Tentiamo un’ultima puntata (anche se il romanzo di Eco è una miniera infinita di ispirazioni e rimandi), dopo le prime due dedicate ai luoghi, ai protagonisti e agli altri personaggi principali (qui e qui), dedicandola ai tempi storici all’interno dei quali vengono collocate dall’autore le fosche vicende dell’abbazia.
Conoscendo ormai l’attenzione dedicata ad Umberto Eco a tutti gli aspetti anche minimi che possano contribuire alla verosimiglianza delle vicende narrate, nonché alla sua sconfinata conoscenza e attenzione per la collocazione storica del suo racconto, è ovvio che il tempo nel quale va ad incastrare la sua straordinaria narrazione non sia né casuale, né tantomeno un tempo qualsiasi.
I protagonisti giungono all’abbazia fra i monti alpini verso la fine dell’anno (“Era una bella mattina di fine novembre”) e vi restano sette giorni fino al pirotecnico e apocalittico finale.
L’anno è il 1327.
L’anno è il 1327.
La cattività avignonese
Il periodo storico è identificato con chiarezza, ed è un unicum non solo della storia medievale ma anche dell’intera storia della chiesa cattolica: la cattività avignonese.
Negli anni che vanno dal 1309 al 1377 la sede papale si sposta da Roma ad Avignone, in Francia. E’ quindi inevitabilmente un periodo del tutto particolare, durante il quale la chiesa cattolica apostolica romana vive un momento di straordinaria complessità, e debolezza.
Il termine cattività (dal latino captivus: prigioniero) nasceva come indicazione di una situazione di esilio, paragonata a quella del popolo ebraico negli anni dal 587 al 517 a.C., detti appunto “cattività babilonese”. Il paragone proviene da un sonetto del Petrarca (che per quanto fosse toscano, come si sa fu di adozione provenzale) che in un sonetto del Canzoniere (De l'empia Babilonia, ond'è fuggita) paragona Avignone con Babilonia, suggerendone l’identificazione di capitale del vizio. Venne quindi paragonata, dai contemporanei, la situazione papale con l'esilio degli Ebrei dandole il nome di “nuova cattività babilonese”, per poi diventare col tempo, per chiarezza, l’espressione che conosciamo oggi: "cattività avignonese".
Nell’anno degli avvenimenti narrati, il 1327, il papa è Giovanni XXII, il secondo dei papi avignonesi, francese (il suo nome è Jacques Duèse) così come era francese il suo predecessore, Bertrand de Got, incoronato papa a Lione col nome di Clemente V, colui che sostanzialmente avviò la cattività. Con Roma già in preda alle rivolte e considerata ormai poco sicura, nel 1305 era stato eletto in un conclave eccezionalmente tenuto a Perugia e che si protrasse per ben undici mesi (e senza di lui, che si trovava nella sua sede vescovile a Bordeaux). Fu poi lui a trasferire la sede pontificia ad Avignone, nel 1313, dopo essere stato per quattro anni a Poitiers a partire dal 1309.
Per arricchire la controversia delle figure in gioco e la complessità del momento storico le cui propaggini ancora oggi ci portiamo dietro, quantomeno a livello di miti, Clemente V viene anche ricordato per essere stato colui che, appena eletto, accordandosi con il Re di Francia Filippo il Bello acconsentì nel 1307 di barattare il paventato processo postumo a Bonifacio VIII con la distruzione definitiva dell’Ordine dei Templari, a seguito della quale il Re di Francia acquisì la gran parte dei possedimenti in carico ai famosi cavalieri.
La disputa sulla povertà apostolica
Ma il primo periodo della cattività avignonese coincide anche con l’apice della disputa sulla povertà apostolica, che è appunto l’oggetto centrale dell’incontro fra le delegazioni che si tiene nell’abbazia nei giorni narrati da Adso. Si tratta di una controversia nata quasi un secolo prima sulla scia delle predicazioni di San Francesco e dell’Ordine monastico da lui fondato, che in quegli anni (dal 1318 fino al 1328) raggiunge i livelli più alti di tensione. Umberto Eco colloca quindi la vicenda proprio nella fase finale, quando l’ordine francescano è seriamente minacciato di scomunica ed eresia dal papa avignonese, e lo scontro apparentemente teologico sulla legittimità della chiesa a possedere beni materiali si tramuta in vera e propria guerra nella quale si inserisce, intravedendo la possibilità di indebolire lo stato pontificio, il duca di Baviera e fresco imperatore Ludovico il Bavaro, a seguito del quale infatti si rifugeranno i francescani quando le cose inizieranno a mettersi male.
La spedizione italiana di Lodovico di Baviera
Nel fatidico anno 1327 cade anche un altro evento per nulla secondario. Ludovico di Baviera, nel tentativo di indebolire il papa che non voleva riconoscere la sua investitura a Imperatore del Sacro Romano Impero e lo aveva in conseguenza interdetto (atto a cui seguì l’abitudine a chiamarlo, in senso dispregiativo, Il Bavaro), mise insieme un esercito di Ghibellini e marciò in Italia per dirigersi a Roma per ricevere lì (da Giacomo Sciarra Colonna, capitano del popolo romano in assenza del pontefice) la corona imperiale. Fatto questo, con un decreto dichiarò il papa Giovanni XXII deposto in quanto eretico, e nominò al suo posto l’antipapa Niccolò V. Tutto questo avvenne però già nel 1328. Essendo accertato che Lodovico trascorse e celebrò il Natale del 1327 a Castiglione della Pescaia, sappiamo quindi che al momento degli avvenimenti narrati (“Era una bella mattina di fine novembre”) la spedizione di Lodovico era pienamente in Italia, probabilmente fra Emilia e Toscana. Ecco quindi che la disputa nell’abbazia avviene in un momento particolarmente teso proprio mentre su quegli stessi territori la sfida fra Papa e Imperatore sta raggiungendo il culmine. La spedizione di Lodovico permette poi di riagganciare i personaggi di Michele e Guglielmo al loro successivo esilio, perché i reali personaggi, Michele da Cesena e Guglielmo da Ockham, dopo essersi recati ad Avignone (evidentemente dopo aver lasciato l’abbazia…) per la prosecuzione della disputa ed essersi trovati in evidente minoranza e a rischio di scomunica o di conseguenze peggiori, fuggirono dalla sede pontificia e raggiunsero proprio Lodovico che rientrava in Germania, rifugiandosi quindi a Monaco di Baviera dove finirono entrambi i loro giorni (il primo nel 1342, il secondo nel 1347).
Il periodo storico, e i personaggi utilizzati da Eco si possono anche “vedere” in una delle opere più importanti della storia dell’arte medievale. A Firenze, in Santa Maria Novella, c’è il cosiddetto Cappellone degli Spagnoli (antica sala capitolare della chiesa). Li si trova uno straordinario ciclo di affreschi realizzato da Andrea Bonaiuto intorno all’anno 1367. Su una delle pareti è rappresentata la cosiddetta Via Veritas, conosciuta anche come Chiesa militante e trionfante, che è una complessa rappresentazione allegorica della missione, dell’opera e del finale trionfo dell’ordine dei Domenicani. Vi si trovano quindi anche tutti i riferimenti alla disputa sulla povertà apostolica, con i protagonisti ritratti a pochi decenni dai fatti.
Oltre ad una rappresentazione pressoché perfetta della basilica di Santa Maria del Fiore, con la cupola incredibilmente riprodotta in modo fedele quasi centocinquanta anni prima che il Brunelleschi trovasse il modo di realizzarla (si ritiene fu dipinta sulla base dei modelli già progettati nel 1300, anche dallo stesso Bonaiuti, sebbene ancora nessuno sapesse come costruirla davvero nella pratica), si possono infatti distinguere molto chiaramente, nella parte in basso a sinistra del grande affresco, due frati francescani che discutono (disputano) con un alto prelato, ai piedi del pontefice.
I Pontefice è forse Benedetto XI o forse Innocenzo VI (all’epoca i papi si succedevano con una certa frequenza e come pontefice anche simbolico non è certo quale sia stato scelto per rappresentare la chiesa nel momento del trionfo contro le “eresie” ) , l’alto prelato è Simone Saltarelli (arcivescovo di Pisa, domenicano) , e i due francescani sono proprio Michele da Cesena (a sinistra) e Guglielmo di Ockham (al centro).
Umberto Eco (Alessandria, 5 gennaio 1932 – Milano, 19 febbraio 2016)
Il nome della rosa (prima edizione 1980, Bompiani)
fonte: I VIAGGIATORI IGNORANTI
ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.