Una volta Therese - erano entrambi vicino alla finestra - gli raccontò della morte di sua madre. Come quella sera d'inverno - lei aveva forse cinque anni - erano andate in giro per le strade, ognuna col suo fagotto a cercare un posto per dormire. Come la madre dapprima la teneva per mano - c'era una bufera di neve e non era facile proseguire -, finché la sua mano si era paralizzata per il gelo e senza voltarsi aveva lasciato andare Therese, che si era aggrappata con grande sforzo alle gonne della madre. Spesso Therese inciampava e cadeva persino, ma la madre era come impazzita e non si fermava. E quelle bufere di neve nelle lunghe strade diritte di New York! Karl non conosceva ancora l'inverno di New York. Quando si cammina contro il vento che turbina, non si possono aprire gli occhi neppure per un attimo, di continuo il vento e la neve sferzano il viso, si tenta di correre ma non si riesce a procedere, è disperante. Naturalmente un bambino è più avvantaggiato di un adulto, corre al di sotto del vento e almeno si diverte un poco. Allora anche Therese non aveva capito molto di sua madre, ed era fermamente convinta che se quella sera l'avesse capita meglio - ma era ancora così piccola - lei non sarebbe morta in modo così miserabile. Già da due giorni la madre era senza lavoro, non avevano neppure una monetina, avevano trascorso la giornata all'aperto senza mangiare un boccone, e nei loro fagotti si trascinavano dietro soltanto inutili stracci che non osavano gettar via, forse per superstizione. Il giorno seguente sua madre avrebbe dovuto lavorare in un cantiere, ma temeva di non poter sfruttare quell'occasione, come aveva cercato di spiegare per tutto il giorno a Therese, perché si sentiva sfinita, già la mattina per strada aveva sputato molto sangue spaventando i passanti, e l'unico suo desiderio era di poter arrivare in un posto caldo e riposarsi. E proprio quella sera era impossibile trovare un riparo. Quando non erano scacciate dal portiere già all'ingresso, dove avrebbero potuto pur sempre sostare un momento pr riprendersi dall'inclemenza del tempo, dovevano attraversare angusti e gelidi corridoi, salire una quantità di piani, girare attorno ai balconi affacciati sui cortili, bussare a qualsiasi porta. Ora non osavano chiedere niente, ora pregavano tutti quelli che incontravano, e una o due volte la madre si era seduta senza fiato sui gradini di una scala deserta, aveva attirato a sé Therese, che quasi si schermiva, e l'aveva baciata premendole contro le labbra fino a farle male. In seguito, pensando che quelli erano stati gli ultimi baci, Therese non riusciva a capire come fosse stata tanto cieca da non accorgersene, anche se era una bambina così piccola. Passavano davanti a stanze che avevano le porte aperte per far uscire l'aria soffocante, e dalla foschia fumosa che riempiva la stanza come se si fosse sviluppato un incendio emergeva soltanto la figura di qualcuno incorniciata dalla porta che dichiarava la propria impossibilità di alloggiarle o restando muto o spendendo poche parole. In seguito Therese aveva capito che la madre aveva cercato posto seriamente soltanto nelle prime ore, poiché poco dopo la mezzanotte non aveva più chiesto nulla, sebbene fino all'alba non avesse mai smesso di proseguire, tranne che per brevi intervalli, e sebbene quegli edifici, in cui non si chiudono mai né il portone né la porta di casa, siano sempre animati e ad ogni passo si incontri qualcuno. In realtà non camminavano in fretta, compivano soltanto l'ultimo sforzo di cui erano capaci, probabilmente si limitavano a trascinarsi. Therese non sapeva neppure se tra la mezzanotte e le cinque del mattino fossero state in venti case, in due o in nessuna. In genere i corridoi di questi edifici sono disposti in modo da poter sfruttare il più possibile lo spazio, ma l'orientamento non è facile; quante volte forse avevano attraversato lo stesso corridoio! Therese ricordava vagamente che erano uscite dal portone di una casa in cui avevano girato per ore, per poi, appena in strada, tornare subito indietro per precipitarsi di nuovo nella stessa csa, o almeno così le sembrava. Naturalmente per la bambina era stata una sofferenza inspiegabile essere trascinata ora per mano dalla madre ora aggrappandosi a lei senza una minima parola di conforto, e allora aveva creduto che tutto questo significasse soltanto la volontà di abbandonarla da parte della madre. Quindi, anche quando sua madre la teneva per mano, per sicurezza Therese si aggrappava con l'altra mano alle sue gonne, e di tanto in tanto scoppiava in singhiozzi. Non voleva essere abbandonata lì, tra persone che davanti a loro salivano le scale con passi pesanti, che dietro di loro, ancora invisibili, si stavano avvicinando da una curva della scala, che litigavano nei corridoi davanti a una porta prima di spingersi a vicenda dentro una stanza. Ubriachi giravano per la casa cantando con voce roca, e per fortuna la madre riusciva a infilarsi con Therese tra quei gruppi sempre più serrati. Certo, a notte avanzata, quando l'attenzione veniva meno e più nessuno s'intestardiva sul proprio diritto, avrebbero almeno potuto infilarsi in uno dei dormitori comuni che avevano oltrepassato affittati da imprenditori, ma Therese non era in grado di farlo, e la madre non voleva più riposarsi. La mattina seguente, l'inizio di un bel giorno d'inverno, erano appoggiate entrambe al muro di una casa, e probabilmente avevano dormito un poco o forse avevano soltanto fissato il vuoto con gli occhi spalancati. Risultò che Therese aveva perso il suo fagotto, e per punirla della sua disattenzione la madre cominciò a picchiarla, ma Therese né udiva né sentiva i colpi. Poi proseguirono per le vie che si andavano animando, la madre camminava lungo i muri, attraversarono un ponte, la madre spazzò via con la mano la brina del parapetto e infine - Therese allora l'aveva accettato, oggi non capiva come -, giunsero proprio al cantiere in cui la madre avrebbe dovuto lavorare quella mattina. Non disse a Therese di aspettare o di andarsene, e Therese interpretò questo silenzio come l'ordine di aspettarla, dato che era l'atteggiamento più risondente ai suoi desideri. Quindi si sedette su un mucchio di mattoni e stette a guardare la madre che slegava il suo fagotto e prendeva un cencio colorato legandoselo poi sulla testa attorno al fazzoletto che aveva tenuto addosso tutta la notte. Therese era troppo stanca anche solo per pensare di aiutare la madre. Senza presentarsi alla baracca del cantiere secondo l'uso, e senza chiedere niente a nessuno, la madre salì per una scala a pioli, come se avesse già saputo che lavoro doveva fare. Therese si meravigliò, perché di solito le operaie sbrigavano solo i lavori più semplici a terra, come spegnere la calce viva, passare i mattoni e simili. Quindi pensò che quel giorno la madre volesse fare un lavoro più retribuito e le sorrise, ancora assonnata. L'edificio non era ancora alto, solo il pianterreno era costruito, anche se le armature per il piano successivo, pur senza le assi di collegamento, si stagliavano già contro il cielo azzurro. Arrivata in cima, la madre evitò con destrezza i muratori che posavano un mattone sull'altro e che stranamente non le chiesero nulla, appoggiò con cautela la sua mano delicata a un tramezzo di legno che fungeva da parapetto, e da sotto Therese, ancora assonnata, ammirò la sua abilità, e le parve che la madre le rivolgesse una sguardo affettuoso. Poi la madre proseguì e giunse davanti a un mucchietto di mattoni, davanti a cui cessava il parapetto e probabilmente anche il camminamento, ma lei non si fermò, si diresse verso il mucchio e la sua abilità sembrò venir meno, perché vi inciampò contro e precipitò al di là nel vuoto. Molti mattoni le rotolarono dietro, e infine, dopo un certo intervallo, da qualche parte un asse pesante si staccò e le cadde addosso di schianto. L'ultimo ricordo che aveva Therese di sua madre era l'immagine di lei stesa a terra con le gambe allargate con indosso la gonna a quadri che aveva ancora dalla Pomerania, quell'asse ruvido su di lei che la copriva quasi per intero, la gente che accorreva da tutte le parti e un uomo in cima all'impalcatura che gridava qualcosa con ira.
è Kafka che scrive.
è America.
è un libro enigmatico, incompiuto, con una prima parte potentissima e una seconda, l'ultima, veramente oscura, quasi incomprensibile.
Karl è stato cacciato dall'albergo in cui lavorava, senza motivo ma con colpa ed ignominia, a dimostrazione che la colpa esiste anche senza un motivo che la determini, che la punizione può incorrere senza causa, macigno ineluttabile della vita, e si trova a concludere il suo percorso letterario praticamente prigioniero in una casa abitata da una ricca e grassa cantante, Brunelda, che trattiene lui e altri due al suo servizio con sceneggiate isteriche e capricci da diva, con atteggiamenti dominanti e perversi. è la messa in scena dell'alienazione, come, nella prima parte, era stata quella della forocia della legge, quando è senza volto e senza misura.
e feroce è il raccondo della morte della madre di Therese, un intermezzo tragico e penoso nella narrazione della progressiva umiliazione di Karl, un capolavoro che si inserisce nelle pagine de Il disperso (titolo originario dell'opera), una conferma, come non fosse ancora abbastanza, delle vessazioni disumane del destino.
fonte: nuovateoria.blogspot.it
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