31/01/15
l'alluvione del Polesine
L'alluvione del Polesine del novembre 1951 fu un evento catastrofico che colpì gran parte del territorio della provincia di Rovigo e parte di quello della provincia di Venezia (Cavarzerano), causando 84 vittime e più di 180.000 senzatetto, con molte conseguenze sociali ed economiche.
Prodromi dell'evento
Durante le due settimane precedenti all'alluvione, si verificarono intense precipitazioni distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume Po. Tali precipitazioni, pur non raggiungendo nelle singole aree del bacino tributario i picchi massimi di intensità storici, furono caratterizzate da un'anomala continuità temporale e distribuzione spaziale: infatti, non vi fu praticamente soluzione di continuità per l'intero periodo e l'intero territorio del bacino imbrifero ne fu interessato. Inoltre, la distribuzione spazio-temporale delle precipitazioni fu tale da determinare la sovrapposizione dell'onda di piena dell'asta principale a quelle dei singoli affluenti alle rispettive confluenze. Tale fattore, legato a un indice di probabilità estremamente basso, costituisce più di ogni altro la causa delle anomale condizioni idrauliche in cui è venuto a trovarsi il fiume Po in occasione del disastroso evento. Il verificarsi di tale improbabile circostanza fece sì che l'onda di piena si incrementasse progressivamente, scendendo da monte verso valle, in corrispondenza di ogni singola immissione dei numerosi affluenti, tanto alpini che appenninici.
In occasione delle precedenti ricorrenti intumescenze del Po (l'ultima importante delle quali era stata quella del 1926) le perturbazioni avevano colpito il bacino tributario - in modo più intenso e continuativo - solo su uno dei due versanti (quello alpino o quello appenninico) o solo su un settore di esso (l'alto, il medio o il basso corso). Lo sfalsamento dei tempi di corrivazione delle onde di piena dei singoli affluenti rispetto a quella dell'asta principale (statisticamente più probabile) in occasione delle precipitazioni della prima metà di novembre del 1951 non si diede ma, al contrario, si verificò la loro anomala coincidenza. Il risultato è stato quello di un insostenibile carico idraulico abbattutosi sui tronchi terminali dell'asta principale, con un interessamento particolarmente grave delle province di Mantova, Ferrara e Rovigo.
Mentre nei giorni del 12, 13 e nelle prime ore del 14 novembre l'onda di piena transitava nel mantovano senza il verificarsi di irreparabili esondazioni grazie anche alla tempestiva e massiccia realizzazione di interventi di contenimento, durante il passaggio della stessa tra le province di Ferrara, a sud, e Rovigo, a nord, avvenne l'irreparabile.
Le premesse della catastrofe
I presupposti della sciagura, al di là delle anomale circostanze idrologiche sopra sintetizzate, sono però da ricercare nel campo umano, ed in particolare in quello delle Amministrazioni pubbliche istituzionalmente competenti a prevenire ed affrontare la situazione. Non è possibile dire con certezza se si sarebbe potuta evitare la catastrofe che si verificò, ma è certo che una diversa gestione delle cose avrebbe potuto, se non scongiurare il disastro, almeno limitarne le conseguenze.
Sotto questo profilo non possono essere sottaciute le gravissime responsabilità delle tre istituzioni direttamente interessate, per competenza, dalla natura degli eventi: il Genio Civile di Rovigo ed i relativi diretti organi superiori cioè il Magistrato alle Acque di Venezia ed il Ministero dei Lavori Pubblici, la Prefettura e la Provincia, rispettivamente competenti per gli aspetti idraulici, quelli dell'ordine pubblico e del soccorso alle popolazioni e quello del coordinamento territoriale generale e delle funzioni logistiche.
Circa l'aspetto idraulico, è venuta completamente a mancare la fase della preallerta che sarebbe servita alle altre amministrazioni coinvolte, in primis quelle comunali rivierasche, a mobilitare uomini e mezzi per far fronte all'evento. Da un punto di vista storico, si tende ad attribuire tale sottovalutazione del fenomeno da parte del preposto Genio Civile a una mancata comprensione dell'eccezionalità dell'evento sotto il profilo propriamente idraulico, complice le anomale circostanze che sono venute a determinarsi sotto questo risvolto e di cui si è detto più sopra. L'onda di piena infatti, pur rivelandosi subito di entità considerevole, non appariva, dai dati idrometrici provenienti dalle stazioni di misura di monte, di carattere straordinario e sicuramente non fece presagire ciò che poi, nei fatti, si verificò.
Tale mancata previsione, comunque grave in relazione alla drammaticità della situazione venuta a crearsi nei giorni immediatamente precedenti all'alluvione nel mantovano ma anche figlia dei tempi per la carenza dei mezzi di comunicazione (i telefoni erano rari ed appannaggio quasi esclusivo degli uffici governativi) e soprattutto per la pressoché totale assenza dei mezzi di informazione di massa “in tempo reale” (esisteva solo la radio e non tutte le famiglie la possedevano), ingenerò un ritardo nella reazione di tutte le altre istituzioni coinvolte e del territorio in genere che si rivelò incolmabile, con la conseguenza che si poté poi unicamente rincorrere gli eventi.
Analisi delle cause
Già nelle prime ore del giorno 14 novembre, il colmo di piena iniziava ad interessare l'Alto Polesine. Gli abitanti di Melara, Bergantino, Castelnovo Bariano, Castelmassa, Calto e degli altri centri rivieraschi iniziavano una corsa contro il tempo nel tentativo di contenere le acque del fiume all'interno dei propri argini. Guidate dai propri sindaci in prima persona, sotto il coordinamento di tecnici locali, queste popolazioni intraprendevano un'immane opera di sovralzo delle sommità arginali mediante la costruzione di coronelle e soprassogli. Solo lo spirito di abnegazione e la consapevolezza che dalla riuscita o meno dei loro sforzi dipendevano le sorti del territorio, comprese quelle delle loro stesse case e terreni, ha fatto sì che il livello delle acque fosse contenuto dalle suddette opere tumultuarie.
L'operato di queste genti risulta tanto più stoico in considerazione del fatto che le dette opere di contenimento furono realizzate in condizioni particolarmente difficili. Vi era infatti carenza di uomini, materiali (con grande penuria dei sacchi necessari per il riempimento in terra e la formazione dei rialzi arginali) e di mezzi, in quanto non vi era ovviamente disponibilità di mezzi meccanici quali escavatori, bulldozer e autocarri e si operava con semplici attrezzi manuali, spesso portati da casa. Cosa ancor più grave fu la totale mancanza di un'organizzazione sovraordinata in grado di prevedere l'evento e organizzare le risposte adatte gestendo con razionalità la realizzazione delle opere necessarie. Ciononostante, per l'intera tratta dell'Alto Polesine, da Melara a Stienta la lama d'acqua, che ormai sovrastava in molti punti la sommità arginale, poté essere contenuta dalle opere di sopraelevazione realizzate, che raggiunsero in alcune tratte l'altezza 1,00 - 1,20 m. Anche la lotta contro i numerosi fontanazzi che costellavano la campagna al piede dell'argine fu vinta, grazie al sollecito circondamento di quelli principali.
Non altrettanto avvenne per il popoloso comune di Occhiobello, né per quello contiguo di Canaro. A differenza che per i paesi rivieraschi posti più a monte, la partecipazione della popolazione alle tumultuarie opere di contenimento fu alquanto scarsa e anziché il pervasivo spirito di abnegazione ed esaltazione che caratterizzò l'operato delle popolazioni di monte, si diffuse lo scoraggiamento, la paura ed il panico. Complice la notizia, rivelatasi poi falsa, che il fiume aveva rotto a Bergantino, alle ore 11 del mattino del 14 novembre i già sparuti e male assortiti gruppi di volontari che si trovavano ad operare sugli argini, quasi tutti cittadini di Occhiobello con pochissimi contadini, certo più idonei ad essere impiegati in tali generi di lavori, lasciarono gli argini al loro destino. Rimasero solo i più determinati, nel tentativo di difendere almeno il centro del paese.
Sulle ragioni della scarsa partecipazione degli abitanti di Occhiobello e di Canaro ai lavori di difesa, in particolare dei contadini, esistono diversi studi di natura sociologica che prendono in esame vari fattori. Tra essi figurano la differente composizione sociale che contraddistingueva le comunità di Occhiobello e Canaro rispetto a quelle delle limitrofe zone, con una fortissima componente di bracciantato agricolo, privo di proprietà e quindi meno motivato alla difesa del territorio, l'alta conflittualità politica e sociale che caratterizzò quegli anni e quei territori in particolare, finanche la supposta mancanza, in quella popolazione, dell'ancestrale empatia con l'elemento fiume dovuta al fatto che il corso del Po si attestò su quel territorio, a differenza che su quello alto polesano, solo dal XII secolo, a seguito della famosa Rotta di Ficarolo, avvenuta, secondo la tradizione, nel 1152.
Fattori idraulici
Oltre all'impossibilità di portare a compimento le necessarie opere di contenimento idraulico mediante sovralzo delle arginature, a giocare un ruolo decisivo sulla localizzazione delle rotte è stata certamente la specifica conformazione dell'alveo fluviale in quei siti nonché la presenza al suo interno di considerevoli manufatti. Il territorio di Occhiobello è infatti posto a monte di una strettoia in corrispondenza della quale erano e sono tuttora presenti, a breve distanza l'uno dall'altro, il ponte stradale sulla Strada Statale 16 ed il ponte ferroviario della linea Padova-Bologna. Entrambi questi manufatti di attraversamento hanno numerose pile in alveo, di notevoli dimensioni e ingombro trasversale. Tale riduzione della sezione di deflusso non può essere completamente compensata dall'aumento della velocità della corrente e viene pertanto a prodursi un innalzamento del livello idrico a monte.
Altra circostanza sfavorevole, seppur di importanza marginale, che viene richiamata dalla letteratura esistente quale concausa delle rotte, è la presenza dei forti venti di scirocco che soffiavano quel tragico 14 novembre. A tale fattore si imputa un incremento del livello dell'acqua in sponda sinistra, posta a nord rispetto al fiume, cioè in direzione di vento, pari a 20 ÷ 30 centimetri rispetto a quella destra.
Un ulteriore effetto negativo prodotto dai venti meridionali è stato quello di determinare l'innalzamento del livello di marea nell'Adriatico settentrionale, con la registrazione a Venezia, alle ore 8:05 del 12 novembre 1951, di + 151 cm sul livello del medio mare, riducendo così la capacità di ricezione di quest'ultimo e quindi la velocità di deflusso del fiume verso il mare.
Per ultimo, ma certo non meno importante quale causa del disastro, va sottolineato il fatto che alcuni tratti dell'argine sinistro avevano quota sommitale depressa rispetto al livello teorico di sistemazione, calcolato in modo da garantire un determinato franco arginale (pari a 1,00 ÷ 1,50 m) sulla quota della massima piena di riferimento, che allora era quella del 1926.
Le ragioni di detti mancati adeguamenti sembrano da addebitare alla carenza di fondi disponibili per finanziare i lavori; fondi più volte richiesti dal Genio Civile di Rovigo ma mai erogati in maniera sufficiente dal Magistrato alle Acque e dal superiore Ministero dei Lavori Pubblici.
Cronaca dell'evento
Già nel corso della mattinata del giorno 14 novembre 1951, in più tratti dell'argine sinistro del fiume Po, quelle a quota depressa, iniziarono le tracimazioni. Mentre alcune di esse poterono essere contenute grazie ai lavori tumultuari attuati dai volontari e dai cooptati, per altre il tentativo di contenimento, per l'estesa dei tratti interessati a fronte della scarsità di uomini disponibili, si rivelò ben presto disperato. Come detto sopra, si dovette riscontrare, complice la falsa notizia di una rotta a Bergantino oltre all'immaginabile paura e al panico prodotti dall'inizio dei sormonti, l'abbandono pressoché totale dei lavori di sopralzo arginale sulla tratta Occhiobello – Canaro. Giunti a questo punto, il tragico evolversi degli eventi era segnato: le acque tracimate, stramazzando lungo il corpo arginale, ne determinarono ben presto l'erosione sino al suo totale sfondamento.
Poiché le testimonianze dirette discordano, quella che segue è la ricostruzione cronologica degli eventi più accreditata.
Pur non esistendo un'univoca cronologia degli eventi, si riporta qui la sequenza oraria più accreditata secondo cui sono avvenute le rotte. La cosa certa è che le tre rotte si sono succedute in un brevissimo arco temporale. Peraltro, la quasi simultaneità degli eventi è una condizione necessaria del loro stesso verificarsi in forma multipla in ragione del altrove citato effetto svuotamento che la prima rotta determina e che avrebbe impedito un succedersi più dilatato delle tracimazioni successive. In altre parole, le rotte dovevano avvenire necessariamente in modo quasi simultaneo in quanto, viceversa, l'abbassamento del livello idrometrico in seguito al verificarsi del primo evento ne avrebbe evitato il ripetersi e l'intera esondazione sarebbe avvenuta da una sola bocca di rotta.
Alle ore 19.45 del 14 novembre, l'argine maestro del fiume Po ruppe a Vallone di Paviole, in Comune di Canaro. Alle ore 20.00 si verificò una seconda rotta in località Bosco in Comune di Occhiobello. La terza falla si produsse poco più tardi, alle ore 20.15 circa, in località Malcantone dello stesso comune. La massa d'acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane. Si calcola che la portata complessiva delle rotte sia stata dell'ordine dei 7.000 m³/s (6.000 m³/s secondo alcune stime, più di 9.500 m³/s secondo altre) a fronte di una portata massima complessiva del fiume stimata in quell'occasione in circa 12.800 m³/s.
In pratica, circa 2/3 della portata fluente, anziché proseguire la sua corsa verso il mare entro gli argini del fiume, si riversò sulle campagne e sui paesi. Come peculiare effetto di ciò si produsse, immediatamente dopo le rotte, un repentino decremento del livello idrometrico del fiume, riscontrato nelle stazioni di misura di monte e di valle: tale fenomeno si definisce “effetto svuotamento”.
Ebbe quindi inizio una catastrofe di enormi proporzioni le cui ripercussioni si riflettono sino ai nostri giorni, segnando per sempre la storia del Polesine. Fu essa infatti, per estensione delle terre allagate e per volumi d'acqua esondati, la più grande alluvione a colpire l'Italia in epoca contemporanea.
Gestione dell'alluvione
La gestione del “dopo” non fu migliore di quella del “prima”. Considerata la totale impossibilità, dati i mezzi e le risorse dell'epoca, di rimarginare subito le rotte, l'unica azione idraulicamente valida al fine di fronteggiare i loro effetti era quella di favorire il deflusso più rapido possibile delle acque verso il recettore finale, il mare. Ben conscio di ciò, l'allora Ingegnere Capo del Genio Civile di Rovigo, Ing. Mario Sbrana, si attivò immediatamente presso il Prefetto al fine di segnalare la necessità dell'apertura di idonei varchi sugli argini della Fossa Polesella che si opponevano, come primo ostacolo, al libero deflusso delle acque verso il mare. La Fossa Polesella era un corso d'acqua che metteva allora in comunicazione, ai fini della navigazione, il fiume Po, dall'abitato di Polesella appunto, al Canalbianco, all'altezza di Bosaro.
La specifica conformazione idrografica del Polesine avrebbe infatti consentito il convogliamento delle acque di rotta verso il mare delimitandone l'esondazione entro la fascia compresa tra l'argine sinistro del fiume Po, a sud, e quello destro del Canalbianco, a nord, risparmiando le restanti terre dall'allagamento. Come annunciato dall'Ing. Sbrana, già 7 ore dopo la rotta le acque di esondazione si attestavano sull'argine ovest della Fossa Polesella. Qui ha inizio un altro triste capitolo della gestione dell'alluvione del '51 con un'inverosimile querelle tecnico-istituzionale che lascia tuttora sbalorditi.
Il Prefetto, Umberto Mondio, insediatosi a Rovigo da pochi giorni (l'11 ottobre 1951), in arrivo da una città del sud, e quindi proiettato in un contesto ed in una situazione del tutto particolari e a lui sconosciuti, di fronte alla richiesta del dirigente del Genio Civile di “far saltare” la Fossa Polesella con l'uso di cariche esplosive, tergiversò. Il responsabile del Genio Civile, consapevole dell'urgenza di dare esecuzione a tale operazione e conoscendone la difficoltà pratica, chiese addirittura l'immediato bombardamento di quell'ostacolo da parte dell'aviazione. L'operazione, per l'opposizione del Prefetto (e non solo sua), non fu attuata. A complicare il quadro già difficile si era costituito una sorta di “partito del no”, assolutamente contrario al taglio degli argini della Fossa Polesella, formato dai sindaci dei comuni posti a est di detto corso d'acqua appoggiati dai relativi abitanti.
La tesi da essi sostenuta, che la Fossa potesse fungere da baluardo alle acque, era tecnicamente del tutto infondata ma, ciononostante, trovò una parziale sponda nelle decisioni del Prefetto. Egli infatti ritenne che un ritardo nel taglio della Fossa avrebbe consentito un più agevole sfollamento delle aree poste a Est che sarebbero servite al passaggio delle acque. Ciò nella realtà non avvenne in quanto le popolazioni, spesso capeggiate dai propri sindaci, si opposero con ogni mezzo all'abbandono delle case e delle terre.
Nel conteso dell'infuocato clima di contrapposizione politica che caratterizzava la realtà polesana, come quella italiana, a quell'epoca, si tende ad attribuire ad un'azione di capillare propaganda politica attuata dal Partito comunista italiano locale, l'atteggiamento assunto dalle popolazioni contro il taglio della Fossa. La resistenza al pur necessario e improcrastinabile intervento idraulico giunse al punto di vedere uomini armati sugli argini della Fossa e dello stesso Canalbianco (era ormai opportuno procedere anche al taglio dell'argine destro di quest'ultimo, a valle della confluenza della Fossa, per scongiurare il cedimento, poi puntualmente verificatosi, di quello sinistro) risoluti ad impedire il taglio finanche con l'uso della forza.
Il trascorrere del tempo in assenza del necessario taglio si rivelò quindi non solo inutile bensì gravemente dannoso. Le acque di esondazione infatti, non trovando alcuno sfogo verso il mare, furono costrette a rincollare verso monte raggiungendo località quali Castelnovo Bariano, Bergantino, Castelmassa, Salara ed altre dell'Alto Polesine che sarebbe restate invece immuni dagli effetti della rotta. Il livello delle acque esondate, confinate nel bacino determinato dall'argine sinistro del Po, da quello destro del Canalbianco e da quello occidentale della Fossa, sotto il continuo apporto delle rotte, non poté che aumentare sino a sormontare naturalmente quest'ultimo e a riversarsi comunque all'interno del suo alveo.
Questo le convogliò con furia inusitata verso il Canalbianco il quale, a causa dell'allora esistente sostegno di Bosaro, non fu in grado di farle defluire a valle con la necessaria rapidità.
Il rigurgito dell'onda di deflusso si proiettò quindi verso monte sino a raggiungere il vicino ponte ferroviario di Arquà Polesine, sulla linea Padova – Bologna, di cui erose il contornamento delle testate rompendo l'argine di sinistra.
Ciò aprì la strada alle acque verso Rovigo, centro naturalmente preposto alla gestione dell'emergenza e quartier generale di tutte le attività di coordinamento dei soccorsi, distribuzione degli aiuti e smistamento dei profughi. Ultimo baluardo a difesa del centro di Rovigo si rivelò l'Adigetto, traslato solo 15 anni prima dall'asse mediano della città alla circonvallazione ovest.
Solo il 24 novembre 1951 il Genio civile fu in grado, dopo ripetuti inefficaci tentativi, di aprire, con circa 5.000 kg. di tritolo, alcune brecce sufficientemente ampie sull'argine orientale della Fossa. La tardività di questo intervento fece sì che il Canalbianco, data l'incontenibile massa d'acqua che in esso si convogliava, oltre che ad Arquà, cedesse prima a Sant Apollinare poi a Villamarzana e quindi in località Retratto in comune di Adria inondando la città stessa, che all'epoca contava circa 35.000 abitanti, e che si trovò quindi completamente isolata.
Sulla strada finalmente aperta verso il mare, le acque trovarono come secondo consistente ostacolo trasversale gli argini del canale di navigazione Po – Brondolo che tutt'oggi mette in comunicazione il Po con la Laguna di Venezia, incrociando Canalbianco e Adige. Anche in questo caso le acque dovettero sormontare l'ostacolo senza l'aiuto di intervento umano.
Ciò produsse il loro rincollo verso monte nella porzione territoriale compresa tra il Canalbianco e l'Adige. Si assistette quindi all'allagamento del Cavarzerano e di tutta l'area nord orientale del Polesine e al rigurgito delle acque, attraverso gli alvei del canale di bonifica Botta Rovigata e del Ceresolo, che avevano invertito il loro corso, verso il capoluogo. Solo l'intervento del Genio civile, che ne fece saltare gli argini, impedì che le acque risalissero sino a ovest della Strada statale 16 Adriatica, sul rilevato della quale comunque le acque si attestarono.
L'ultimo ostacolo alla discesa delle acque esondate verso il mare fu costituito dalla linea delle dune costiere e degli argini a mare che separano le valli, le paludi e le basse terre del Delta dal Mare Adriatico. Anche in questo caso il superamento dell'ostacolo avvenne per rincollo delle acque e sormonto. Ciò ha causato, per l'innalzamento del livello dell'acqua, l'allagamento, oltre che di Rosolina, dei due grossi centri abitati di Contarina e Donada, oggi riunificatisi sotto l'antico toponimo di Porto Viro.
Le uniche porzioni del territorio polesano a non essere sommerse dalle acque sono quindi state l'area nord occidentale compresa tra il corso dell'Adige e quello del Canalbianco sino alla linea che li congiunge formata da Naviglio Adigetto – Canale Scortico, alcune aree (quelle poste a quota più elevata) dell'Alto Polesine a sud del Canalbianco e le isole del Delta ad eccezione di quella ove ricade l'attuale Porto Viro, invece inondata.
La chiusura delle rotte
In seguito al verificarsi delle rotte, per un periodo di circa 15 giorni, non fu possibile intraprendere alcun intervento riparatore; ciò sia a causa dell'impeto delle acque in fuoriuscita dai varchi arginali, che di fatto impediva l'avvicinamento dei mezzi natanti, che per la totale impraticabilità delle arterie viarie della zona interessata.
Solo in data 30 novembre, con notevole sprezzo del pericolo, i tecnici dell'Ufficio idrografico del Magistrato alle Acque furono in grado di eseguire i rilievi batimetrici delle bocche di rotta. In seguito a questa prima cognizione dello stato dei luoghi fu possibile affidare a tre diverse Imprese, una per ciascuna rotta, le opere di pronto intervento finalizzate ad arrestare la fuoriuscita delle acque e a innalzare progressivamente le soglie di rotta. I tre interventi furono affidati ad imprese di fiducia che garantivano idonee capacità tecniche ed organizzative; più precisamente, l'intervento in località Malcantone fu affidato all'Impresa Ing. Carlo Mazzacurati di Padova, quello in località Bosco all'Impresa Astaldi S.p.A. di Roma e quello in località Vallice all'Impresa Vittorio Marchioro di Vicenza. I lavori di somma urgenza consistettero nella chiusura dei varchi arginali mediante costruzione di coronelle in pietrame in asse alle arginature abbattute. Furono fornite 136.600 t. circa di pietrame per un volume dato in opera di 105.000 m³.
A completamento delle opere di primo intervento, fu realizzato uno speciale coronamento dei manufatti di interclusione mediante la costruzione di una gabbionata cellulare continua contro i pericoli di eventuale sormonto delle coronelle. Queste ultime opere furono affidate ed eseguite dalla Ditta C.E.F.A. di Bologna.
Il costo complessivo dei lavori realizzati in regime di somma urgenza fu pari a £ 767.312.739 (£ 300.000.000 per la rotta di Bosco, £ 279.138.112 per quella di Malcantone, £ 102.495.792 quella di Vallice, £ 85.678.835 per la gabbionata). Nel frattempo il Genio Civile di Rovigo provvedeva a redigere il progetto per la chiusura definitiva delle rotte. Esso fu presentato, a firma dell'Ing. Vincenzo Pavani, in data 25 dicembre 1951. Esso prevedeva, per le due rotte contigue di Malcantone e Bosco, la costruzione di un unico arco arginale in arretramento di circa 160 m rispetto al precedente asse arginale. Ciò consentiva la formazione di un ampio bacino di calma per le acque di piena tra le coronelle e il nuovo argine garantendo una protezione del nuovo manufatto dagli effetti erosivi della corrente. Il nuovo argine in località Vallice fu invece progettato e realizzato sullo stesso asse di quello abbattuto. In base al progetto, il rilevato arginale, per tutte e tre le rotte, venne costruito in tre successive fasi mediante la formazione di nuclei progressivamente più potenti ed elevati. Il rilevato fu animato da una palancolata in acciaio continua di altezza variabile da 8 a 14 metri. Il volume complessivo dei nuovi rilevati fu di circa 1 milione di metri cubi. All'unghia a fiume del nuovo rilevato fu prevista la costruzione di una berma di protezione in pietrame su cui posava la superiore scogliera di difesa spondale.
L'aggiudicazione dei lavori, per trattativa privata, avvenne in data 27 dicembre 1951 con affidamento degli stessi alle medesime Imprese esecutrici degli interventi urgenti e per un costo complessivo, a consuntivo, di £ 2.183.953.261 (£ 1.124.857.261 per Bosco, £ 755.096.000 per Malcantone e £ 304.000.000 per Vallice). I lavori, consegnati in data 5 gennaio 1952 furono ultimati in data 15 giugno 1952 a Vallice, 2 agosto 1952 a Malcantone e 6 settembre 1952 a Bosco. Occorsero complessivamente 320.000 giornate-operaio.
Alcuni dati salienti
Le tre bocche di rotta misuravano, ad evento concluso, 220 m quella di Vallone di Paviole, 204 m quella in località Bosco e 312 m quella di Malcantone.
Esse sono state attive dal giorno 14 novembre al 20 dicembre 1951, cioè per complessivi giorni 37.
La loro portata complessiva è passata dagli iniziali 7.200 m³/s. ai circa 1.500 m³/s. degli ultimi giorni di attività. È da far notare che il giorno 27 novembre, a ben due settimane dalle rotte, la loro portata era ancora di oltre 3.200 m³/s.
Il volume d'acqua complessivamente effluito dalle rotte è stato pari a 8 x 109 m³, ovvero otto miliardi di metri cubi.
Il massimo volume invasato sul suolo polesano, quello cioè accumulatosi sul territorio dal momento della rotta a quello dell'inizio dello scarico a mare, verificato il 21 novembre alle ore 13.26, è stato calcolato in 3,128 x 108 m³, cioè tre miliardi e 128 milioni di metri cubi.
La superficie allagata è stata di oltre 100.000 ha, pari a circa il 52% del territorio dell'intero Polesine, compreso il Cavarzerano (VE).
Il numero delle vittime umane è stato di circa cento, ben 89 delle quali nel solo episodio del cosiddetto "Camion della morte" che vide l'automezzo carico di fuggiaschi sorpreso dall'inondazione la notte del 14 novembre a Frassinelle. Recenti studi sembrano tuttavia attestare che non tutti gli 89 corpi ritrovati siano da collegarsi alla sciagura del camion. In frazione Passo del comune di Frassinelle Polesine è visitabile il sacrario di San Lorenzo, piccolo cimitero dedicato alle 84 vittime del "camion della morte".
Il numero dei profughi costretti a lasciare le proprie abitazioni fu compreso tra 180.000 e 190.000 unità.
Andarono perduti 6.000 capi di bestiame bovino. Incalcolabile il numero degli altri animali d'allevamento deceduti.
Dal 1951 al 1961 lasciarono in modo definitivo il Polesine 80.183 abitanti, con un calo medio della popolazione del 22%. Al 2001 abbandonarono il Polesine oltre 110.000 persone. In molti comuni il calo superò, dal '51 all'81, il 50% della popolazione residente.
Solidarietà
Un capitolo a parte merita la solidarietà, nazionale e internazionale, che si espresse nei confronti della popolazione polesana a seguito del tragico evento. Vi è da dire che subito al propagarsi della notizia della catastrofe, moltissime associazioni, partiti politici, sindacati, gruppi formali ed informali, privati cittadini di ogni condizione sociale e orientamento politico non mostrarono il minimo indugio ad attivarsi al fine di garantire la propria solidarietà e il proprio concreto aiuto alle popolazioni colpite. Complice l'ancora acceso ricordo delle tragiche circostanze e delle drammatiche condizioni di vita che contraddistinsero l'appena concluso evento bellico e la conseguente facile identificazione dei più nella difficilissima situazione, materiale e psicologica, in cui venivano a trovarsi gli abitanti del Polesine, la profusione di aiuti che l'Italia e il mondo elargirono fu straordinaria, commovente.
Essa si manifestò non solo nella raccolta di fondi e di beni a favore del Polesine ma anche e soprattutto nell'intervento diretto di moltissimi volontari che, abbandonate le loro case sicure, non indugiarono neppure un giorno a mettersi a disposizione, in prima persona, della macchina dei soccorsi. Inoltre, moltissime famiglie in tutta Italia aprirono le porte delle proprie case agli sfollati e ai profughi che poterono così trovare non solo un tetto sotto il quale rifugiarsi ma anche una solidarietà umana diretta, non filtrata né mediata da apparati burocratici, ma immediata e concreta, fatta di volti e di persone.
Più di un autore, in merito alla eccezionale solidarietà espressa nei confronti dei polesani, non tralasciò di sottolineare un tratto che potremmo definire etnoantropologico che caratterizzava proprio i polesani del tempo: un retaggio storico segnato da grande povertà sembra essere all'origine dell'estrema semplicità culturale e materiale, dell'inesistenza di malizia e sofisticazione, della grande genuinità ai limiti dell'ingenuità che fu tratto saliente di questa popolazione; ciò non fece che attirare la simpatia e la benevolenza di chi vi ebbe a che fare. Tantissimi polesani non fecero ritorno alla propria terra di origine anche perché i loro ospiti, specialmente nel triangolo industriale Torino – Milano – Genova, vollero tenerli con sé per lavorare nei laboratori e nelle fabbriche dell'emergente realtà industriale italiana.
Sul piano istituzionale, la prima entità ad attivare interventi di aiuto alla popolazione fu il Comitato Provinciale per l'Emergenza, immediatamente costituito e presieduto dal Presidente della Provincia Alfredo De Polzer. Ciò indusse il Prefetto di Rovigo, Mondio, che evidentemente si sentì scavalcato da tale intraprendenza, già pochi giorni dopo la costituzione del suddetto Comitato, a sopprimerlo, con la motivazione che ogni aiuto e intervento doveva passare, anche per questioni di ordine pubblico, attraverso il coordinamento della Prefettura. È in realtà evidente come, anche sul piano degli aiuti alla popolazione, si innescò una contrapposizione di carattere politico-ideologico: gli aiuti attivati dal Comitato per l'Emergenza avevano alla spalle la macchina organizzativa afferente al Partito comunista italiano, alle Camere del lavoro e alle principali organizzazioni sindacali. Quelli governativi rappresentarono invece la capacità di reazione e intervento della Democrazia Cristiana, strettamente fiancheggiata dalle ACLI e dall'associazionismo cattolico in genere.
Anche su scala mondiale si verificò un'analoga contrapposizione con una vera e propria gara di solidarietà tra Unione sovietica e paesi del blocco socialista, da una parte, e americani dall'altra. Tutti i convogli di aiuti in arrivo in Polesine portavano l'indicazione, a caratteri cubitali, della nazione donatrice. In quell'epoca di guerra fredda e competizione politica dagli esiti tutt'altro che scontati, tutto poteva servire a tirare acqua al proprio mulino. Tale competizione, più o meno politicamente interessata, nell'elargizione degli aiuti a livello nazionale e sovranazionale non deve comunque in alcun modo sminuire la vera e gratuita solidarietà, espressa nelle più varie forme, dalle popolazioni, quella italiana, europea e mondiale, mosse a ciò da autentici sentimenti di identificazione, condivisione e compassione.
Il prosciugamento delle terre
A fronte di una situazione così disastrosa e di una altrettanto disastrosa gestione della piena del fiume Po e del periodo immediatamente successivo all'apertura delle rotte da parte delle istituzioni preposte (Genio Civile, Prefettura e Amministrazione Provinciale), il prosciugamento delle terre rappresentò invece un capitolo positivo del dopo emergenza e consentì di recuperare a coltura in tempi record la maggior parte delle terre colpite.
Già nel giugno del 1952 fu possibile la semina di gran parte delle terre riemerse dalle acque a seguito del loro rapido prosciugamento e della loro bonifica dai potenti strati di sedimenti sabbiosi e limosi che in alcune aree le ricoprivano. Sotto questo profilo va dunque elogiata l'imponente opera attuata dai Consorzi di Bonifica territorialmente interessati (all'epoca ben 46, coordinati nei Consorzi di 2º grado della Bonifica Padana e della Bonifica Polesana), per la circostanza riuniti nel Consorzio generale per la Ricostruzione delle Bonifiche Polesane, nel ripristinare l'officiosità dei corsi d'acqua di scolo, gli impianti di sollevamento, nell'approntare nuove idrovore e nel sovrintendere alla realizzazione di quelle innumerevoli opere di tagli arginali e convogliamenti idrici che sono risultati necessari a favorire il più rapido deflusso delle acque esondate verso i ricettori finali.
La ricostruzione
Nel contesto delle considerevoli opere di riparazione, sistemazione e ricostruzione delle infrastrutture del territorio, delle abitazioni, delle attività produttive realizzate in Polesine al termine dell'alluvione, non possiamo tacere la grande opera di coordinamento e sprone attuata dal Commissario di governo On. Giuseppe Brusasca. Egli operò in Polesine dal dicembre del 1951 al febbraio 1956.
La sua presenza a Rovigo fu importante non solo per il carattere plenipotenziario della sua carica che consentì il superamento se non il travolgimento di tutti gli ostacoli burocratici che si frapponevano ad una rapida ricostruzione ma favorì anche e soprattutto la nascita di un clima collaborativo tra Prefettura e Amministrazione Provinciale, la prima espressione del governo democristiano, la seconda retta da una giunta formata da comunisti e socialisti.
Più in generale Brusasca seppe porre in primo piano il fare, contagiando e coinvolgendo con il suo attivismo tutte le altre figure fondamentali nell'attività di ricostruzione ed opponendosi ad ogni contrapposizione di tipo ideologico o anche solo idealista. Seppe mettere d'accordo le due anime politiche del tempo dimostrando in questo una grande intelligenza politica e mostrando altresì un notevole spessore personale.
Analogamente, il prof. Alfredo De Polzer, l'allora Presidente della Provincia, seppe appianare i contrasti che spesso scoppiavano in seno al Consiglio provinciale e favorire il dialogo tra opposti schieramenti. Anche questo, data la centralità di tale Ente nelle funzioni di gestione amministrativa e ancor prima politica del territorio (ricordiamo che all'epoca non esistevano ancora le Regioni), si rivelò essere fondamentale nel consentire la rinascita del Polesine dalle pesanti conseguenze dell'alluvione.
Conseguenze a breve e a lungo termine
Per meglio comprendere quelle che sono state le immediate e secondarie conseguenze dell'alluvione del 1951 sui territori colpiti è necessario contestualizzare l'evento. Esso infatti si verificò a soli sei anni dalla fine del sanguinoso II conflitto mondiale che aveva visto l'Italia soccombente e aveva lasciato il Paese in condizioni di grande indigenza e distruzione.
Il clima politico era estremamente conflittuale, con una fortissima contrapposizione tra DC, che all'epoca guidava il Governo centrale, e PCI che, insieme ad altre forze di sinistra, governava il Polesine e la maggioranza dei Comuni rivieraschi del Po. Un clima che avrebbe potuto favorire, come in certe questioni favorì, la speculazione politica fine a sé stessa, compromettendo il buon esito degli sforzi congiunti necessari ad affrontare la crisi prodotta dall'alluvione e a risollevare le sorti delle terre colpite. La querelle sul mancato tempestivo taglio della Fossa Polesella potrebbe essere portato come esempio dei gravi effetti negativi prodotti da questa dura contrapposizione politica.
Il Polesine, inoltre, come terra prevalentemente agricola, risentì in modo ancor più grave della inevitabile carestia prodotta dall'inaccessibilità delle terre allagate. Se le conseguenze a breve poterono essere affrontate con buon esito grazie alla rapidità con la quale si rimise a coltura la maggior parte delle terre e all'abbondanza degli aiuti giunti da tutta Italia, ma anche dall'estero, quelle a lungo termine furono forse più pesanti.
Moltissime delle famiglie polesane sfollate in seguito all'Alluvione del 1951 non fecero più ritorno. Complice una riforma agraria non ancora del tutto dispiegata, specie nel basso polesine, con il perdurare di ampie aree ancora a latifondo e una scarsa distribuzione della proprietà agraria, pochi polesani emigrati a seguito dell'Alluvione del '51 trovarono un valido motivo per fare ritorno alle proprie terre d'origine.
Altro fattore fondamentale nel processo di spopolamento che ha interessato il Polesine a seguito dell'alluvione fu senza dubbio il rapido processo in meccanizzazione che in quegli anni investiva il settore agricolo. In una provincia come quella di Rovigo, dove la percentuale della popolazione ancora impiegata in agricoltura era molto alta e il bracciantato molto diffuso, la brusca riduzione del fabbisogno di manodopera in questo settore dovuta all'avvento della meccanizzazione fu particolarmente impattante sul piano economico e sociale.
La curva dell'andamento demografico del Polesine vide nel 1951 il punto massimo, con l'inversione del trend positivo che l'aveva caratterizzata nel lungo periodo precedente. Solo nel decennio 1951 – 1961 la popolazione del Polesine si ridusse di oltre 80.000 unità. Lo spopolamento del Polesine, iniziato nel 1951, si è protratto sino ai nostri giorni e solo dal 2001, per la prima volta dopo il 1951, la popolazione polesana ha visto un incremento numerico.
Più esattamente, la popolazione della Provincia di Rovigo nel censimento del 1951 risultava pari a 357.963 unità a fronte delle sole 242.538 presenti nel 2001, con un decremento complessivo del 32%. Circa un abitante su tre lasciò il Polesine dopo l'inondazione anche se non esclusivamente a causa di questa. Nel 2007 la popolazione residente era pari a 246.255, con il primo aumento registrato in 50 anni.
Oltre alle problematiche oggettive che hanno interessato il Polesine a seguito dell'Alluvione del 1951, ad essere causa dell'abbandono di questi territori da parte delle sue genti è certamente stata la durezza delle condizioni di vita ancora qui perduranti, così strettamente legate all'attività agricola, all'epoca pressoché interamente manuale.
I processi di incipiente industrializzazione e conseguente urbanizzazione che riguardavano già in quegli anni le grandi città del nord insieme alla forte emigrazione verso altri paesi europei, favorì un rapido spopolamento del territorio provinciale.
Anche la vulnerabilità idraulica di questo estremo lembo di Pianura Padana è stato e forse è tuttora ostacolo, ancor più sul piano psicologico che su quello reale, al ripopolamento, all'attrazione di investimenti e al rilancio economico di questi territori che, va ricordato, appartengono pur sempre al Veneto, regione trainante del ricco Nordest.
Solo oggi, con il cessare dell'emorragia migratoria e la timida diversificazione economica dal settore primario, con la nascita di alcune realtà produttive nel settore della piccola industria, dei servizi e del turismo, il Polesine sembra in grado di affrancarsi definitivamente da un cinquantennio profondamente segnato dall'Alluvione del 1951 e dalla sue conseguenze.
fonte: Wikipedia
FILMATO
30/01/15
nello sguardo di due fotografi boemi
una mostra deliziosa, vista quasi per caso, scovata su Vivi Milano del Corriere della Sera, visitata per interesse alla fotografia e per contiguità della sede della mostra allo studio del mio analista, e anche per dilatazione del mio tempo.
vedi un po' la casualità delle occasioni nella vita.
è una mostra di fotografie allestita presso il centro Ceco di Milano. ed è già questa una gran curiosità.
si tratta di due fotografi boemi, uno dell'800 e l'altro contemporaneo che hanno fotografato l'Italia a distanza di quasi un secolo.
le località, le occasioni, gli incontri, le persone, i gruppi, i paesaggi, gli angoli, le città, si ripropongono nello sguardo dei due fotografi e qualcuno, di cultura ceca, pensa bene di accostarle. una medesima provenienza e un'identica meta, l'Italia e la sua gente, la sua bellezza, la sua allegria, la sua gioia di vivere.
nel primo artista, František Krátký (1851–1924), si ritrovano luoghi ormai persi, resoconti di antichi viaggi per il diletto di famiglie borghesi, immortalati su fotogrammi stereoscopici su vetro e valorizzati con ritocchi di colore.
nel secondo, Pavel Kopp (1940), fotografo non professionista dal 1967, si ritrovano gli stessi luoghi a distanza di un secolo, fissati in bianco e nero con grande indulgenza, tenerezza e umorismo. e anche bravura.
diceva, nel 1983: "l'Italia è più di un paese, è un'emozione".
diceva, nel 1983: "l'Italia è più di un paese, è un'emozione".
ed eccoli insieme, a raccontare un po'della nostra storia, momenti italiani fissati nel tempo, un po' di commozione, lo devo dire.
František Krátký, Mulini sull'Adige, 1897, Sotto: Pavel Kopp, Gargano, 1975.
František Krátký, Firenze, Fontana sul Ponte Vecchio, 1897. A destra: Pavel Kopp, Firenze, sul Ponte Vecchio, 1975.
František Krátký, Carrara, presso le cave di marmo, 1897. A destra: Pavel Kopp, Abruzzo, 1974
František Krátký, Roma, ambulanti, 1897. A destra: Pavel Kopp, Roma, Piazza Navona, 1975
František Krátký, Napoli, botteghe a Porta Capuana, 1897. A destra: Pavel Kopp, Napoli, Piazza Dante, 1975
Il Centro Ceco di Milano presenta la mostra “K & K – František Krátký e Pavel Kopp, due sguardi sull'Italia. Un secolo di fotografia nelle immagini di due boemi”, in programma da giovedì 22 gennaio, presso la Galleria del Centro Ceco.
Dalla collezione del CRAF (il Centro di Ricerca e di Archiviazione della Fotografia di Spilimbergo) nasce questo progetto unico che, ad un secolo di distanza, segue il cambiamento urbano di varie località italiane e, in questo modo, rappresenta anche un esempio di studio urbanistico e sociale tra la fine dell'Ottocento e gli ultimi decenni del Novecento.
Ad una selezione di quaranta inquadrature italiane del celebre fotografo boemo František Krátký (1851–1924) sono state accostate altrettante inquadrature, riprese negli stessi luoghi, a circa un secolo di distanza, da Pavel Kopp (1940). A distanza di quasi un secolo, essi ci permettono un memorabile confronto umano ed artistico nell’interpretazione del territorio e della società del nostro Paese. Gli accostamenti di soggetti simili ci faranno riflettere sulle costanti visive – nel tempo – dei nostri gesti e dei nostri comportamenti.
Kratký, affermato fotografo-pittore di Kolín (cittadina boema del regno austro-ungarico), ha realizzato e venduto per anni migliaia di fotogrammi stereoscopici su vetro, da osservare nei tipici visori binoculari che offrivano l’illusione prospettica. Erano resoconti suggestivi di viaggi in tutta Europa, destinati ai privati svaghi culturali di moltissime famiglie. Nel 1897 Kratký compie il suo reportage in Italia. Oltre a Roma, tocca Napoli, Firenze, Pisa, Genova, Torino, Milano, Verona, il Garda, Padova, Venezia, la Dalmazia. Tornato a Kolin, aggiunge a molti dei fotogrammi stereo in bianconero una delicata colorazione manuale – sempre in trasparenza – che ne accresce il valore, e che si è conservata fino ad oggi.
Ad una selezione di quaranta inquadrature italiane di Kratký, ne sono state accostate altrettante, riprese in Italia tra gli anni 70 ed 80 del secolo scorso da Pavel Kopp (1940). Dopo gli studi di ingegneria a Praga, viaggia in Italia, patria di lontani membri familiari ed espone a Milano nel 1975 la sua prima serie di Momenti Italiani. Riconosciamo nelle sue inquadrature l’affetto che lo lega all’Italia, ed anche l’attenzione critica e l’ironia presente nella cultura mitteleuropea. Non è mai stato fotografo professionista. Le sue immagini sono presenti nell’archivio del CRAF e nel Museo Nazionale della Fotografia Ceca.
fonte: nuovateoria.blogspot.it
29/01/15
Adolf Eichmann
Otto Adolf Eichmann è stato un paramilitare e funzionario tedesco, considerato uno dei maggiori responsabili operativi dello sterminio degli ebrei nella Germania nazista.
Col grado di SS-Obersturmbannführer era responsabile di una sezione del RSHA; esperto di questioni ebraiche, nel corso della cosiddetta soluzione finale organizzò il traffico ferroviario che trasportava gli ebrei ai vari campi di concentramento. Criminale di guerra, sfuggito al processo di Norimberga, si rifugiò in Argentina, ma venne poi catturato dal Mossad, processato e condannato a morte in Israele per crimini contro l'umanità.
Infanzia e inizi
Otto Adolf Eichmann nacque a Solingen, nella Germania settentrionale, figlio di Adolf Karl Eichmann e Maria Schefferling. Nel 1914, dopo la morte della madre, la famiglia si trasferì a Linz, in Austria. Durante il primo conflitto mondiale il padre di Eichmann servì nell'esercito austro-ungarico per poi tornare ai propri affari a Linz quando la guerra finì.
Eichmann abbandonò la scuola superiore (Realschule) senza essersi diplomato e iniziò un corso per diventare meccanico ma abbandonò anche questo per iniziare, nel 1923, a lavorare presso l'azienda di estrazione mineraria di proprietà del padre. Tra il 1925 e il 1927 Eichmann trovò impiego come agente commerciale presso l'Oberösterreichische Elektrobau AG. Passato a lavorare come agente distrettuale per la Vacuum Oil Company AG, una sussidiaria della Standard Oil, Eichmann rientrò in Germania nel luglio 1933.
Eichmann, che non aveva mai mostrato particolare interesse verso la politica, cominciò a partecipare a manifestazioni e raduni di partiti politici che in quegli anni si svolgevano numerosi dappertutto sia in Germania che in Austria e, durante una manifestazione della NSDAP, incontrò un vecchio amico di famiglia, Ernst Kaltenbrunner, entrando così a far parte delle SS alle sue dirette dipendenze.
Ruolo nelle deportazioni
« All'occorrenza salterò nella fossa ridendo perché la consapevolezza di avere cinque milioni di ebrei sulla coscienza mi dà un senso di grande soddisfazione. Mi dà molta soddisfazione e molto piacere »
(Adolf Eichmann)
La svolta nella vita di Eichmann fu probabilmente rappresentata dalla lettura di un libro, Lo stato ebraico di Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista.
Affascinato dalla conoscenza del nemico, Eichmann intuì che una reale possibilità di fare carriera all'interno delle SS fosse proprio quella di presentarsi come esperto di ebraismo e sionismo e arrivò persino, nel 1937, a recarsi in Palestina dove, sotto copertura, visitò Haifa e diversi Kibbutz, prima di essere scoperto dai britannici (la Palestina era Mandato britannico) ed espulso.
Nonostante sia stato spesso presentato, anche per sua esplicita dichiarazione, come un grigio burocrate che esguiva solamente gli ordini dei gerarchi importanti (come Himmler o Heydrich o lo stesso Hitler) e così è descritto anche da Hannah Arendt, era in realtà un fervente antisemita; secondo la scrittrice Bettina Stangneth, Eichmann e una sua guardia avrebbero persino picchiato a morte un bambino ebreo, colpevole di aver rubato delle ciliegie del suo giardino della casa di Budapest. Molti ebrei che lo conobbero riferirono inoltre del suo violento disgusto verso di loro.
La grande occasione per Eichmann di distinguersi agli occhi dei capi delle SS e dei pezzi grossi del partito nazista arrivò nel 1938 quando, in seguito all'Anschluss, si ritenne necessario provvedere all'espulsione degli ebrei austriaci dal territorio annesso al Reich. Si insediò a Vienna, nell'ex palazzo del barone ebreo Philip de Rothschild, costituendo l'Ufficio centrale per l'emigrazione ebraica (Zentralstelle für jüdische Auswanderung), un'agenzia dell'SD (Sicherheitsdienst, Servizio di sicurezza) nazista, il cui compito era quello di forzare ad emigrare il maggior numero possibile di ebrei austriaci. In merito all'evacuazione di Vienna, in cui gli ebrei vennero sistematicamente spogliati di ogni avere e costretti ad abbandonare precipitosamente il paese per tentare di salvarsi, Eichmann rivendicò con orgoglio la propria impresa, dicendo di avere fatto trottare i signorini cacciandone oltre 50.000 dall'Austria.
Fu in questo modo che Eichmann, promosso intanto ufficiale delle SS, divenne l'esperto degli spostamenti di massa degli ebrei e fu questo talento per l'organizzazione logistica che lo portò a ricoprire un ruolo estremamente importante nell'evoluzione degli eventi che portarono al genocidio. Il successo logistico di Eichmann fu talmente apprezzato che il capo dello SD, il servizio di sicurezza del Reich, Reinhard Heydrich, costituì un Ufficio centrale del Reich per l'emigrazione ebraica a Berlino perché provvedesse all'emigrazione forzata degli ebrei secondo il modello viennese.
Eichmann, diventato così il braccio destro dello specialista degli affari ebraici Heydrich, nel 1939 fu mandato a Praga per provvedere alla emigrazione forzata degli ebrei dalla Cecoslovacchia appena conquistata da Hitler. Qui le cose non furono così facili come a Vienna, perché Eichmann, al contrario che in Austria, non poté contare sulla collaborazione delle sue vittime, visto che ormai erano pochissimi i paesi disposti ad accogliere ebrei in fuga dall'Europa, quindi si rese necessario ammassare la popolazione nei ghetti dove fu decimata da fame, malattie e freddo.
Il riempimento dei ghetti fu l'anticamera dei campi di concentramento e, per Eichmann, il banco di prova per le deportazioni di massa verso i lager: nel gennaio del 1942, con la Conferenza di Wannsee (quartiere berlinese), i vertici nazisti decisero di procedere alla soluzione finale, e, dal marzo 1942, quando i carichi di deportati cominciarono a confluire verso i campi di concentramento di tutta Europa, Eichmann fu il coordinatore e il responsabile della macchina delle deportazioni, colui che materialmente provvedeva a organizzare i convogli ferroviari che trasportavano i deportati verso Auschwitz.
Eichmann fu dunque fino alla fine della guerra uno dei principali esecutori materiali dell'Olocausto, dirigendo personalmente le deportazioni degli ebrei ungheresi fino alla fine del 1944. Fu il padrone della vita e della morte di centinaia di migliaia di persone, ma non divenne mai membro dell'élite nazista e non ebbe mai, con suo grande rammarico, alcun peso in alcuna decisione strategica della politica o della guerra nazista, restando un efficiente ma oscuro burocrate, poco apprezzato anche dai suoi superiori e dai suoi commilitoni che gli rimproveravano una moglie non ariana e l'inclinazione all'alcol e alle donne.
Tuttavia la scarsa notorietà gli fornì, alla fine della guerra, la possibilità di far perdere le proprie tracce e nascondersi nelle campagne tedesche, dove rimase per cinque anni, prima di trovare rifugio, come molti altri nazisti, in Argentina.
Fuga in Sud America
Eichmann, come altri fuoriusciti nazisti (ad esempio Mengele, il dottor morte), nel giugno 1948 venne munito dal vicario di Bressanone, Alois Pompanin di documenti di identità falsi a nome Riccardo Klement, rilasciati dal Comune di Termeno e che asserivano la sua nascita nello stesso comune altoatesino. Nel 2007 è stato ritrovato, tra i documenti coperti dal segreto di stato in Argentina, il passaporto falso con il quale Eichmann lasciò l'Italia nel 1950: era intestato a Riccardo Klement, altoatesino, e rilasciato dalla Croce Rossa di Ginevra (il dottore Leo Biaggi de Blasis) in base alla testimonianza del padre francescano Edoardo Domoter.
Adolf Eichmann salpò alla volta del Sud America con la speranza di lasciarsi il passato alle spalle, ma con il sogno di poter fare un giorno ritorno in Germania. Le cose non andarono però come previsto da Eichmann e quello che sarebbe successo 10 anni dopo la sua fuga in Argentina era in qualche modo imprevedibile.
Il figlio di Eichmann frequentava una ragazza tedesca, a cui si era presentato col suo vero cognome e con cui si lasciò andare ad affermazioni compromettenti sul mancato genocidio; la ragazza informò la famiglia, e nel 1957 il padre, Lothar Hermann, un ebreo ceco sfuggito all'olocausto, collegato il cognome Eichmann al criminale nazista ricercato in tutto il mondo, informò il procuratore tedesco Fritz Bauer che passò l'informazione al Mossad. Si scoprì dunque che Adolf Eichmann si nascondeva a Buenos Aires. Dopo un lungo periodo di preparazione, il servizio segreto israeliano organizzò, nel 1960, un'operazione che portò al rapimento ed al segreto trasferimento (nel sistema giuridico argentino l'estradizione non era prevista) di Eichmann in Israele affinché venisse sottoposto a processo per i crimini di cui si era reso responsabile durante la guerra.
Al momento del rapimento (a pochi metri dalla sua residenza) un gruppo di operazione dei servizi segreti israeliani lo stava aspettando con la scusa di un problema meccanico della loro auto. Al sentire un momento, signore, Eichmann capì che si trovava nei guai, dato che era consapevole del fatto che fosse ricercato. Nonostante la sua resistenza, fu caricato sull'auto guasta e portato in un luogo segreto per il seguente passo dell'operazione, trasportarlo in Israele e processarlo.
Processo e condanna
(EN)
« The whole thing is stinknormal. »
(IT)
« L'intero [crimine] è di una normalità assoluta. »
(Hannah Arendt, Lettera a Heinrich Blücher sul processo Eichmann, 20/04/1961)
Il processo Eichmann, tenuto nel 1961, a quindici anni da quello di Norimberga fu il primo processo a un criminale nazista tenutosi in Israele.
L'arrivo di Eichmann in Israele fu accolto da una fortissima ondata di esultanza mista a odio verso quello che si era impresso nell'immaginario dei sopravvissuti ai lager come uno dei maggiori responsabili della sorte degli Ebrei. Tuttavia Eichmann offrì di se stesso un'immagine poco appariscente, quasi sottomessa, ben diversa da quella di inflessibile esecutore degli ordini del Führer; negò di odiare gli ebrei e riconobbe soltanto la responsabilità di avere eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra. Hannah Arendt lo descrisse, con una frase poi passata alla storia, come l'incarnazione dell'assoluta banalità del male.
La linea difensiva fu impostata nel dipingere l'imputato Eichmann come un impotente burocrate, mero esecutore di ordini inappellabili, negando quindi ogni diretta responsabilità; egli stesso d'altro canto non mostrò nessun segno di sincero rimorso e di critica verso l'ideologia razzista del terzo Reich e le sue concrete e criminali applicazioni. La sua colpevolezza, provata in maniera esaustiva dalle testimonianze di numerosi sopravvissuti chiamati a deporre contro di lui, condusse il giudice militare a pronunciare la definitiva sentenza di morte.
Nonostante ciò, talvolta trasparì nel suo atteggiamento un certo disprezzo e sufficienza verso le vittime che deponevano in aula.
Prima che il condannato fosse giustiziato furono presentate diverse richieste di grazia (in prima persona da Eichmann, dalla moglie e da alcuni parenti di Linz), tutte respinte dall'allora presidente d'Israele, Yitzhak Ben-Zvi. Adolf Eichmann fu condannato a morte per aver spietatamente perseguito lo sterminio degli ebrei e fu impiccato nel carcere di Ramla il 31 maggio 1962.
Esecuzione
Eichmann fu impiccato pochi minuti prima della mezzanotte di giovedì 31 maggio 1962 in una prigione a Ramla, in Israele. Questa è rimasta l'unica esecuzione capitale di un civile eseguita in Israele, che ha una politica generale di non impiego della pena di morte. Eichmann, presumibilmente, rifiutò l'ultimo pasto preferendo invece una bottiglia di Carmel, vino rosso secco israeliano. Ne consumò mezza bottiglia.
Come previsto dalla prassi ufficiale, furono due le persone che tirarono contemporaneamente le leve della corda, in maniera tale che nessuno sapesse con certezza per quale mano Eichmann morì. Esiste una disputa sulle ultime parole pronunciate da Eichmann. Una versione afferma che furono «Lunga vita alla Germania. Lunga vita all'Austria. Lunga vita all'Argentina. Questi sono i paesi con i quali sono stato associato e io non li dimenticherò mai. Io dovevo rispettare le regole della guerra e la mia bandiera. Sono pronto». Secondo un'altra versione avrebbe detto ai carcerieri: «Ci rivedremo presto».
Ad una guardia, l'ufficiale del Mossad e in seguito uomo politico Rafi Eitan, Eichmann si sarebbe invece sprezzantemente rivolto, poco prima, dicendo: «Spero che tutti voi mi seguiate presto».
Come da verdetto il cadavere fu cremato e le sue ceneri vennero caricate su una motovedetta della marina israeliana e disperse nel Mar Mediterraneo al di fuori delle acque territoriali israeliane. Il secchio che le trasportò venne molto accuratamente risciacquato con acqua di mare perché niente di lui ritornasse a terra. Dopo quasi cinquant'anni, il racconto degli ultimi mesi e dell'esecuzione è stato fatto dal suo boia, Shalom Nagar, una guardia israeliana d'origine yemenita oggi titolare di una macelleria kosher, che ha accettato di raccontarsi nel film-documentario The Hangman.
Filmografia
Uno specialista. Ritratto di un criminale moderno (FR, 1999). Regia di Eyal Sivan. Girato con materiale tratto dal processo tenuto in Israele nel 1961, il documentario si ispira a La banalità del male di Hannah Arendt. Le riprese del processo vennero effettuate dal regista americano, di origini ebraiche, Leo Hurwitz che realizzò il documentario Verdict for Tomorrow (1961). Questo documentario vinse il prestigioso Emmy and Peabody Awards.
Eichmann (UK, 2008). Regia di Robert Young.Basato sui verbali degli interrogatori israeliani dopo la cattura di Eichmann, ne ripercorre il passato mentre gli ufficiali israeliani cercavano di ottenere una confessione delle sue colpe.
Conspiracy - Soluzione finale (2001). Regia di Frank Pierson. Il film racconta l'incontro segreto di Wannsee, avvenuto il 20 gennaio 1942, presieduto da Reinhard Heydrich, cui parteciparono 30 personaggi tra le figure chiave nella pianificazione e la realizzazione della soluzione finale della questione ebraica.
fonte: Wikipedia
IL PROCESSO
Matera
Una delle caratteristiche principali della storia della città di Matera è quella che il suo territorio è stato abitato senza soluzione di continuità dal Paleolitico fino ai nostri giorni, pertanto Matera viene considerata città antichissima, nonché terza più antica del mondo.
Le età preistoriche
La Murgia di Matera, primo nucleo dell'odierna città, attraversata dal torrente Gravina
Alla più antica Età della Pietra corrispondono i ritrovamenti di diversi oggetti, alcuni dei quali custoditi nel Museo archeologico nazionale Domenico Ridola, attestanti la presenza di gruppi di cacciatori nel territorio materano. Per quanto riguarda il Neolitico il territorio di Matera costituisce una località molto importante, data la presenza di numerosi villaggi trincerati risalenti a quel periodo. Il riscaldamento del clima successivo all'ultima glaciazione ha consentito agli abitanti di stabilirsi sul territorio, differentemente dai cacciatori delle epoche precedenti che erano nomadi, e di cominciare a praticare l'agricoltura e l'allevamento. I villaggi neolitici del Materano, oltre ad essere circondati da trincee, mostrano ancora le buche per i pali delle capanne, cisterne e fosse per il grano, e diverse tombe ipogee. Inoltre, il territorio materano è considerato molto importante per l'Età Neolitica grazie alla scoperta di una famosa ceramica, detta di Serra d'Alto dal luogo in cui è stata ritrovata, che rappresenta il culmine dell'abilità artistica in questo settore artigianale. Con le successive Età dei metalli, gli insediamenti cominciano a spostarsi sulla sponda destra della Gravina, meglio difesa e dalla superficie più tenera, il tufo, che permette con i nuovi utensili di metallo uno scavo più facile. Con il diffondersi della pastorizia, poi, si sviluppa anche la transumanza, lungo i tratturi. Si tracciano così dei percorsi, e fra questi l'area subappenninica delle Murge costituisce territorio di passaggio. Lo stabilirsi della popolazione ed il sorgere di attività legate ai commerci rende possibile il sorgere di quelle istituzioni economiche, religiose, politiche che danno origine ad una città.
L'età classica e l'origine del nome
Sorta su un preistorico villaggio trincerato, la città che si sviluppa successivamente ha probabili origini greche, come afferma il Volpe nelle sue Memorie storiche profane e religiose sulla città di Matera, citando anche l'Ughelli, il Pacichelli ed il Padre Bonaventura da Lama che erano giunti a tale conclusione. Ciò sarebbe confermato dall'emblema della città, il bue con le spighe di grano, che secondo il Volpe stesso è un simbolo tipico della Magna Grecia; inoltre il Gattini cita l'ipotesi di alcuni storici secondo i quali riprodurrebbe l'emblema della città di Metaponto, che era appunto un bue, mentre le spighe di grano erano figure ricorrenti nelle monete greche. Gattini a conferma di ciò cita anche alcuni versi del poeta Tommaso Stigliani: «Il marinaro di Metaponto antica, la quale a nostra età dett'è Matera», e fa riferimento all'accoglienza data da Matera ai profughi metapontini dopo la distruzione della loro città da parte di Annibale.
Se il nome del villaggio preistorico che ha formato il primo nucleo è ignoto, sull'origine del nome della città sono state fatte diverse ipotesi. Alcuni studiosi, in particolare il Cely Colaianni, parlano di Mateola antica città japigia accanto alla quale scorre una fossa attraversata da torrenti chiamata dai Greci Mataios olos (tutto vacuo), da cui il nome di Mataia ole, trasformatosi poi in Mateola. In età ellenica accoglie profughi di Metaponto e di Heraclea dopo la loro distruzione (da cui proviene un'altra ipotesi suggestiva sull'origine del nome della città, Met+Hera). Secondo altre fonti, il nome deriverebbe dalla radice Mata, che significa mucchio, cumulo di rocce, o ancora dal greco Metèoron, cielo stellato, per l'impressione che offrono dall'alto i lumi notturni delle due valli dei Sassi. Al consolato romano di Quinto Cecilio Metello Numidico, che la riedifica e la fa cingere di mura e di alte torri, risale infine un'altra ipotesi sull'origine del nome Mateola. Plinio il Vecchio inoltre nella sua Naturalis historia (Liber III, 105) chiama Mateolani gli abitanti della città e li elenca tra gli Apuli, anche se la desinenza dell'aggettivo in -anus evidenzia chiaramente l'influenza osca dei Lucani, in quanto la città era situata proprio sul confine apulo-lucano nella regione anticamente chiamata Peucezia.
Durante l'età classica, prima greca e poi romana, Matera subisce l'iniziativa dei popoli che giungono alternativamente da Settentrione o dalla costa. Tuttavia le testimonianze greche sono diverse, tanto da ipotizzare che la città abbia avuto più stretti rapporti con le colonie della Magna Grecia situate sulla costa ionica metapontina. Dell'epoca romana invece le testimonianze sono più scarse, e consistono principalmente in una discussa torre (la torre Metellana); in questo periodo la città, situata vicino alla via Appia, funge soprattutto come centro di passaggio e di approvvigionamento di frumento.
Infine con la suddivisione delle regioni augustee Matera, come tutta la sponda sinistra del fiume Bradano, fa parte della Regio II Apulia et Calabria.
Il Medioevo ed i secoli successivi
Solo nell'Alto Medioevo, dopo la fine dell'Impero Romano d'Occidente e l'arrivo dei Longobardi intorno al VI secolo d.C. (nel 664 d.C. la città viene annessa al Ducato di Benevento), Matera, che fino ad allora era costituita da grotte sparse lungo i pendii della Gravina, assume le caratteristiche di città. Sorgono nuovi agglomerati sparsi, detti casali. La città viene contesa più volte dagli stessi Longobardi, dai Bizantini e dai Saraceni, e nell'867 viene distrutta dall'Imperatore Ludovico II, alleato con i Longobardi contro i Saraceni; ancora nel 994 viene assediata dai Saraceni, ma resiste eroicamente. Solo dopo l'arrivo dei Normanni, intorno al Mille, trova un periodo di calma. Dopo l'insediamento dei Normanni nell'Italia meridionale, nel 1043 Matera è retta dal conte Guglielmo Braccio di Ferro. La città, costituita allora dalla rupe della Civita, è cinta di mura da un lato, mentre dall'altro lato è protetta dal burrone della Gravina. Nel frattempo, a partire dall'VIII secolo, arrivano nella zona delle Murge, ed in particolare a Matera, monaci eremiti e comunità monastiche provenienti da Oriente che si stabiliscono nelle grotte della Gravina trasformandole in Chiese rupestri (ce ne sono circa 150), impreziosite da affreschi di stile bizantino. Matera diventa così punto di incontro tra Oriente ed Occidente della cosiddetta civiltà rupestre, tra arte bizantina degli anacoreti e l'arte dei pastori locali. I Normanni, seguaci della Chiesa Romana, tendono ad affermare la loro religione, cosa che avviene in maniera netta nel XIII secolo, quando viene costruita la Cattedrale, simbolo di potenza della Chiesa Occidentale, che con la sua mole domina le valli sottostanti dei Sassi. Dall'alto del campanile si ha sotto controllo l'orizzonte molto vasto della campagna, molto importante per la città dal punto di vista economico. La città è ancora per la maggior parte circoscritta alla Civita, ed i Sassi si vanno popolando a macchia di leopardo, e solo intorno al 1500 le mura della Civita perdono la loro funzione in quanto la città si è ampliata fino a comprendere i due Sassi.
Nei secoli seguenti, fra pestilenze e terremoti, Matera passa anche attraverso una breve fase comunale per approdare nel XV secolo agli Aragonesi e attraverso quest'ultimi, al conte Tramontano. Nel frattempo nel 1481 la città, che ha partecipato alla difesa di Otranto dall'assalto dei Turchi, ospita il Re di Napoli Ferdinando I (detto anche Ferrante), che la sceglie come sua residenza provvisoria e come base della sua controffensiva.
Nel 1514, però, la popolazione inferocita dalle ingiustizie subite ed oppressa dalle tasse insorge e uccide il conte Giovan Carlo Tramontano. Singolare è la storia della città che per godere il privilegio di città libera ad autonomo reggimento, dipendente cioè non da un barone ma direttamente dal re di Napoli, è costretta a riscattarsi l'autonomia più volte con grandi sacrifici. Tra la fine del XV e l'inizio del XVI secolo si registra un incremento demografico dovuto anche all'immigrazione degli Schiavoni, popolazioni di origine serbo-croata ed albanese, che fondano un vero e proprio quartiere popolando quella parte dei Sassi a tutt'oggi nota con il nome di Casalnuovo. Nel 1663, in epoca spagnola, Matera esce dalla provincia di Terra d'Otranto, di cui fino ad allora era parte integrante, diventando capoluogo della Basilicata e sede di Regia Udienza. La presenza del Tribunale della Regia Udienza favorisce il formarsi di una classe di giurisperiti, impegnati nelle contese che vedono contrapporsi le Università e i baroni. La città vive quindi un periodo di sviluppo edilizio e demografico, favorito anche dai vivaci contatti commerciali con i porti pugliesi e da un'attiva vita culturale. Il titolo di capoluogo le rimane fino al 1806, quando Giuseppe Bonaparte trasferisce le competenze a Potenza.
L'Ottocento ed il Novecento
I Sassi, che fino alla fine del 1700 erano un esempio di integrazione perfetta fra l'uomo e l'ambiente, hanno subito negli ultimi due secoli un degrado notevole, che li ha portati all'appellativo di "vergogna nazionale". Diventano una sorta di ghetto contadino dove le condizioni sociali si fanno sempre più difficili. L'aumento di popolazione (oltre 15.000 abitanti) porta ad una frantumazione dei vicinati in più unità e ad un uso abitativo anche di quegli ambienti prima adibiti a cisterne o depositi. L'Ottocento a Matera è centrato in gran parte sulla questione della ripartizione ai privati delle terre demaniali e confiscate ai baroni ed alle chiese, che però viene effettuata molto lentamente e provoca numerosi contrasti. Nell'agosto 1860 si verifica l'episodio più grave, l'eccidio del conte Gattini, in cui i contadini materani, aizzati anche da quella parte della nobiltà reazionaria e legittimista che mal sopportando alla vigilia dell'Unità la venuta del nuovo regime inizia a promettere redistribuzioni di terre in caso di vittoria, si sollevano ancora una volta contro i proprietari terrieri assassinando durante i tumulti il conte Gattini e due suoi dipendenti. È questo un episodio precursore del brigantaggio, fenomeno di ribellione post-unitaria che interessa anche l'area materana in particolare con le bande di Rocco Chirichigno di Montescaglioso, Vincenzo Mastronardi di Ferrandina, Eustachio Fasano di Matera, evaso dal carcere dove era detenuto per i moti contadini dell'agosto 1860, ed infine circa trent'anni più tardi con Eustachio Chita, detto Chitaridd, considerato l'ultimo brigante sebbene operasse in maniera isolata e non facesse parte di quel brigantaggio post-unitario ormai definitivamente sconfitto.
Nel 1927 la città diventa capoluogo di provincia. Occorre ricordare che nel 1935 la provincia di Matera ha ospitato il confino dello scrittore, medico e pittore Carlo Levi, il quale, sulla scorta di quella che è diventata un'esperienza umana profonda, nel 1945 pubblica il romanzo Cristo si è fermato a Eboli. Nel 1975, alla sua morte, Levi viene seppellito per sua volontà ad Aliano. Matera è la prima città del Mezzogiorno ad insorgere contro i nazisti e per questo insignita della Medaglia d'Argento al Valor Militare. Il 21 settembre 1943, giorno dell'insurrezione di Matera, il popolo materano si ribella contro l'oppressione esercitata dall'occupazione nazista. Undici persone trovano la morte a seguito dei mitragliamenti tedeschi in ritirata. La giornata raggiunge il suo culmine con la feroce rappresaglia nazista che costa la vita ad altre 15 persone, sia civili che militari, fatte saltare in aria nel "palazzo della milizia", tra cui Natale e Francesco Farina, rispettivamente figlio e padre; quest'ultimo si era recato nell'edificio prima della demolizione per tentare di far liberare il figlio pagando un riscatto.
Nel 1948 nasce la questione dei Sassi di Matera, sollevata da Palmiro Togliatti prima, e da Alcide De Gasperi dopo. I Sassi diventano il simbolo nazionale dell'arretratezza e del sottosviluppo del meridione d'Italia. Nel 1952 si giunge allo stanziamento di fondi per la costruzione di nuovi quartieri residenziali che avrebbero costituito la città nuova nella quale far confluire le 15.000 persone che abitavano le case-grotta. La città di Matera diventa così un autentico laboratorio; nasce la Commissione per lo studio della città e dell'agro di Matera, promossa dall'UNRRA-CASAS ed istituita da Adriano Olivetti, presidente dell'Istituto Nazionale di Urbanistica e dal sociologo Frederick Friedmann, che si avvale di esperti in diverse discipline quali storia, demografia, economia, urbanistica, paleoetnologia, sociologia, ed intervengono esponenti prestigiosi dell'urbanistica italiana, per progettare e creare quartieri che riprendano il più possibile i modelli di vita sociale dei Sassi. Di questi nuovi quartieri quello realizzato dall'INA-Casa, denominato Le "Spine Bianche", rappresenta ad esempio un'opera di grande rilevanza architettonica di quella corrente Neorealista del Razionalismo italiano del secondo dopoguerra. Nel 1986 una nuova legge nazionale finanzia il recupero degli antichi rioni materani, ormai degradati da oltre trent'anni di abbandono. Nel 1993 infine i Sassi di Matera vengono dichiarati dall'UNESCO Patrimonio mondiale dell'umanità.
fonte: Wikipedia
I SASSI 1963
27/01/15
i Da Carrara
La famiglia da Carrara (i cui componenti sono definiti Carraresi) fu una famiglia aristocratica padovana.
Originaria dell'epoca post-longobarda, crebbe d'importanza durante l'età comunale sino a governare direttamente la città di Padova tra il 1318 ed il 1405.
La storia
I da Carrara dovrebbero discendere da un gruppo di arimanni di origine germanica che, sul finire di X secolo, scesero in Italia al seguito di qualche imperatore. Giunti nel comitato di Padova, ricevettero in allodio alcune proprietà distribuite nel Conselvano e in Saccisica.
Il primo membro noto della famiglia, Litolfo di Gumberto (citato nel 1027 come benefattore dell'abbazia di Santo Stefano), non sembra ancora godere di diritti giurisdizionali sui suoi fondi. Ma nel corso del XII secolo una serie di circostanze favorevoli permisero ai Carraresi di mettere insieme un vero e proprio feudo, ponendo il centro del potere nel castello di Carrara San Giorgio. Fondamentali furono i matrimoni di Giacomino di Marsilio, vissuto nella seconda metà del secolo, che sposò prima Speronella Dalesmanini e quindi Maria da Baone, rappresentanti di due importanti casate della nobiltà rurale padovana.
Già qualche decennio più tardi, tuttavia, i Carraresi attraversarono un periodo di difficoltà e persero progressivamente i propri possedimenti rurali a vantaggio del nascente comune cittadino. Ulteriormente colpiti dalle lotte tra comuni e imperatore e dalla tragica parentesi ezzeliniana, venuti meno tutti i diritti feudali, nel corso del Duecento la famiglia fu costretta ad inurbare.
In questo contesto i Carraresi seppero costruirsi una nuova fortuna. Riuscirono ad uscire vittoriosi dalle lotte interne e nel 1318 Giacomo di Marsilio entra in possesso del potere, dapprima come capitano del popolo, quindi come vicario imperiale, infine la signoria sulla città.
Regnarono a Padova dal 1318 al 1405, con la parentesi Scaligera 1327-1338 e Viscontea 1388-1390, instaurando la Signoria (precedentemente Padova era retta dalla forma di governo comunale) anche con la consulenza del celeberrimo giurista Raniero Arsendi, noto come "il monarca delle leggi".
Intorno al 1390 i Carraresi sostengono delle lotte con il marchese Alberto d'Este.
Nel 1405 Giacomo III, figlio di Francesco Novello, cadde prigioniero dei veneziani. Secondo la storiografia ufficiale un'epidemia di peste a Padova lo costrinse alla resa; Francesco Novello, con l'altro figlio Francesco III, si consegnarono ai veneziani e successivamente, Francesco Novello e i due figli vennero strangolati in carcere.
Nel 1435 Marsilio, il terzo e unico figlio di Francesco Novello rimasto in vita, tenta il rientro a Padova ma viene catturato e decapitato in Piazza San Marco. Da loro prese nome il Carrarese, un pezzo d'argento da 4 soldi di lira padovana emesso da Francesco I (1355-1388).
Componenti
Gumberto (m. av. 970)
Gumberto (m. av. 1027)
Litolfo da Carrara, fonda l'abbazia di Santo Stefano a Carrara nel 1027, m. av 1068.
Artiuccio, donazione all'Abbazia nel 1068
Gumberto, donazione all'Abbazia nel 1077
Marsilio, donazione all'Abbazia nel 1109
Marsilio (m. av 1210)
Jacopino (m. av 1262)
Niccolò (n. 1282, m. 1344)
Jacopo I, Signore di Padova m. 22 novembre 1324
Marsilio, Signore di Padova m. 21 marzo 1338, sepolto all'Abbazia di Santo Stefano a Carrara Santo Stefano, Due Carrare.
Ubertino I, Signore di Padova m. 20 marzo 1345
Marsilietto Papafava, Signore di Padova m. 6 maggio 1345
Jacopino II, Signore di Padova m. 1372 in carcere
Francesco I, Signore di Padova m. prigioniero a Monza 6 ottobre 1393
Francesco Novello (n. 19 maggio 1359, m. 19 gennaio 1406) e fine della signoria dei Carraresi
Conte (m. tra il 1421 ed il 1422), figlio naturale di Francesco e signore di Ascoli
Francesco III (m. 1406) (primogenito di Francesco Novello)
Jacopo (m. 1406)
Marsilio (m. 1435)
Testimonianze
Nel loro borgo natìo, i Carraresi possedevano un Castello di cui oggi non rimane traccia.
I carraresi arrivarono a conquistare diverse città e borghi veneti, in un gioco tutto imperniato sull'alternanza di alleanze con le due potenze locali, la Serenissima e gli Scaligeri di Verona. Molte fortificazioni devono ai Carraresi la propria esistenza, come il castello di Valbona a Lozzo Atestino (in provincia di Padova) mentre altre, come la torre civica di Camposampiero, le porte della cinta murata di Cittadella e altre ancora, conservano al loro esterno affreschi recanti lo stemma carrarese, in rosso su campo bianco, ad indicare l'abitudine della famiglia di ornare esternamente i propri manieri con questi colori.
Nel 1027 fondarono la splendida Abbazia di Santo Stefano a Carrara, di cui oggi rimane solo la chiesa.
Nella città di Padova poi commissionano la costruzione del loro palazzo, la Reggia Carrarese, della quale rimangono la Loggia dei Carraresi (oggi sede dell'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti) e, nel piano superiore, la cappella privata la cui decorazione venne affidata a Guariento di Arpo.
Della decorazione rimangono poche tracce dopo che, alla fine del Settecento, gli accademici demolirono una parete allo scopo di aumentare le dimensioni della sala delle adunanze. Restano alcune tavole con schiere angeliche che ornavano uno spazio tra le pareti e il soffitto e che oggi si trovano al Museo Civico Eremitani di Padova e alcuni lacerti di affreschi.
Il Castello di Padova, di origine medievale e già rafforzato dal tiranno Ezzelino da Romano, conserva manufatti e affreschi dell'epoca carrarese: la famiglia lo utilizzò durante il proprio regno sulla città e fece costruire un traghetto sopraelevato che congiungeva la reggia alle mura e, attraverso queste, al castello vero e proprio.
Un ramo cadetto della famiglia, i Papafava, ottennero l'ascrizione al patriziato veneziano ed è ancor oggi esistente.
Genealogia
Giacomino
Marsilio
Giacomino
Giacomo
Albertino
Giacomo
Bonifacio
Giacomino "Papafava"
Marsilio
Ubertino il Vecchio
Giacomino
Albertino "Papafava"
Giacomo I (1264 - 1324)
Pietro "Perenzano"
Nicolò (seconda metà del Duecento - 1344)
da Iselgarda
Ubertino Novello
(fine del Duecento - 1345)
da Fina Fieschi
Marsilietto "Papafava" (fine del Duecento - 1345)
da Adelaide Scrovegni
Marsilio (1294 - 1338)
da Emidia Fieschi
Giacomo II (inizio Trecento - 1350)
Giacomino
Beatrice
Iselgarda
Lieta
da Agnese Visconti
Francesco il Vecchio (1325 - 1393)
da Lieta Forzatè
Carrarese
da Lieta Forzatè
Margherita
da Lieta Forzatè
Gigliola
da Lieta Forzatè
Marsilio (anni 1330 - post 1379)
da Costanza da Polenta
Nicolò
da Costanza da Polenta
Ubertino Carlo
da Costanza da Polenta
Lieta
da Costanza da Polenta
Bonifacio
figlio naturale
Francesco Novello (1359 - 1406)
da Fina Buzzacarini
Conte
(metà del Trecento - 1421/22)
figlio naturale, da Giustina Maconia
Stefano
figlio naturale
Ubertino (? - 1407)
figlio naturale
Marsilio (seconda metà del Trecento - 1435)
figlio naturale
Francesco (1383 - 1406)
da Taddea d'Este
Giacomo
Obizzo (? - post 1439)
Ardizzione
Bibliografia
G. Cittadella - Storia della dominazione carrarese in Padova, Volume 1 - Padova, 1842.
G. Vasoin - La signoria dei Carraresi nella Padova del '300 - La Garangola, Padova, 1988.
O. Longo - Padova carrarese - Il poligrafo, Padova, 2005, ISBN 8871153987.
F.Moro - Venezia in Guerra, quattordici secoli di storia, politica e battaglie, Studio Lt2 editore, Venezia 2011
Pompeo Litta, Famiglie celebri d'Italia. Carraresi di Padova, Torino, 1835. ISBN non esistente.
fonte: Wikipedia
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