani a quelli di Vignola, gli edifici antichi da Antoine Desgodets, le fabbriche più importanti di Leon Battista Alberti e soprattutto di Palladio insieme all’architettura classica greca attraverso i libri di Julien-David le Roy, James Stuart e Nicholas Revett (The antiquities of Athens). Senza escludere i manufatti architettonici a loro contemporanei. Lo studio dell’architettura veniva spinto verso «lo stile puro e severo», il rigore del linguaggio classico, le composizioni discusse e corrette in ogni minimo dettaglio, sempre ispirandosi alle produzioni architettoniche ritenute perfette e nessuna licenza veniva concessa agli allievi. Albertolli amava accompagnare i suoi studenti per la città, per osservare «le produzioni in genere delle belle arti, ed alle biblioteche per esaminare i libri delle antichità Greche e Romane».

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Lapide commemorativa (datata 1858) per l’architetto Carlo Amati, sulla facciata neoclassica della chiesa di San Carlo al Corso a Milano. La chiesa fu costruita sul progetto del 1832 di questo architetto, che secondo la lapide avrebbe seguito gratuitamente i lavori fino alla sua morte.

Carlo Amati, indicato da Bianconi in quegli anni come “subalterno di Pollack e maestro elementare”, fu dapprima allievo e dal 1817 docente all’Accademia di Brera sino alla sua morte (1852). (1) Anche se negli anni da noi presi in considerazione, e cioè quelli della segreteria di Bianconi, non ebbe un ruolo incisivo, la sua figura è importante per comprendere il clima didattico di quel periodo perché se come insegnante, più che nella professione di architetto, si dimostrò accanito conservatore continuando a fare un punto di riferimento immutabile dei fondamenti vitruviani della scienza architettonica (anche quando il panorama attorno a lui, ormai negli anni ’50, si era fatto irriconoscibile e i temi esegetici vitruviani erano diventati esercitazione di erudizione lontani dalla realtà dell’architettura costruita) deve essere stato anche frutto della sua formazione all’interno dell’Accademia. Ulteriore conferma ci viene fornita dalla nota polemica “vitruviana” del 1821 che vide coinvolto per l’appunto Carlo Amati e il periodico letterario di indirizzo governativo “Biblioteca Italiana”(2) (pubblicato a Milano dal 1816 al 1840); ma dietro l’anonimo articolista della rivista è possibile individuare con certezza Paolo Landriani, architetto e pittore scenico protagonista degli allestimenti scaligeri dall’età napoleonica ai primi anni della Restaurazione. (3) Il Proemio del ventunesimo numero della rivista che innescò la polemica era incentrato su di un’esplicita critica al sistema didattico adottato nella scuola di Brera dove da molti anni si provvedeva all’insegnamento teorico e pratico dell’architettura. A giudizio dell’articolista la debolezza del sistema braidense era quella di privilegiare il testo vitruviano rispetto agli esempi concreti offerti dagli architetti classicisti del Rinascimento che “non mai preferirono le opere di Vitruvio ai rinomati avanzi dell’architettura greca e romana, dove vedendo e non interpretando si assicurarono del bello reale e ne fondarono poi sublimi precetti dell’arte”.(4)

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Andrea Appiani – Ritratto di Paolo Landriani – 1792 – Olio su tela – Museo teatrale alla Scala di Milano

Naturalmente Amati si sentì in dovere di controbattere (5) a tale affronto sostenendo il testo dell’architetto romano in quanto “opera che meno si discosta dalle proporzioni dell’arte greca, ritenuta modello di perfezione universale”e quindi il riferimento teorico più convincente per la didattica dell’architettura. Va comunque ribadito che Amati e Landriani non si erano mai visti di buon occhio e disquisizioni erudite tra i due su questioni di ortodossia classicista continuarono a svilupparsi anche negli anni seguenti. Di fatto però la questione vitruviana metteva in discussione la didattica architettonica neoclassica che si era impartita in quegli anni all’interno dell’Accademia di Brera al fine di ampliare i riferimenti stilistici verso una ripresa dello stile bramantesco anche a livello progettuale. I tempi stavano cambiando.
E cambiavano al punto da mettere in discussione l’insegnamento stesso dell’architettura all’interno delle Accademie d’Arte.
Un Decreto napoleonico del 3 novembre 1805 pubblicò le nuove normative per il libero esercizio delle professioni di architetto, agrimensore e ingegnere (6) nel quale non si accennò mai all’Accademia e ai suoi corsi di architettura accrescendo di fatto l’importanza delle cattedre di disegno e composizione architettonica nelle università, soprattutto Pavia e Padova, riducendo a lungo andare l’importanza della frequentazione in Accademia – almeno per l’architettura – a qualcosa di accessorio, non obbligatorio, quasi un corso di approfondimento post patente creando quell’antipatica concorrenza tra Università e Accademia, e più da vicino tra l’Università di Pavia e l’Accademia di Brera.
La polemica, destinata ad ingrassarsi negli anni a seguire vide coinvolto Carlo Amati al quale venne chiesto un parere sugli ambiti e gli ambienti più idonei alla formazione degli architetti civili. La dissertazione del professore non lasciava margini d’interpretazione portando nell’unica direzione per lui possibile: “…non solo debb’essere l’Architetto versato nelle lettere, nella Geometria, nell’inseparabil calcolo e nelle delineazioni ornamentali, ma deve per più lustri applicarsi con ardore negli studj elementari degli Ordini e dell’Ombreggiamento per poscia accingersi alle compilazioni de’ membri costruttivi l’arte di edificare dedotta dai precetti de’ classici trattatisti Vitruvio, Alberti, Serlio, Vignola, Scamozzi, Palladio, Perrault,artisti Architetti, col confronto delle opere della veneranda antichità Greco-romana. Codesti studj preliminari preparano gli elementi indispensabili all’interminabil esercizio della invenzione architettonica, ed alle occupazioni contemporanee della spinosa pratica dell’arte presso accreditato edificatore almeno pel corso biennale. Il felice risultatamento di questi studj accademici, promossi e mantenuti con tanto lustro dalla Sovrana munificenza nelle nostre aule delle belle arti, viene comprovato in ispecial modo dai premj di architettura de’ grandi concorsi ottenuti pel corso di circa vent’anni continui dagli alunni architetti della nostra accademia……………Sarebbe dunque necessario che tutti gli aspiranti ad esser Architetti dovessero applicarsi almeno per un quadriennio agli Ornamenti e all’Architettura e prospettiva nelle scuole Accademiche, ed alla pratica di fabbricare nello studio di un Architetto approvato, [e] ne fossero abilitati al libero esercizio se non dietro nuovi esami da sostenersi nei modi più precisi ed escluso ogni sospetto di esterni sussidj……”

 (Lettera scritta di pugno e firmata dall’Amati il 29 gennaio 1835, indirizzata al Podestà conte Antonio Durini, presidente della Commissione d’Ornato.)

Il corso di studi di architetti civili andò poi definendosi nella seconda metà dell’ottocento (1860) attraverso l’influenza di Camillo Boito. Ma l’argomento esula in modo significativo dal nucleo di nostro interesse. Mi premeva sottolineare la querelle che si sviluppò tra i due schieramenti, uno conservatore, legato al neoclassicismo i cui occhi erano rivolti solo agli antichi, l’altro quello dei progressisti, ingegneri architetti, con gli occhi al futuro, ai materiali moderni e alle nuove tecniche di costruzione, dibattito che definisce come il percorso neoclassico fosse duro a morire; e a ragione del resto perché in Accademia grazie ai sussidi didattici specifici, trattati, manuali, biblioteche fornite dei “classici”, repertori di ornamenti, collezioni di tavole, modelli e gessi per le copie, si acquisiva la matura pratica di un disegno esatto ed elegante che caratterizzò l’architetto lombardo del primo Ottocento.
Un architetto che corrispondeva in pieno alla figura dell’artista ma che le mutate esigenze della committenza e lo sviluppo della cultura storica, scientifica e tecnologica ritenevano superato.

ddevzhsxcaqw5dy.jpg-largeJames Stuart & Nicholas Revett ANTIQUITIES OF ATHENS 1762


antoine babuty desgodets - entablature capital and inscription from the temple of jupit - (meisterdrucke-316151)
Antoine Babuty Desgodets – Tavola 1682
 

Note

1) Carlo Amati (1776-1852) fu allievo di Giuseppe Piermarini, Leopoldo Pollack e Giocondo Albertolli. Intraprese la carriera accademica nel 1798 come sostituto presso la scuola di architettura di Brera. Confermato nel ruolo di aggiunto in occasione della riorganizzazione statutaria del 1803, alla morte di Giuseppe Zanoja (1817) fu nominato professore supplente, carica che mantenne sino alla nomina in ruolo nel 1838. Responsabile dell’insegnamento braidense sino al 1852, fu architetto della Fabbrica del Duomo (1806-1813) e dal 1821 fece parte della Commissione di Pubblico Ornato.

2) Rivista letteraria incoraggiata dal governo austriaco per avvicinare la cultura italiana a quella tedesca. Fu diretta da Giuseppe Acerbi, successivamente da un’equipe di redazione composta da Robustiano Gironi, Francesco Carlini e Ignazio Fumagalli. Nel 1841 la rivista si fuse con “Il Giornale dell’Istituto Lombardo di Scienze Lettere e Arti”

3) Paolo Landriani studiò all’Accademia di Brera con Giocondo Albertolli e Giuseppe Piermarini; la sua formazione scenografica avvenne con Carlo Bertani e Clemente Isacci, quindi con Pietro Gonzaga. Lavorò come scenografo alla Scala che lasciò nel 1817 per motivi di salute. Dopo di allora si dedicò prevalentemente all’attività di saggista e pubblicista, nonché all’impegno presso la Commissione d’Ornato di cui fu membro dal febbraio 1807 al dicembre 1835.

4) Proemio, in Biblioteca Italiana, XXI, 1821, pp.241-246.

5) Carlo Amati prese le proprie difese sulla Gazzetta di Milano il cui articolo venne riproposto nel numero successivo di Biblioteche Italiane. Nello stesso anno, probabilmente spronato dalla polemica in corso diede alle stampe la sua Apologia di Vitruvio Pollione, P.M. Visaj, Milano 1821.

6) L’iter per diventare architetto divenne il seguente: 1) frequentare l’Università e riportarne il grado accademico (laurea), 2) svolgere il praticantato di due anni presso lo studio di un architetto o ingegnere civile, comunicando alla Prefettura presso chi lo si stesse svolgendo, 3) riportare alla fine di ogni anno di pratica un attestato di buona condotta, 4) alla fine del biennio iscriversi all’esame di abilitazione (l’esame di stato) presso la Prefettura del proprio Dipartimento.

Bibliografia

– Roberto Cassarelli, Giuseppe Bossi e la riforma dell’Accademia di Brera in “Ideologie e Patrimonio Storico-Culturale nell’età Rivoluzionaria e Napoleonica-A proposito del trattato di Tolentino Atti del convegno Tolentino, 18-21 settembre 1997” Ministero Per I Beni E Le Attività Culturali Ufficio Centrale Per I Beni Archivistici 2000
– E. Tea, Il professore Giuseppe Parini e l’Accademia di Belle Arti a Brera in Milano 1773-1799, Milano, Artigianelli, 1948
– Il piano di riforma di P.P. Giusti per l’Accademia di Belle Arti di Brera in Milano nel 1786 a cura di Sergio Samek Ludovici
– Alessandra Ferraresi e Monica Visioli, Formare alle professioni: architetti, ingegneri, artisti (sec. XV-XIX), Franco Angeli ed., Milano 2012
– Leopoldo e Giuseppe Pollach nell’analisi dei documenti autografi dal 1775 al 1847 – Civica raccolta delle stampe “A. Bertarelli” del Castello Sforzesco Milano – Tesi di Laurea Magistrale di: Carlo Maiocchi – Anno Accademico 2010 – 2011
– Alessandra Ferrighi, Professori e scienziati a Padova nel Settecento –  GIAN GIACOMO ALBERTOLLI, 2002
– Walter Canavesio, Il tema vitruviano degli Scamilli impares nei teorici neoclassici, Quaderni del Bobbio n. 4 anno 2012-2013: Rivista di approfondimento culturale
– La cultura architettonica nell’età della restaurazione, Giuliana Ricci Giovanna D’Amia,1 gennaio 2002, Mimesis Edizioni
– Ingegnere o Architetto? La questione della firma nel primato del disegno in GIACOMO TAZZINI, ARCHITETTO DI TRE CORTI  La vita e l’opera milanese del poliedrico architetto ingegnere dalla Repubblica Cisalpina all’Unità d’Italia , Dottorando Flavio Eusebio , Tutor Prof. Fernando Mazzocca , Coordinatore del Corso di Dottorato Prof. Guglielmo Scaramellini Tesi di Dottorato Milano Marzo 2012
– Chiara Occhipinti, Politecnico di Milano, Scuola di Architettura Civile – Milano nei progetti dei giovani architetti civili in Architettura a Milano negli anni dell’Unità. La trasformazione della città il restauro dei monumenti a cura di Maurizio Grandi, Libraccio Editore 2012

fonte: PASSIONARTE