Si sa che qualsiasi discorso si faccia intorno ad un quadro o ad un’opera d’arte in genere può cambiare radicalmente nel momento in cui finalmente la si riesce a vedere dal vivo. E’ sicuramente il caso delle famose Nymphéas di Claude Monet, in particolare di quelle esposte da qui all’eternità nelle sale ovali dove lo stesso Monet ha voluto che fossero collocate (e probabilmente per le quali le ha pensate) quando le donò allo stato francese e al mondo intero, nei locali dell’Orangerie, edificio ai margini dei giardini delle Tuileries a Parigi. Per quanto mi riguarda è uno di quei casi in cui, mai davvero particolarmente entusiasta delle trasparenze acquatiche del grande impressionista, quando finalmente le ho viste dal vero la mia considerazione di quelle opere è cambiata. Sostanzialmente cambiata.
Poche opere come les Nymphéas devono essere viste (ma “vedere” è un termine inadeguato) dal vivo, nella loro collocazione, nelle loro dimensioni, e soprattutto nella loro immensa impalpabilità. In breve, la storia racconta che Monet, già anziano e ormai piuttosto ricco e famoso, si ritirò in Normandia, nella sua villa di Giverny, e letteralmente si immerse nel lavoro che avrebbe concluso la sua carriera di pittore, e che avrebbe cambiato la pittura da lì a venire. Ma non si mise subito a dipingere, affatto. Si mise a progettare e costruire il giardino, e nel giardino il lago con le ninfee, montandolo e rimontandolo, con le ruspe e con tutto l’armamentario necessario, come se quella fosse l’opera da realizzare, e non la rappresentazione che ne sarebbe seguita. E poi si mise ad osservarle, a passare ore ed ore (da vero vecchio rimbambito) a fissare apparentemente senza motivo il suo laghetto con le sue ninfee, osservandolo e verrebbe da dire assimilandolo, a tutte le ore del giorno, con tutte le sfumature di luce possibili, con tutte le ombre e i riflessi che generava. E ancora non prendeva in mano il pennello. Poi infine si mise davanti alle tele. Ma, attenzione, sempre la storia racconta che non lo abbia fatto con la tela e il cavalletto davanti allo stagno, ma chiuso nel suo immenso studio, con le ninfee qualche decina di metri più in là ma senza poterle vedere direttamente (probabilmente anche per un motivo pratico: su quelle tele così spropositate non si poteva lavorare all’aperto). Così chiuse in apparente contraddizione con l’intero movimento impressionista di cui lui stesso era stato alfiere, e per il quale la pittura “en plein air” era il fondamento irrinunciabile, con quello che probabilmente fu il suo estremo e autentico colpo di genio: si mise a dipingere senza più guardare l’oggetto della sua pittura, a dimostrazione evidente che il suo scopo stavolta non era più rappresentare ciò che si vede, ma ciò che si ricorda, o che si è colto, o che si è capito dell’oggetto della rappresentazione.
Qui probabilmente sta la prima scoperta, almeno per me, di queste opere uniche nella storia dell’arte. Nell’osservarle (insisto ad evitare il verbo “guardare”) ci si rende conto che non rappresentano un paesaggio, un lago, dei fiori galleggianti o degli alberi, ma probabilmente rappresentano il suo sguardo su di esse, rappresentano letteralmente “l’idea” delle ninfee così come si era ormai formata nella mente del pittore. Nella mente, non più davanti agli occhi. E così probabilmente Monet ha realizzato il primo vero esempio di pittura metafisica, e il primo passo fondamentale verso quello che diverrà, molti anni dopo, l’astrattismo.
L’altra scoperta, se così la si può chiamare, è che non si tratta di una visita, ma di un’esperienza in senso più ampio. Non si va a guardare dei quadri, ma si va a galleggiare in un non-spazio guardando non-paesaggi. Non si sta da un lato a guardare una rappresentazione che sta oltre il confine della tela, ma ci si trova circondati da enormi tele che seguono incurvandosi la superficie ovale delle due sale, e che sono comunque confinate entro cornici solo per motivi puramente fisici, ma sono pensate e realizzate per espandersi oltre, e lo fanno.
E la prova che non si tratti di paesaggi ma di rappresentazioni mentali esiste. Basta riuscire a togliersi dalla mente la pretesa di “guardare”, e ci si accorge immediatamente che, oltre alla straordinaria capacità di ricreare ambienti e trasparenze con pennellate che viste da vicino (cioè come le vedeva il pittore!) sono pure e semplici incrostazioni di colore, ci sono altri significativi indizi che distinguono les Nymphéas da qualsiasi altro quadro. Tutti o quasi tutti i quadri hanno un punto di vista ideale. Un punto e una distanza dalla tela in cui l’osservatore può dire: “Ecco! È da qui che va visto”. Les Nymphéas no.
Puoi avvicinarti fino a guardare la singola pennellata, puoi allontanarti per cercare di cogliere l’insieme e ti accorgi che potresti avvicinarti all’infinito, se potessi farlo, oppure allontanarti all’infinito, se non avessi alle spalle un altro spicchio di stagno dipinto, e continueresti a vederle in modo diverso, come se ogni punto dello spazio fornisse una sua visione del quadro, nessuna migliore delle altre, nessuna che ti dice di più o di meno della precedente.
Al centro delle sale ovali dell’Orangerie ci sono dei divani, ma servono solo per riposarti se sei stanco, perché non ha senso sedersi e guardarle. Dopo poco ti rendi conto che l’unico modo di guardarle è continuare a muoverti, girare lungo il perimetro, lasciarti avvolgere da una visione che scorre, ondeggia, muta in continuazione, raggiunge i sensi trapassando la vista. L’unico modo di guardarle è non fermare mai lo sguardo. L’unico modo di guardarle è lasciarsi trasportare lentamente dalla corrente quasi inesistente di quello stagno. L’unico modo è galleggiarci in mezzo.
Poi a un certo punto arriva inevitabile anche la visita alla sua casa-giardino di Giverny.
È davvero un luogo particolare. Si capisce in ogni angolo e da ogni scorcio che si tratta di ambienti progettati e realizzati da un pittore (e che pittore!). La casa è emozionante. Il suo leggendario studio con le grandi vetrate, le stanze arredate una ad una con colori e stili diversi. La cucina blu, la sala da pranzo completamente gialla che scomporla in pennellate sembra un quadro di Van Gogh.
E il giardino, il suo capolavoro, un tripudio di prospettive e di colori, viali di dalie e esplosioni di gigli.
E poi, naturalmente, il laghetto con le ninfee. Che non solo è esattamente come lo hai sempre immaginato, ma che improvvisamente fa acquistare ai suoi quadri, in assoluta contemporaneità con il loro visionario astrattismo, una dimensione realistica sbalorditiva. E’ esattamente come nelle sue tele. I riflessi, le ombre, le rifrazioni, le scomposizioni della luce. Tutto torna. Nel constatare la perfezione delle sue riproduzione si comprende, all’ombra di quei salici, quanto il maestro possa essere penetrato nella sua ricerca nella struttura più intima di quei colori, di quella luce, di quella atmosfera. Quasi fosse riuscito a scomporla nelle sue componenti chimiche per poi riprodurla ricombinandole in laboratorio.
Da fotografo e appassionato d’arte non ho potuto sottrarmi al gioco di ricercare con le inquadrature e con la luce i suoi angoli e le sue visioni (andando a memoria, naturalmente) e nelle fasi successive di ricerca e sviluppo degli scatti effettuati sorprendermi a scoprire quanto alcune di queste potessero essere affiancate e confrontate con gli squarci dei suoi quadri, in un gioco di riflessi e rimandi pressoché senza soluzione.
Il consiglio quindi è: andate a visitare l’Orangerie a Parigi, lasciatevi ubriacare dalla danza oscillante delle sue enormi tele, e poi (meglio ancora se nello stesso viaggio) spostatevi una settantina di chilometri a nord-ovest e visitate la casa-giardino di Monet, Giverny, Normandia. Ne uscirete con un modo nuovo di vedere l’arte e la pittura, e al tempo stesso con un modo nuovo di concepire il paesaggio e la natura.
Claude Monet – Les Nymphéas
(1920)
Parigi – Orangerie
Per illudersi di dare un’occhiata virtuale alle Nymphéas: http://www.musee-orangerie.fr/
La casa giardino di Monet a Giveny: http://fondation-monet.com/
ALESSANDRO BORGOGNO
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero
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