Un’impresa è generalmente una figura allegorica od emblematica, che fa riferimento in modo evidente od ermetico ad un fatto storico d’una signoria, d’un prelato, o ad un’impresa ideata o compiuta, o ad un proposito di virtù. Si allude insomma a ciò che si vuole intraprendere oppure ad un evento già accaduto. Spesso le imprese divengono figure araldiche e qualche volta sono conferite dai principi a famiglie benemerite, che le inseriscono negli scudi. Sono degne di nota le molte imprese, dette anche divise, dei Visconti, degli Sforza, degli Estensi, dei Gonzaga, dei Savoia.
Le imprese sono ordinariamente costituite da una figura e da un motto o leggenda, che si integrano; la prima fu chiamata “corpo” dell’impresa, la seconda “anima”. (1)
In particolare per gli Sforza il “corpo” dell’impresa traeva ispirazione soprattutto dagli oggetti di uso quotidiano, mentre “l’anima”, cioè il motto, era forgiato ricorrendo spesso anche a parole dialettali.
La molteplice varietà di “imprese” viscontee e sforzesche create nel tempo avevano l’intento di consolidare il complesso patrimonio della tradizione dinastica. Quelle sforzesche si ponevano come proseguimento di quelle della dinastia viscontea. I singoli membri, sentendosi però anche privilegiati portatori, aggiungevano le proprie suggestioni leggendarie, vicende storiche, private ed invenzioni fascinose. Nobilitando la figura del “pater patriae” Francesco, con una sorta di leggendario alone, accreditavano la magnificenza della famiglia Sforza presso le altre corti e i potentati dell’epoca.
All’interno di questo quadro Ludovico, ricollegandosi all’antica tradizione del proprio casato e, avvalendosi del metodo comunicativo basato sulla centralità delle immagini, espletò il controllo dell’arte a scopi del tutto autocelebrativi, affermazione d’individualità anche riguardo ai membri della sua stessa famiglia. Un programma politico il suo che si espresse attraverso immagini in un’azione che poté trovare la sua realizzazione con l’aiuto di alcuni intellettuali del tempo che lo supportarono e testimoniarono l’alto livello dottrinale del proprio committente.
Allo scopo, gli emblemi araldici, veicolarono la sua forte identità, codificando gli impegni e il senso di tutta la sua esistenza attraverso un segno.
Famoso è il dipinto del XV sec., attribuito a Giovanni Antonio Boltraffio, dove si può ammirare Ludovico il Moro ritratto con una veste ricamata con le imprese da lui preferite; la scopetta, il morso, la scure, il radia magna, la colombina, lo stemma inquartato con il biscione e l’aquila imperiale.
Le imprese sono ordinariamente costituite da una figura e da un motto o leggenda, che si integrano; la prima fu chiamata “corpo” dell’impresa, la seconda “anima”. (1)
In particolare per gli Sforza il “corpo” dell’impresa traeva ispirazione soprattutto dagli oggetti di uso quotidiano, mentre “l’anima”, cioè il motto, era forgiato ricorrendo spesso anche a parole dialettali.
La molteplice varietà di “imprese” viscontee e sforzesche create nel tempo avevano l’intento di consolidare il complesso patrimonio della tradizione dinastica. Quelle sforzesche si ponevano come proseguimento di quelle della dinastia viscontea. I singoli membri, sentendosi però anche privilegiati portatori, aggiungevano le proprie suggestioni leggendarie, vicende storiche, private ed invenzioni fascinose. Nobilitando la figura del “pater patriae” Francesco, con una sorta di leggendario alone, accreditavano la magnificenza della famiglia Sforza presso le altre corti e i potentati dell’epoca.
All’interno di questo quadro Ludovico, ricollegandosi all’antica tradizione del proprio casato e, avvalendosi del metodo comunicativo basato sulla centralità delle immagini, espletò il controllo dell’arte a scopi del tutto autocelebrativi, affermazione d’individualità anche riguardo ai membri della sua stessa famiglia. Un programma politico il suo che si espresse attraverso immagini in un’azione che poté trovare la sua realizzazione con l’aiuto di alcuni intellettuali del tempo che lo supportarono e testimoniarono l’alto livello dottrinale del proprio committente.
Allo scopo, gli emblemi araldici, veicolarono la sua forte identità, codificando gli impegni e il senso di tutta la sua esistenza attraverso un segno.
Famoso è il dipinto del XV sec., attribuito a Giovanni Antonio Boltraffio, dove si può ammirare Ludovico il Moro ritratto con una veste ricamata con le imprese da lui preferite; la scopetta, il morso, la scure, il radia magna, la colombina, lo stemma inquartato con il biscione e l’aquila imperiale.
Ma “motti” e “imprese” furono anche utilizzati come elementi decorativi da apporsi su scudi, libri miniati ed edifici e nello specifico territorio vigevanese ricordiamo quelli che compongono la decorazione della Piazza Ducale e la Sforzesca.
Su quest’ultima sono raffigurate le “imprese” della scopetta e del morso sforzesco.
Su quest’ultima sono raffigurate le “imprese” della scopetta e del morso sforzesco.
Il significato dell’impresa della scopetta, immagine simbolica che fu propria del Moro già in gioventù, è spiegato nel ” Dialogo dell’imprese militari e amorose “ di P.Giovio . L’erudito comasco rammenta che Ludovico il Moro ” aveva fatto dipingere in Castello l’Italia in forma di reina che aveva in dosso una veste d’oro ricamata a ritratti di città che rassomigliavano al vero e dinanzi le stava uno scudiero moro negro con una scopetta in mano. Perché dimandando l’ambasciator fiorentino al Duca al che serviva quel fante negro, rispose che scopettava quella veste e le città per nettarle d’ogni bruttura, volendo che s’intendesse il Moro essere arbitro dell’Italia e assettarla come gli pareva “.
Quindi il significato simbolico di voler ripulire il ducato di ogni bruttura e quale miglior raffigurazione se non una bella scopetta? Il tutto unito dal nastro col motto MERITO ET TEMPORE. Il motto sul nastro, “per merito e con tempo”, mette in evidenza la grande tematica del tempo e della giustizia, centrali sia per i Visconti che per gli Sforza legata all’ansia di legittimazione da parte dell’autorità imperiale. E’ il tempo che darà ragione alla fine, che va oltre le prove di forza e di dominio e potenza, il giudizio verrà comunque col tempo, lasciando spazio anche al fato e alla provvidenza.
L’invenzione dell’impresa del morso per cavalli, detta anche “moraglia”, col motto in tedesco “Ich vergies nicht” (io non dimentico) è attribuita a Giangaleazzo Visconti duca di Milano dal 1387 al 1402. Il morso è un simbolo tradizionalmente associato alla virtù della temperanza indicando moderazione e dominio di sé. Significa quindi, in questo contesto, che è necessario frenare i propri impulsi e attendere il momento opportuno per far valere le proprie ragioni. Unito alle briglie è un attributo della giurisprudenza a voler ribadire quanto sia necessario soffermarsi a riflettere lasciando che il giudizio finale sia dato dall’applicazione delle leggi.
La scopetta e il morso furono le imprese predilette dal Moro probabilmente perché furono quelle che Francesco Sforza scelse tra tutte per essere rappresentate sulle monete del ducato da lui coniate. Ma allorché divenne duca di Milano Ludovico preferì di gran lunga al morso l’impresa dei fanali (2) non rinunciando mai alla sua prediletta scopetta.
Ecco perché sono soprattutto rappresentate, scopetta e morso, sulle superfici murarie della Sforzesca, opera architettonica che lo Sforza realizzò nel 1486, undici anni prima della sua legittimazione dinastica nel ducato.
Dipinte nel fregio del marcapiano e attorno alle finestre del piano terreno e del primo piano, scopetta emorso sono intervallate da un ondato di verde e di giallo. Questo attributo araldico a forma di campanelle rovesciate, ordinate in colonne verticali affiancate e alternate, prende il nome di “vaio in punta” solitamente rappresentato d’argento su campo azzurro.
Il “vaio” è utilizzato in araldica come pelliccia che può ricoprire parte dello scudo. Il disegno stilizzato di pezzi blu e bianchi rappresenta la pelle del piccolo scoiattolo grigio siberiano o, più precisamente, di quella chiara della pancia e di quella più scura del dorso – ed è, insieme all’ermellino, una delle due pellicce presenti in araldica, di gran lunga la più usata. Sebbene non comune nelle insegne italiane, la scelta o la concessione di questa nel proprio stemma è indicativa di grande dignità e nobiltà.
La linea che disegna il vaio viene detta “ondato”. Il fasciato ondato inquartato col rosso fu la divisa assunta da Muzio Attendolo Sforza, capostipite della casata fin dall’epoca del servizio presso la compagnia Alberico da Barbiano.
La linea che disegna il vaio viene detta “ondato”. Il fasciato ondato inquartato col rosso fu la divisa assunta da Muzio Attendolo Sforza, capostipite della casata fin dall’epoca del servizio presso la compagnia Alberico da Barbiano.
Divenne poi patrimonio comune di tutta la famiglia. Su questo elemento base, o meglio, sui campi di rosso, i diversi appartenenti alla famiglia aggiunsero di volta in volta (ma non sempre) altre figure, per lo piùimprese.
Sull’uso del termine ondato si sofferma a lungo Cambin, che la definisce “impresa” (G. CAMBIN, Le rotelle milanesi, pp. 208-218). Egli afferma che l’ondato, figura comune in araldica, con l’adozione da parte della casa sforzesca divenne tipica dei duchi di Milano e più in generale dell’araldica lombarda. Gli Sforza lo applicarono, a fianco del biscione, come loro emblema preferito. La mancanza però di una codificazione precisa ha portato ad una incertezza terminologica in merito.
Come figura araldica di possibile derivazione dalle “onde”, l’ondato viene anche paragonato a delle “grosse onde montanti” a rappresentare le tumultuose vicende che gli Sforza dovettero attraversare per consolidare il loro potere politico.
La scelta non poteva cadere in modo più appropriato nei confronti di Ludovico e della sua tanto agognata legittimazione al ducato. Lascia perplesso la scelta del colore verde su campo giallo (a simulare l’oro degli smalti) dipinto alla Sforzesca.
Potrebbe essere stata una scelta dettata da un’esigenza di accostamento cromatico con le restanti decorazioni. Doveroso è ricordare che i frammenti di decorazione visibili oggi giorno sulle superfici esterne della Sforzesca risalgono ad un restauro pittorico dei primi del novecento realizzato prendendo spunto da alcuni bozzetti che Casimiro Ottone ideò partendo dalle tracce sopravvissute al tempo di un precedente intervento ottocentesco. Difficile poter stabilire, in mancanza di documentazione certa e sulla base delle pochissime tracce oggi sopravvissute, quanto questi due interventi siano restati fedeli all’impianto decorativo quattrocentesco e quanto invece è stato aggiunto o interpretato. Non possiamo perciò escludere che originariamente l’ondato fosse dipinto d’argento su campo azzurro come per esempio si trova raffigurato sul voltone d’ingresso al Cortile della Rocchetta nel Castello Sforzesco di Milano, opera interpretativa che fu di Luca Beltrami nei primi anni del secolo scorso, ricordando che il famoso architetto, per le sue ricostruzioni, non mancò di avvalersi di documenti originali facendo anche riferimento a costruzioni coeve tra le quali anche il Castello di Vigevano.
Come figura araldica di possibile derivazione dalle “onde”, l’ondato viene anche paragonato a delle “grosse onde montanti” a rappresentare le tumultuose vicende che gli Sforza dovettero attraversare per consolidare il loro potere politico.
La scelta non poteva cadere in modo più appropriato nei confronti di Ludovico e della sua tanto agognata legittimazione al ducato. Lascia perplesso la scelta del colore verde su campo giallo (a simulare l’oro degli smalti) dipinto alla Sforzesca.
Potrebbe essere stata una scelta dettata da un’esigenza di accostamento cromatico con le restanti decorazioni. Doveroso è ricordare che i frammenti di decorazione visibili oggi giorno sulle superfici esterne della Sforzesca risalgono ad un restauro pittorico dei primi del novecento realizzato prendendo spunto da alcuni bozzetti che Casimiro Ottone ideò partendo dalle tracce sopravvissute al tempo di un precedente intervento ottocentesco. Difficile poter stabilire, in mancanza di documentazione certa e sulla base delle pochissime tracce oggi sopravvissute, quanto questi due interventi siano restati fedeli all’impianto decorativo quattrocentesco e quanto invece è stato aggiunto o interpretato. Non possiamo perciò escludere che originariamente l’ondato fosse dipinto d’argento su campo azzurro come per esempio si trova raffigurato sul voltone d’ingresso al Cortile della Rocchetta nel Castello Sforzesco di Milano, opera interpretativa che fu di Luca Beltrami nei primi anni del secolo scorso, ricordando che il famoso architetto, per le sue ricostruzioni, non mancò di avvalersi di documenti originali facendo anche riferimento a costruzioni coeve tra le quali anche il Castello di Vigevano.
Numerose testimonianze artistiche, com’è prevedibile data la diffusione dell’impresa, recano l’ondato sforzesco.
Rappresentato nello stemma del Moro quando ancora era duca di Bari lo incontriamo per esempio nel cassone dipinto detto “dei tre duchi” dove sono dipinti i duchi di Milano Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Bari Ludovico Maria Sforza fratello del primo, zio e tutore, del secondo. Ciascun cavaliere è accompagnato da uno scudiero ed è contrassegnato, oltre che dagli stemmi posti sulle gualdrappe, dal relativo nome. Lo storico Pietro Ghinzoni, che aveva rinvenuto e acquistato il cassone, lo ritenne eseguito dopo il 1479, anno in cui a Ludovico Maria Sforza venne concesso il titolo di duca di Bari, e entro il 1494, quando il Moro divenne duca di Milano.
Rappresentato nello stemma del Moro quando ancora era duca di Bari lo incontriamo per esempio nel cassone dipinto detto “dei tre duchi” dove sono dipinti i duchi di Milano Galeazzo Maria Sforza, suo figlio Gian Galeazzo e il duca di Bari Ludovico Maria Sforza fratello del primo, zio e tutore, del secondo. Ciascun cavaliere è accompagnato da uno scudiero ed è contrassegnato, oltre che dagli stemmi posti sulle gualdrappe, dal relativo nome. Lo storico Pietro Ghinzoni, che aveva rinvenuto e acquistato il cassone, lo ritenne eseguito dopo il 1479, anno in cui a Ludovico Maria Sforza venne concesso il titolo di duca di Bari, e entro il 1494, quando il Moro divenne duca di Milano.
Non solo; lo stesso stemma si trova anche raffigurato nel frontespizio miniato da G. P. Birago nel Commentario di G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae Mediolanensium ducis Commentarii,conosciuto anche come Sforziade, ove si celebrano le gesta del duca Francesco Sforza. Il Moro colse nell’opera il potenziale propagandistico per l’intera casata e per il proprio personale progetto politico e che per questo ne incrementò la duplicazione tra manoscritti ed edizioni a stampa. Lo stemma compare nella copia che si ritiene essere appartenuta a Ludovico, oggi custodita nella British Library di Londra, dipinto insieme ad altre sue imprese e al profilo dello stesso Sforza all’interno di un medaglione.
Un quadro di Giulio Campi, nella chiesa di San Sigismondo a Cremona, raffigura Francesco Sforza indossante una cotta d’araldo inquartata più volte con due delle sue imprese favorite: il fasciato ondato e ilcane sotto il pino.
Anche sullo stendardo di Massimiliano Sforza è visibile il fasciato ondato alternato nella bordura ad altre imprese del ducato. Inoltre era spesso rappresentato sulle divise, cotte d’armi, gualdrappe e rotelle (scudi rotondi) che servivano in battaglia come insegne ai singoli gruppi di militi in modo da poter essere viste e riconosciute anche da lontano.
I tratti distintivi della corte milanese di Ludovico il Moro furono senza ombra di dubbio il lusso e l’esibizione della ricchezza. Una ricchezza dispensata per colpire l’immaginario di alleati e oppositori e messa in atto per costruire la propria immagine di potere di cui egli stesso si sentiva in difetto. Per questo non mancò mai di far rappresentare, con ogni tecnica e modalità, le simbologie araldiche che più gli appartenevano. L’arte venne utilizzata, usando una terminologia moderna, come “pubblicità mediatica” allo scopo di celebrare, amplificandola, la figura del Duca. Una propaganda promozionale che si manifestò in modo evidente nell’affannoso percorso verso l’investitura imperiale del ducato di Milano ma che era già parte della sua personalità tanto da aver voluto ideare la decorazione della villa Sforzesca di Vigevano con fregi e cornici raffiguranti alcune delle sue iconografie araldiche. Va ricordato che ancora per tutto il quattrocento l’araldica, pur avviandosi verso una regolamentazione delle forme, non sottostava ancora a quelle rigide codificazioni tecnico scientifiche che le diedero i trattisti del cinquecento e seicento. Il Moro ebbe quindi ancora grande libertà nell’ideazione di stemmi ed imprese e non possiamo escludere che alcune di esse non siano state ancora interpretate correttamente o per lo meno secondo il suo preciso volere come lo è per esempio l’ondato sforzesco.
Paola Mangano
Note
1). Per meglio comprendere le imprese riporto dal Felice Tribolati “Grammatica Araldica” che in appendice sulle imprese riprende a sua volta un testo di Monsignor Paolo Giovio, che detta le 4 regole fondamentali per le imprese:
1° giusta proporzione di anima e corpo
2° ch’ella non sia oscura, di sorte abbia ch’abbia mestiero della Sibilla per interprete a volerla intendere: nè tanto chiara che ogni plebeo l’intenda.
3° che soprattutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra, entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti meccanici, animali bizzarri ed uccelli fantastici
4° non ricerca alcuna forma umana
5° richiede il motto, che è l’anima del corpo, e vuol essere comunemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa, perchè il sentimemto sia alquanto più aperto. Vuole anco esser breve, ma non tanto, che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo eccetto se fosse in forma di verso, o integro o spezzato.
1). Per meglio comprendere le imprese riporto dal Felice Tribolati “Grammatica Araldica” che in appendice sulle imprese riprende a sua volta un testo di Monsignor Paolo Giovio, che detta le 4 regole fondamentali per le imprese:
1° giusta proporzione di anima e corpo
2° ch’ella non sia oscura, di sorte abbia ch’abbia mestiero della Sibilla per interprete a volerla intendere: nè tanto chiara che ogni plebeo l’intenda.
3° che soprattutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra, entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti meccanici, animali bizzarri ed uccelli fantastici
4° non ricerca alcuna forma umana
5° richiede il motto, che è l’anima del corpo, e vuol essere comunemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa, perchè il sentimemto sia alquanto più aperto. Vuole anco esser breve, ma non tanto, che si faccia dubbioso; di sorte che di due o tre parole quadra benissimo eccetto se fosse in forma di verso, o integro o spezzato.
2). L’impresa dei fanali rappresenta due fari posti su scogli separati da onde in tempesta. Sono probabilmente i fari del porto di Genova, la città conquistata ai tempi dell’arcivescovo Giovanni, dalla quale erano giunte a Milano due antenate celebri: Isabella Fieschi, una delle tre mogli di Luchino, e Valentina Doria, la moglie di Stefano. Nel motto, che potremmo tradurre “Non mi dispiace faticare per non perdere un simile tesoro”, leggiamo parole di lucido ottimismo per un navigatore in angustie sì ma non disorientato. La stessa impresa compare sul basamento esterno dell’abside di S. Maria delle Grazie, destinata da Ludovico a divenire il mausoleo di famiglia. Qui il tesoro al quale si allude è di sicuro più alto e vale certo tutti i travagli della vita terrena.
Bibliografia:- La “sforziade” e le miniature del birago: l’epopea sforzesca e il destino tragico di Gian Galeazzo Sforza, Carla Glori, in Fogli e Parole d’Arte, 11 maggio 2014
– Allegoria matrimoniale Sforza Visconti di Caravaggio-Aldobrandini nel Castello di Galliate, Gianfranco Rocculi, in Atti della Società Italiana di Studi Araldici, Torino 2011
– Dialogo dell’imprese militari et amorose di Monsignor Giovio, 1559
– Testimonianze sforzesche nella villa Gnecchi Ruscone di Inzago, Carlo Gnecchi Ruscone, in Storia in Martesana n. 4, 2010
– “Grammatica Araldica ad uso degli italiani”, Felice Tribolati, Hoepli Milano 1904
– “Luca Beltrami e il restauro del Castello Sforzesco di Milano” CONFRONTI 3/2012, Studi, ricerche e documenti
– Ludovicus Dux, a cura di Luisa Giordano, Società Storica Vigevanese 1995
– Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico – 1478 – Stemmi – imprese – insegne, Gastone Cambin, Società Svizzera di Araldica 1987
– Allegoria matrimoniale Sforza Visconti di Caravaggio-Aldobrandini nel Castello di Galliate, Gianfranco Rocculi, in Atti della Società Italiana di Studi Araldici, Torino 2011
– Dialogo dell’imprese militari et amorose di Monsignor Giovio, 1559
– Testimonianze sforzesche nella villa Gnecchi Ruscone di Inzago, Carlo Gnecchi Ruscone, in Storia in Martesana n. 4, 2010
– “Grammatica Araldica ad uso degli italiani”, Felice Tribolati, Hoepli Milano 1904
– “Luca Beltrami e il restauro del Castello Sforzesco di Milano” CONFRONTI 3/2012, Studi, ricerche e documenti
– Ludovicus Dux, a cura di Luisa Giordano, Società Storica Vigevanese 1995
– Le rotelle milanesi bottino della battaglia di Giornico – 1478 – Stemmi – imprese – insegne, Gastone Cambin, Società Svizzera di Araldica 1987
fonte: passionarte.wordpress.com
Nessun commento:
Posta un commento