Prima di iniziare a scrivere il suo monumentale romanzo, che sarebbe poi diventato uno dei più importanti capisaldi della letteratura del Novecento (parliamo naturalmente de “il Nome della Rosa”), Umberto Eco fece per un anno intero il viaggiatore. Viaggiò per tutta Europa fra abbazie e luoghi similari per studiare, assorbire, elaborare veri luoghi storici e costruire grazie ad essi l’universo fittizio nel quale avrebbe poi fatto muovere i suoi personaggi. Allo stesso modo, con la sua già sterminata conoscenza della storia medievale e delle sue figure più significative e interessanti, costruì gli straordinari “attori” del suo dramma mescolando riferimenti letterari e storici come solo lui sapeva fare. Per nostra fortuna, oltre agli innumerevoli studi effettuati poi sul suo testo, molte ispirazioni ci furono tramandate dallo stesso autore, sempre pronto a “svelare” i suoi giochi e a stimolarne sempre di nuovi, nella inimitabile e inestricabile miscellanea di realtà e fantasia che è sempre stata la sua principale cifra stilistica. Ci piace quindi provare a riassumere, per quanto si possa fare in un breve articolo, i principali riferimenti utilizzati dallo scrittore per la costruzione del suo capolavoro.
L’abbazia
E’ abbastanza noto che come principale fonte di ispirazione per la grande abbazia entro le cui mura si svolge l’intera vicenda, Eco prese anzitutto la Sacra di San Michele, monumento simbolo del suo Piemonte. Arroccata in cima ad una montagna, gigantesca e inquietante, domina la Val di Susa e possedeva già da sola molte delle caratteristiche ideali per fare da sfondo ai fatti immaginati da Eco.
Tuttavia l’abbazia del romanzo prese vita anche grazie a diversi altri luoghi visitati e studiati dall’autore. Ad esempio, lo scriptorium, luogo simbolico dove si svolgono anche diverse scene capitali, prende ispirazione da quello dell’abbazia di San Colombano di Bobbio, in provincia di Piacenza. E sempre lo scriptorium e l’intera biblioteca (fulcro fisico e narrativo del romanzo) sono anche debitori di quelli reali della abbazia di San Gallo in Svizzera. La biblioteca dell’abbazia Svizzera, in particolare, ebbe storicamente un ruolo assai simile a quello descritto nella finzione romanzesca, avendo attirato da tutta l’Europa medievale un gran numero di monaci miniaturisti addetti alla copia e all’illustrazione dei libri in essa contenuta, e fu per un lunghissimo periodo una delle biblioteche più ricche e impressionanti di tutto il medioevo.
In questa straordinaria biblioteca inoltre è conservato un documento unico al mondo che Eco studiò e utilizzò proprio come un vero e proprio manuale. Si tratta della famosa Pianta di San Gallo, una pianta medievale di una abbazia risalente agli inizi del IX secolo. Di inestimabile valore storico, in questo progetto (mai realizzato) riportato su cinque fogli di pergamena cuciti assieme, sono riportati con la massima accuratezza tutti gli edifici previsti per l’abbazia. Chiese, abitazioni, stalle, cucine, locali addetti alle cure mediche, laboratori. Ed una dettagliata legenda descrive caratteristiche e funzioni di ciascun locale. Una fonte preziosissima di informazioni che lo studioso utilizzò a piene mani per ricostruire ambienti verosimili e credibili rispettando la realtà storica di quei luoghi.
Frate Guglielmo
Per i personaggi, Umberto Eco mise mano a tutte le sue conoscenze storiche e filosofiche dell’epoca, estraendo da veri personaggi storici le caratteristiche principali per poi costruirne la storia personale e la psicologia mescolandole ed arricchendole con i riferimenti più disparati e a volte fantasiosi. Evidente le caratteristiche che accomunano il protagonista frate Gugliemo da Baskerville al più famoso detective della storia della letteratura,Sherlock Holmes. A partire dal nome, che utilizzando come provenienza una immaginaria contea inglese non fa altro che evocare uno dei più famosi romanzi di Conan Doyle con protagonista l’investigatore di Baker Street, lo straordinario “il Mastino dei Baskerville”. MA il gusto di Eco per le citazioni e i riferimenti culturali da quelli più aulici a quelli più “pop” era talmente sconfinato che anche solo di questo aspetto “sherlockiano” si possono trovare tonnellate di cenni e ammiccamenti per l’intero scritto. Ci basti qui citare che l’esordio di frate Gugliemo (“dove si arriva ai piedi dell'abbazia e Guglielmo dà prova di grande acume”), nel quale il francescano deduce molte cose esatte sul cavallo appena fuggito dall’abbazia senza averlo visto e senza ancora saperne (quasi) nulla, altro non è che un’altra citazione sherlockiana, stavolta dal racconto “Silver Blaze”, dove per l’appunto Holmes e Watson sono sulle tracce di un puledro scomparso nella brughiera inglese.
Ma il gigantesco personaggio di Guglielmo, oltre al gioco letterario che lo lega alla creatura di Conan Doyle, trae l’ispirazione più profonda e densa da un vero personaggio storico, Guglielmo di Ockham (Ockham, 1285 – Monaco di Baviera, 1347) . Le analogie in questo caso sono evidenti e di fondamentale importanza anche per l’intero significato della storia inventata da Eco: Guglielmo di Ockham fu, appunto, un frate francescano inglese, filosofo, teologo, teorico del metodo deduttivo e più volte incorso nelle maglie dell’inquisizione per sospetti di eresia, dato il suo pensiero libero e spesso in contrasto con le rigide dottrine della chiesa dell’epoca. I riferimenti al suo pensiero e alle sue dispute con la dottrina papale sarebbero tanti e tali da riempire un altro libro, ma altrettanti sono gli aspetti delle sue elucubrazioni filosofiche che permeano il racconto e potremmo dire l’intero impianto narrativo del romanzo. Basti citare il cosidetto “rasoio di Occam”, procedimento logico deduttivo elaborato proprio dal francescano inglese. Ridotto alla sua essenza anche un po’ brutale, il principio del rasoio di Occam dice che, per risolvere un problema di una qualsiasi natura, è buona cosa scegliere, fra le ipotesi più possibili, quella più semplice. Detta così sembra quasi una banalità, ma si tratta di principio filosofico fondamentale per la formulazione del quale Guglielmo elaborò innumerevoli teorie e prove anche molto complesse (da ricordare sempre che per “Ipotesi più semplice” non si intende mai la più banale o la più ingenua ma la più “Logica”) e che non a caso viene considerato uno dei principi alla base del pensiero scientifico moderno. Si capisce allora come la figura del grande frate pensatore del XIV secolo sia davvero il perno centrale di tutta la costruzione filosofica e narrativa del romanzo di Eco. Impossibile poi non confrontare alcuni suoi enunciati relativi a questo pensiero, come ad esempio «A parità di fattori la spiegazione più semplice è da preferire» con quella altrettanto famosa dell’altro illustre ispiratore del personaggio, l’enunciato Sherlockiano che recita «Una volta eliminato l'impossibile, ciò che resta, per quanto improbabile, deve essere la verità.»
Fra le tante assonanze fra personaggio e reale figura storica, ricordiamo infine che il vero Guglielmo morì a Monaco di Baviera a causa della peste, e che anche nel romanzo il suo novizio ipotizza, non avendolo più rivisto dopo i fatti narrati, che anch’egli abbia perso la vita nella grande epidemia che colpì in quel periodo l’europa centrale.
Adso da Melk
Non meno intriganti le origini del personaggio del novizio che segue frate Guglielmo e ne narra in prima persona le gesta. Essendo il narratore inevitabile la conseguente associazione al dottor John Watson, del quale il nome “Adso” richiama foneticamente il cognome del medico scrittore che segue le imprese del detective londinese (e conoscendo il gusto di Eco per i calembour e i giochi di parole anche irriverenti, vi suggeriamo di cercare anche altre sonorità ancor più provocatorie, magari combinando nome e cognome in modo più ardito). Come narratore poi, lo stesso Eco suggerisce di aver pensato a Snoopy quando decise di far iniziare il suo racconto con la frase “Era una bella mattina di fine novembre”, citando l’eterno incipit del bracchetto di Schulz che mai si traduce in romanzo “Era una notte buia e tempestosa”. Per la precisione Eco attribuisce proprio a questo la stessa idea di utilizzare l’espediente del “narratore” per la forma scelta per il suo capolavoro (cito a memoria: “Come si fa a scrivere ‘era una bella mattina di fine novembre’ senza sentirsi Snoopy? Ed ecco l’idea: e se lo avessi fatto scrivere proprio a Snoopy?”).
Ma anche il novizio benedettino inventato da Eco ha il suo corrispettivo storico per nulla secondario. E’ Adso da Montier-en-Der, monaco e poi Abate benedettino francese, non a caso letterato e scrittore, famoso come autore di uno scritto sull’Anticristo (De ortu et tempore Antichristi), che infatti spesso viene evocato proprio dal fittizio narratore del nome della Rosa. Altrettanto significativo che l’autore del libro, in questo infinito gioco di scatole cinesi nel quale si muove con la massima naturalezza, lo assegni per il resto della sua vita all’abbazia benedettina di Melk, in Austria.
Si tratta infatti di uno dei più importanti complessi monastici del mondo, e all’epoca narrata uno dei principali centri di cultura religiosa e teologica d’Europa. Soprattutto, l’abbazia è dotata ancora oggi di una biblioteca monumentale e di uno scriptorium dove Umberto Eco colloca proprio il suo personaggio a scrivere tutta la vicenda. Si può ben dire quindi che lo Scriptorium dell’abbazia di Melk sia la vera location dell’intero romanzo, giacché tutta la costruzione narrativa gioca proprio sulla finzione del ritrovamento e ricostruzione del manoscritto medievale. La celeberrima e magnifica frase che chiude le oltre cinquecento pagine: « Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus. »
Ci riporta quindi proprio nel locale del monastero di Melk, ricordandoci che non ci siamo mai mossi da lì per tutto il tempo, noi ad ascoltare e Adso a narrare.
PS: gli innumerevoli altri personaggi del romanzo sono il frutto di altrettante e complesse ispirazioni sempre fra la realtà storica (Bernardo Gui, Fra Dolcino, Ubertino da Casale) e la mescolanza di fantasia e ricostruzione intellettuale (Frate Remigio, L’Abate, Adelmo da Otranto e così via) che rappresentano sempre l’aspetto più stimolante ed entusiasmante delle creazioni del grande scrittore piemontese, tanto numerose e complesse che in questo poco spazio non ci azzardiamo neanche ad accennarle, e, alla fra’ Guglielmo, le rimandiamo ad altre e prossime investigazioni.
Alessandro Borgogno
Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016)
Il nome della rosa (prima edizione 1908, Bompiani)
https://it.wikipedia.org/wiki/Sherlock_Holmes
ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.
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