25/07/18
Apricale
VEDUTA
SCORCIO DEL CENTRO STORICO
CASTELLO DELLA LUCERTOLA
CHIESA PAROCCHIALE DELLA PURIFICAZIONE DI MARIA VERGINE
Avrigâ in ligure, Bligal nella variante locale, è un comune italiano di 620 abitanti della provincia di Imperia in Liguria.
Geografia fisica
Il borgo medievale è situato nell'entroterra di Bordighera, nella valle del torrente Merdanzo, affluente del Nervia, a 13 km dalla costa della Riviera di Ponente. Sullo sfondo è visibile il monte Bignone (1.299 m.).
Storia
Percorso storico
Mappa del dipartimento delle Alpi Marittime (1793) con Apricale nel cantone di Perinaldo
Mappa dello stesso dipartimento francese (1805) con Apricale nel cantone di Dolceacqua
L'origine del borgo sembrerebbe risalire all'età del bronzo, grazie ai ritrovamenti di tumoli sepolcrali in località Pian del Re (nel dialetto locale Cian deu Re); altri ritrovamenti farebbero risalire una prima frequentazione del territorio al periodo pre-romano. Ufficialmente il borgo venne fondato intorno al X secolo dai conti provenienti da Ventimiglia e furono quest'ultimi ad erigere in tale secolo il castello della Lucertola dove poi si svilupperà e amplierà il borgo apricalese. La prima attestazione scritta è risalente al 1092 - con il nome di Aurigallus - mentre al 1210 è attestata una forma di organizzazione comunale, retta da locali consoli.
Dal XIII secolo cominciarono i primi acquisti di terre e diritti da parte di alcuni nobili genovesi, per lo più a mo' di riscatto per i debiti contratti dai conti di Ventimiglia verso Genova. Nel particolare, al 1272 è menzionata negli annali storici l'occupazione di Apricale e del locale castello da parte di un tal Gianella Avvocato con l'aiuto della locale fazione guelfa e l'appoggio della famiglia Grimaldi; l'anno successivo la fazione ghibellina riuscì, tuttavia, a riprendere il controllo del territorio apricalese e a restituirlo alle dipendenze ventimigliesi. Furono gli stessi Conti di Ventimiglia, nel 1267, a concedere nuovi statuti e capitoli alla comunità di Apricale considerati, quest'ultimi, tra i più antichi della Liguria.
Al 1287 risale l'acquisto del feudo da parte di Oberto Doria - già signore di Dolceacqua dal 1270 - che stabilì l'unione amministrativa di Apricale con Isolabona all'interno del Marchesato di Dolceacqua; tale unione con la comunità isolese perdurò fino al 1573. Al 1524 risale il passaggio del marchesato dolceacquese nel Ducato di Savoia.
Con l'annessione del contado di Nizza alla Prima Repubblica francese, nel 1793, Apricale entrò a far parte del cantone di Perinaldo (distretto di Mentone), poi di Monaco nel dipartimento francese delle Alpi Marittime.
Nel 1805 Apricale restò nel cantone di Dolceacqua (che sostituì Perinaldo come capoluogo), ma passò nel nuovo distretto di Sanremo, dello stesso dipartimento, esteso a est per annessione di una parte della Repubblica Ligure.
Alla caduta del Primo Impero francese, nel 1815, tornò al Regno di Sardegna, come stabilito dal Congresso di Vienna, e successivamente nel Regno d'Italia, dal 1861. La municipalità di Apricale fu sottoposta nel III mandamento di Dolceacqua del circondario di Sanremo della provincia di Nizza (poi provincia di Porto Maurizio dopo la cessione alla Francia del territorio nizzardo).
Dal 1973 al 30 aprile 2011 ha fatto parte della Comunità montana Intemelia.
Gli statuti
Importanti per la comunità apricalese medievale furono gli storici statuti comunali del 1267, considerati i più antichi della Liguria, i quali regolarizzarono la vita degli abitanti del borgo con regole ben precise. Ogni aspetto è minuziosamente contemplato, dalla regolarizzazione delle principali attività economiche, al pagamento delle tasse e dei tributi, alle pene per i reati più gravi.
Proprio sul tema della giustizia si applicarono svariati e talvolta trucidi regolamenti punitivi, dalla sepoltura dell'assassino (ancora vivo) con la vittima, alla decapitazione delle donne adultere fino all'amputazione di un piede o della mano per i ladri di bestiame. I furti dovevano essere prevenuti dalle due guardie campestri - costrette a dormire tutti i giorni d'estate e due notti in inverno nelle ore notturne nei campi - e obbligate loro stesse al risarcimento materiale a seguito del mancato arresto dei presunti ladri dopo otto giorni dal furto.
Gli statuti prevedevano inoltre il giudizio di Dio: il procuratore di danni o furti a terzi poteva essere dichiarato innocente se riusciva a camminare - per un breve tratto - con un ferro rovente in mano senza ustionarsi.
Simboli
« Scudo con veliero, contornato da fronde di querce e d'olivo »
(Descrizione araldica dello stemma)
La presenza di un veliero nello stemma comunale, alquanto curiosa per un borgo medievale arroccato nell'entroterra, si spiega con la storica collaborazione tra il paese e i cantieri navali della costa; dai boschi di Apricale proveniva infatti il legname per la costruzione delle navi della flotta della Repubblica di Genova.
Monumenti e luoghi d'interesse
Architetture religiose
Chiesa parrocchiale della Purificazione di Maria Vergine. La chiesa, eretta intorno al XII secolo, è stata più volte rimaneggiata e ingrandita. Nel 1760 un restauro ha trasformato l'edificio in stile barocco. La facciata neoromanica è stata rifatta nel 1935. Il campanile della chiesa è stato ottenuto dall'antica torre quadrata del vicino castello della Lucertola nella cui sommità è stata fissata una bicicletta rivolta verso l'alto. La singolare e curiosa installazione altro non è che un'opera artistica contemporanea del 2000 di Sergio Bianco: La forza della non gravità.
Chiesa di Santa Maria degli Angeli, sita ai piedi del paese, ospita affreschi risalenti al Quattrocento.
Chiesa di Sant'Antonio. Risalente al XIII secolo fu edificata nei pressi del locale cimitero sui resti di un antico tempio di epoca romanica.
Oratorio di San Bartolomeo cui all'interno è conservato un polittico in legno del 1544.
Ruderi della chiesa di San Pietro in Ento, la prima parrocchiale del territorio e risalente all'XI o XII secolo.
Cappella di San Vincenzo Ferrer. Risalente al XVI secolo, ma rivista in forme barocche, è situata lungo la strada provinciale per Perinaldo a circa un chilometro dal centro di Apricale. Conserva in una nicchia della facciata la statua del santo.
Cappella di San Martino. Forse già antica pieve romanica le prime informazioni sulla cappella risalgono al XVI secolo. Conserva tracce di affreschi cinquecenteschi nel catino dell'abside.
Cappella di San Rocco. Edificata lungo la mulattiera per Pigna, nella zona settentrionale del borgo apricalese, è citata in un atto testamentario del 1576.
Cappella di Moudena, situato lungo la mulattiera per la regione di Moudena.
Architetture militari
Castello della Lucertola. Edificato su uno sperone di roccia dai conti di Ventimiglia nel X secolo, si affaccia dominando la piazza principale di Apricale così come l'attigua chiesa della Purificazione di Maria Vergine. La proprietà sul castello - così come la dominazione del borgo - passò dalla famiglia genovese Doria (subendo nel 1523 l'assedio del vescovo e reggente del Principato di Monaco Agostino Grimaldi per la morte del fratello Luciano) ai Savoia e infine alla famiglia locale Cassini che trasformarono l'edificio da postazione difensiva a residenza privata. Divenuto proprietà del Comune di Apricale, dopo un accurato restauro, è sede annuale di eventi culturali e manifestazioni.
Etnie e minoranze straniere
Secondo i dati Istat al 31 dicembre 2014, i cittadini stranieri residenti ad Apricale sono 115, pari al 18,76% della popolazione totale.
Qualità della vita
Il 29 maggio e 4 luglio 2002 il Comune di Apricale ha conseguito la certificazione del proprio sistema di gestione ambientale conformemente alla norme ISO 14001 e ISO 9001 e un attestato OHSAS 18001 per la sicurezza.
Il comune fa parte del circuito dei borghi più belli d'Italia e insignito della Bandiera arancione dal Touring Club Italiano.
Cultura
Il caso Giovanni Martini
Fino a tempi recenti si è sostenuta l'ipotesi delle origini apricalesi di Giovanni Martini, noto per essere l'unico sopravvissuto della colonna di Custer alla battaglia del Little Bighorn, avviando una sorta di contesa dei natali con il comune salernitano di Sala Consilina. La "disputa" si è definitivamente risolta il 18 settembre 2010 quando nuovi accertamenti ufficiali, nello specifico il ritrovamento dell'atto di nascita, hanno identificato il celebre trombettiere John Martin nella figura di Giovanni Crisostomo Martino, nato proprio nella città salese il 28 gennaio 1852.
Nel centro del paese, lungo una stretta via medievale, ha sede la biblioteca comunale, mentre all'interno del locale castello apricalese si trova il museo della storia di Apricale che conserva documenti e reperti storici tra cui i celebri Statuti apricalesi del 1267.
Eventi
Ogni anno vengono organizzate mostre fotografiche, scultoree e pittoriche all'interno del castello della Lucertola. L'antistante piazza, cuore del borgo apricalese, è teatro di diversi eventi locali quali la festa dell'olio nuovo, la festa della primavera, la festa di san Valentino nel mese di febbraio e la sagra della pansarola (frittelle dolci) la seconda domenica di settembre.
Dal 1990, ogni estate, le strette vie del borgo medioevale ospitano la rassegna di teatro itinerante … E le stelle stanno a guardare, del Teatro della Tosse. Ogni agosto attori, registi e maestranze del teatro genovese si spostano ne per mettere in scena uno spettacolo a stazioni sempre nuovo, visto da circa 1200 spettatori a sera . La tradizione, iniziata da Tonino Conte ed Emanuele Luzzati, prosegue oggi con Emanuele Conte e Amedeo Romeo.
Dal 2014 il borgo è sede della manifestazione 'Apricale Tango', che nella prima settimana di gennaio richiama numerosi appassionati di Tango Argentino con eventi, serate danzanti e spettacoli.
Persone legate ad Apricale
Cristina Anna Bellomo (1861 - 1904), contessa di Apricale. La sua vita romanzesca e tragica è evocata nel castello della Lucertola. Abbandonata dopo il matrimonio da Battista Pisano, prestò servizio dal conte Charles de La Tour che si invaghì di lei e la portò a Parigi, iniziandola ai salotti mondani e lasciandole, alla sua morte, una fortuna. Bellissima e molto corteggiata si recò in Russia con la nipote Maria alla corte degli Zar, qui conobbe Sergej Aleksandrovič Romanov, fratello dello Zar, che se ne innamorò. Inviate in estremo oriente dal governo russo come spie, Maria e Cristina furono scoperte e imprigionate. Maria, morì di tubercolosi, mentre Cristina riuscì a tornare ad Apricale con l'intenzione di divorziare dal marito per sposare il Granduca. Pisano, colto da un raptus di gelosia, la uccise prima di suicidarsi impiccandosi alla croce del cimitero di Bajardo.
Emanuele Luzzati (Genova, 1921 - Genova, 2007), scenografo, animatore e illustratore, il 14 settembre del 2003 gli è stata conferita la cittadinanza onoraria.
Geografia antropica
Il territorio comunale è da una superficie territoriale di 19,94 km².
Confina a nord con i comuni di Pigna e Castel Vittorio, a sud con Perinaldo, ad ovest con Isolabona e Dolceacqua, ad est con Bajardo e Sanremo.
Economia
Si basa principalmente sull'agricoltura e sul turismo. In questo borgo si produce un pregiato olio di oliva, di origine taggiasca, e dalla viticoltura il vino di uva Rossese.
Infrastrutture e trasporti
Strade
Il territorio di Apricale è attraversato principalmente dalla strada provinciale 62 che permette il collegamento con Isolabona, ad ovest, e Perinaldo verso sud; altra arteria stradale è la provinciale 63 per Bajardo.
fonte: Wikipedia
21/07/18
a Civate gli affreschi che potrebbero riscrivere la storia
La straordinaria testimonianza di un tempo sospeso tra gli Sforza e le Americhe
Lago di Lecco, 6 marzo 2018
“Nessuna cosa si può amare, né odiare, senza piena cognizion di quella”.
Con questo lapidario quanto indiscutibile ammonimento, Leonardo da Vinci confinava la conoscenza - e di conseguenza il gradimento o meno di un qualcosa - a un pieno apprendimento degli elementi che la contraddistinguono.
Succede così che quasi sempre si aprano a chi adotta questo approccio stanze di conoscenza fino a quel momento precluse dal pregiudizio culturale che imprigiona, chi più chi meno, ciascuno di noi, permettendo di acquisire sempre più tessere per ricostruire quel puzzle riguardante la nostra storia che più di qualcuno, nel corso degli anni, si è divertito a scombinare.
Ricostruendo la vita e il profondo legame esistente tra Leonardo da Vinci e il nostro territorio, è stato naturale imbattermi in una preziosissima testimonianza pittorica conservata in una abitazione rinascimentale alle porte di Lecco, nel paesino di Civate ...
Sto parlando della Casa del Pellegrino, in dialetto lecchese Cà di pelegrétt, una struttura ampliata nel corse dei secoli che affonda probabilmente le sue origini nel Medioevo, quando si presume accogliesse i pellegrini che si volevano recare al Monastero benedettino di San Pietro al Monte.
Col passare degli anni, alcune famiglie nobiliari si sono contese la supremazia sul piccolo borgo di Civate e la Casa del Pellegrino è divenuta una residenza signorile, abbellita e arricchita da affreschi di varie epoche che ci raccontano lo sfarzo ed i piaceri di quell’epoca.
La parte più antica del complesso è sicuramente costituita dal portico, la corte interna e le camere soprastanti, che nel 2013 hanno rivelato, sotto un sottile strato di calce, dei cicli di affreschi molto importanti, riconducibili allo stile tardo-gotico e a immagini di amor cortese, frammiste a scene di caccia che vedono coinvolti cervi, cinghiali e un improbabile orso dalle dimensioni innaturalmente ridotte, mentre ad accompagnare i cacciatori sono cani e ghepardi, curiosamente ammaestrati alla bisogna.
Questi animali rimandano la mente all’abitudine delle famiglie Sforza e Medici di circondarsi di animali esotici, principalmente donati loro da Benedetto Dei, una sorta di ambasciatore del tempo, forse il più influente, sottaciuto dalla quasi totalità delle cronache, ma molto legato a Leonardo da Vinci.
Benedetto Dei, tra l’altro, si colloca personalmente nel territorio lariano nel 1449, allorquando Francesco Sforza sconfigge l’esercito veneziano e prende il controllo del territorio che poi diverrà Ducato:
Nel portico della corte interna, sulla destra è visibile parzialmente lo stemma partito (ossia diviso in verticale) delle famiglie Maggi e Casati. Poiché questo tipo di stemma veniva di norma utilizzato per indicare l’unione tra famiglie o le alleanze matrimoniali, qualcuno avanza l’ipotesi che il cavaliere e la dama bionda protagonisti degli episodi narrati nelle camere picte situate al primo piano siano proprio gli esponenti di questi due rami familiari e le loro vicende amorose, tanto che sulle pareti affrescate troviamo proprio gli stemmi delle due famiglie, che attestano anche il susseguirsi della proprietà della casa.
I Maggi erano originari di Malgrate, dove possedevano diverse proprietà e svolgevano le attività di mercanti e notai, oltre a detenere diritti di pesca sul lago di Lecco, mentre la famiglia Canali era originaria di Civate, e annoverava a sua volta notai ed affittuari, nonché altri esponenti dediti al commercio d’armi.
L’impianto decorativo, collocato dagli storici attorno al 1450, è prettamente di stampo pagano, con appunto scene di amor cortese e attività venatorie, salvo contenere alcuni rimandi religiosi apposti in un secondo tempo, quando al sole sforzesco è stato aggiunto il monogramma IHS, che rimanda a San Bernardino (o ai Gesuiti) e l’aggiunta di un tondo con la mano benedicente.
Gran parte di questi fiori vengono dipinti con la corolla che guarda all’esterno, quasi cercassero la luce del sole, o forse solo in un tentativo goffo di dare una proiezione della sala verso l’esterno, come viene raccontato.
Troviamo una analoga rappresentazione a Oreno, nel Casino di Caccia di quella che poi diverrà una residenza Borromeo, ma soprattutto nel complesso che ospiterà, in un’ala laterale, Gian Giacomo Caprotti, detto Sala(ì)dino, considerato erroneamente l’allievo amante di Leonardo da Vinci.
Le dame ritratte qui e a Civate rimandano alle dame ritratte negli affreschi di Villa Borromeo a Milano, intente a giocare ai Tarocchi, un divertissement molto in voga presso la corte dei Visconti, a cui come detto succedettero gli Sforza dopo il 1449, ma anche ad esempio presso la corte dei Gonzaga di Mantova, tanto che lo stesso Mantegna disegnerà uno straordinario mazzo di tarocchi e ne farà menzione nella famosissima Camera degli Sposi di Palazzo Ducale a Mantova.
Anche in questo caso il decoratore ritrae scene di caccia a un altrettanto improbabile orso, che ripete le stesse dimensioni mignon di quello raffigurato a Civate, e un giovane ritratto accanto a un laghetto sul quale si elevano in volo una moltitudine di uccelli, con un falco sul braccio, così come esattamente è raffigurato un adulto a Civate (con la sola mancanza del laghetto).
Le dame ritratte qui e a Civate rimandano alle dame ritratte negli affreschi di Villa Borromeo a Milano, intente a giocare ai Tarocchi, un divertissement molto in voga presso la corte dei Visconti, a cui come detto succedettero gli Sforza dopo il 1449, ma anche ad esempio presso la corte dei Gonzaga di Mantova, tanto che lo stesso Mantegna disegnerà uno straordinario mazzo di tarocchi e ne farà menzione nella famosissima Camera degli Sposi di Palazzo Ducale a Mantova.
Mi dicono che cicli analoghi a quelli di Civate e Oreno sono presenti presso il Castello di Teodolinda a Castello Brianza, ma non ho avuto occasione di visitarli, fino a oggi.
Sicuramente non possiamo omettere di considerare che il ciclo contenuto nella cappella Teodolinda del Duomo di Monza, un ciclo di affreschi degli Zavattari datato sempre attorno al 1450, apparentemente relativo alle nozze della Regina con Agilulfo ma che invece rimandano alle nozze disposte nel 1441 da Filippo Maria Visconti per la figlia Bianca Maria con Francesco Sforza.
Si può dunque ipotizzare senza troppi azzardi un forte rimando di questi cicli pittorici al contesto visconteo/sforzesco, che in quegli anni radicarono profondamente le sorti del proprio ducato proprio a questa parte di territorio, e non solo per via dell’approvvigionamento idrico, ittico e minerario, attività fondamentale per sostenere le campagne belliche.
Tra l’altro, va sottolineato come il ciclo relativo alle nozze Sforza/Visconti contenuto nella cappella Teodolinda del Duomo di Monza rimandi la mente all’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, che in questi luoghi ebbe modo di lavorare e lasciare testimonianze a Brescia e a Lecco e in una cappella laterale della Basilica di San Niccolò, come ho già avuto modo di esporre qualche mese fa.
Gentile da Fabriano, infatti, fu in questi territori agli inizi del ‘400, al seguito di Pandolfo III Malatesta, che fu Signore di Lecco dal 1416 al 1419 e addirittura nel 1409 proprietario del Ponte Azzone Visconti (ritratto da Leonardo nella Gioconda sopra la spalla sulla destra del dipinto).
Gentile da Fabriano, infatti, fu in questi territori agli inizi del ‘400, al seguito di Pandolfo III Malatesta, che fu Signore di Lecco dal 1416 al 1419 e addirittura nel 1409 proprietario del Ponte Azzone Visconti (ritratto da Leonardo nella Gioconda sopra la spalla sulla destra del dipinto).
Chi mi conosce sa come già da tempo abbia collegato Pandolfo III, attraverso il pittore Pisanello, a una conoscenza anticipata delle Americhe, addirittura dipinte da Pisanello nel 1438 ne La visione di Sant’Eustachio, ma ritratte poi almeno più di venti volte prima del 1459, in contesti pittorici legati alle famiglie Malatesta, Sforza, Medici, Este, Gonzaga, Bentivoglio tra gli altri.
Non è di oggi la tesi che avanzo da tempo secondo la quale gli europei raggiunsero le coste americane originariamente attraverso il Pacifico, approdando e sviluppando una conoscenza originaria delle americhe e dei suoi abitanti partendo dalle coste peruviane.
A confermare una frequentazione del nuovo continente da parte malatestiana ci sono alcuni riferimenti netti contenuti in un manoscritto a opera di Basinio da Parma, l’Hesperis, che narra le gesta di Pandolfo Sigismondo Malatesta, colui che commissionerà la costruzione autocelebrativa del Tempio Malatestiano (di stampo pagano) eretto sopra un preesistente convento Benedettino.
Tra il cavaliere nell’atto di porgere in dono alla dama dei frutti, si staglia in dimensione abnorme un fiore che rimanda proprio alla Ludwigia raffigurata nel Tempio malatestiano di Rimini.
A questo punto, viene legittimamente il dubbio che quei fiori disposti tutt’attorno alla sala, con la corolla girata verso l’esterno, non siano delle margherite raffigurate in quel modo, come qualcuno sostiene, per dare una maggiore ampiezza alla sala, ma siano invece dei veri e propri girasoli.
Originari del Perù anch’essi, troverebbero una più plausibile spiegazione del fatto di essere disposti in quel modo, alla perenne ricerca del sole, e più congeniali, tra l’altro, al culto pagano del Sol Invictus, a cui le civiltà abitanti il Perù erano all’epoca profondamente legate.
Il profondo collegamento con elementi di questa straordinaria civiltà spiegherebbe, ad esempio, la presenza presso la Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, dipinta da Benozzo Gozzoli nel 1459, di Cosimo de’ Medici ritratto nei panni di un imperatore Inca (Pachacutèc, nel caso di specie).
Questo ciclo pittorico presenta molte analogie con il ciclo della Casa del Pellegrino, tra cui le scene di caccia al cervo con l’utilizzo dei cani e soprattutto la presenza di due linci addomesticate, che lascerebbero intendere che quelli raffigurati a Civate non siano ghepardi bensì linci rosse, originarie delle Americhe, appunto.
Tra l’altro, curiosamente a loro è associato proprio un falco pellegrino, mentre il ragazzo a cavallo è Giovanni Bentivoglio, che accompagnerà Lorenzo il Magnifico e suo fratello Giuliano a Milano nell’aprile del 1465, in quel viaggio a cui fa riferimento Benedetto Dei citato in precedenza.
Se osserviamo con cura la parete di una delle sale della Casa del Pellegrino, sulla quale in un secondo momento è stata apposta la mano benedicente, possiamo notare che un cacciatore, utilizzando una lancia il cui manico sembra fatto col fusto di una Aracaceae (la famiglia che comprende le palme, per intenderci), con l’aiuto del proprio cane lotta proprio con un Pecari del Chaco, riconoscibile proprio per le caratteristiche appena enunciate e ben diverso dal cinghiale, anch’esso rappresentato sulle pareti della Casa del Pellegrino.
Nuovamente, questo tipo di rappresentazione, ci rimanda sotto il profilo sostanziale al ciclo di Benozzo Gozzoli conservato nella Cappella dei Magi di Palazzo Medici Riccardi di Firenze, dove alle spalle del corteo che include la famiglia de’ Medici al completo, si può osservare una mappa dell’America del Sud e al suo interno cacciatori intenti a inseguire un Mash Deer, un cervo tipico del Gran Chaco (riconoscibile per le orecchie smisurate), la cui caccia faceva parte di un rituale tipico delle tribù native della zona.
Questo è solo un piccolo assaggio degli infiniti risvolti che questi straordinari affreschi ci conducono a considerare, in un filone ancor più ampio che vede Leonardo legarsi indissolubilmente al territorio lariano, in ultima analisi anche a motivo proprio degli uccelli ritratti nella Casa del Pellegrino e al Casino di Caccia di Oreno (questi in particolare modo si legano a Galeazzo Sforza, che li usava spesso anche negli stendardi, associati proprio a un laghetto), di cui il falco pellegrino raffigurato in braccio ai protagonisti assume un ruolo fondamentale, ma non certamente nella direzione della caccia.
Il falco Pellegrino, oltre a essere il più veloce uccello esistente, è caratterizzato dal fatto che quando attacca le sue prede descrive una perfetta spirale aurea, o armonica, e non è quindi così remota l’ipotesi che il nome della casa che lo contenga, insieme alla Ludwigia, al girasole e all’orso andino, debba il suo nome proprio al falco ivi ritratto, e non ai visitatori in pellegrinaggio verso San Pietro al Monte.
Siamo abituati a pensare a Lecco e al territorio circostante come una realtà di pescatori, marginale alle vicende culturali, politiche e storiche del nostro paese e del mondo intero, che prima dell’avvento del Medeghino, un pirata che scorrazzava in lungo e in largo pirateggiando il lago, non avesse avuto una frequentazione culturale di rilievo.
Invece più scaviamo a fondo oltre i luoghi comuni e le ricostruzioni fantasiose, e più ci accorgiamo che questo territorio ha assistito in forma più o meno diretta alla più grande fase di sviluppo culturale, economico e politico nella storia moderna dell’uomo, dopo i fasti delle civiltà greche e antecedenti.
Oltre a tutto quanto in maniera sommaria e superficiale avete potuto intuire nel corso dei vari passaggi richiamati in precedenza, c’è un particolare che secondo me identifica molto bene quale fu il ruolo del territorio lariano di sponda sforzesca (e quindi ghibellina) nella determinazione dell’assetto economico e politico odierno.
Nel dipinto di Piero della Francesca che alle spalle di Pandolfo Sigismondo Malatesta e Sigismondo d’Ungheria vede raffigurata una importante porzione dell’America del Nord.
Sul lato destro sono raffigurati due cani, uno bianco e uno nero, espressivi dell’Ordine dei Domenicani, che nelle vicende relative all’insegnamento nelle nuove terre e nella costituzione dell’ordine dei Gesuiti hanno avuto un ruolo fondamentale.
Ebbene, a metà del ‘400, in corrispondenza con i decori della Casa del Pellegrino, per volere di un domenicano molto potente che si trovava nelle grazie di Pio II, Tommaso da Lecco, si formò la Congregazione Lombarda dei Domenicani.
Questa Congregazione aveva poteri indipendenti, e annoverava tra le sue fila il convento milanese che si trovava dove oggi sorge Santa Maria delle Grazie, sito famoso per ospitare nel suo Cenacolo l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e di fronte al quale si trova la casa degli Atellani, acquisita dopo il 1492 e già casa Landi, dal nome di un fedelissimo alleato di Ludovico il Moro. Questa casa è famosa per ospitare quella che si dice fu una vigna regalata dal Moro a Leonardo, ma solo i pochi che mi seguono da tempo sanno che conserva una mappa delle Americhe databile attorno alla metà del ‘400.
Curiosamente, di questa Congregazione affidata alla guida di Tommaso da Lecco fecero parte solo due realtà extra lombarde, vale a dire il potentissimo convento di San Marco, voluto direttamente da Cosimo de Medici in Firenze, e quello altrettanto importante di Fiesole, a testimoniare l’importanza del ruolo rivestito da questo territorio.
Territorio che, come detto in precedenza, ha visto nascere nel 1449 il potentissimo Ducato degli Sforza, in conseguenza della vittoria sui Veneziani nelle battaglie di Airuno e Calco, città quest’ultima che espresse diverse personalità importanti del governo, in affiancamento agli Sforza, come i conti Calchi ma soprattutto Cicco Simonetta, fondamentale nell’interregno tra la morte a seguito di attentato di Galeazzo Maria e Ludovico.
Tra l’altro, la figura di Ludovico il Moro ci invita a fare una ulteriore, doverosa riflessione, legata a tutto quanto raccontato in merito ai viaggi transoceanici.
Attorno al 1450, diverse sono le testimonianze attraverso le quali è possibile dedurre che vi fosse, in capo ad alcune famiglie rinascimentali tutte più o meno correlate tra loro da vincoli di parentela, una conoscenza espressa delle Americhe.
Le diverse rappresentazioni nascoste nei dipinti (di cui vi ho fatto un rapidissimo cenno) o nei manoscritti (interessante ricordare qui in relazione a quanto richiamato in merito al falco pellegrino, il manuale di falconeria appartenuto a Francesco Sforza, datato 1459) o ancora in bassorilievi (come è il caso della Ludwigia al Tempio Malatestiano, comunemente detta Rosa Malatestiana) o monete (siano esse commemorative, come quella di Pisanello inerente a Ludovico III Gonzaga con il girasole, o valutarie, come quelle legate a Pandolfo III e alla zecca di Brescia, in cui compare nuovamente la Ludwigia) lasciano chiaramente intendere in capo ai personaggi ad esse collegati non soltanto una conoscenza sotto il profilo teorico, legata magari a qualche mappa contenuta nella Geographia di Tolomeo, ma una reale attività esplorativa importante e pratica, di cui forse quanto rappresentato a Civate è la testimonianza di una partecipazione diretta di qualche marinaio locale, chissà, forse proprio uno tra il Maggi e il Casati.
Quello che alla luce di tutto ciò è più facile comprendere è proprio la caratteristica legata al pigmento della pelle di Ludovico Sforza, che gli vale l’appellativo di “Moro”, che non è certo legato alla coltivazione dei gelsi, come si tende a interpretare presuntivamente, ma più correttamente è testimonianza diretta di un meticciato derivante dalle attività libertine con cui i Signori dell’epoca erano soliti intrattenersi oltre al vincolo familiare.
Assumono tutt’altro rilievo, in tal senso, le frasi riportate dall’Anonimo Gaddiano o i disegni riportati sullo Sforziade di Cicco Simonetta che descrivono Ludovico e Bianca (ironia di una sorte infausta) , la sorella del Moro che andrà in sposa a un Sanseverino, inequivocabilmente scuri di carnagione.
Un’ultima curiosità, che supporta indirettamente la lettura appena fatta, riguarda la presenza in un edificio risalente al XV secolo nel rione lecchese di Castello di alcune statue nuovamente riconducibili all’area centro americana; che siano un altro “souvenir” di quei primi, oscurati viaggi verso il nuovo continente?
A questo punto è legittimo pensare che anche il pigmento utilizzato per pittare di rosso la parete di queste due straordinarie testimonianze possa ricondursi a qualcosa che da quel momento in poi diverrà una preziosissima risorsa, paragonata per valore all’oro e all’argento.
Mi sto riferendo al fatto che fin dall'antichità gli Incas, i Maya e gli Aztechi ricavavano il rosso carminio o lacca di cocciniglia da un insetto, la cocciniglia, chiamata Dactylopius coccus che vive su varie specie di cactus, in particolare la Nopalea coccinillifera.
Originaria del Messico (in particolare nella zona di Oaxaca) e del Guatemala, si vuole venga importata in Europa dagli Spagnoli intorno al 1512, questa cocciniglia secerne una sostanza, l'acido carmico per proteggersi dai predatori. Il colorante si ricava dal corpo e dalle uova.
Curiosamente, pare che anche il farsetto indossato da Pandolfo Malatesta fosse stato tinto in questo modo, che garantiva una maggiore durata e luminosità al colore.
Basterà effettuare una analisi spettrometrica non invasiva sul pigmento (se già non è stata fatta in fase di restauro) per risolvere questa ulteriore curiosità, che se confermata aggiungerebbe indubbiamente concretezza a tutta la tesi sviluppata.
Per tutte queste considerazioni, quindi, che si innestano perfettamente con il percorso di rivisitazione storica, artistica e culturale del nostro territorio, segnatamente in relazione alle figure più imminenti del Rinascimento fiorentino e milanese, nonché del suo personaggio di maggior spicco, vale a dire Leonardo da Vinci, la casa del Pellegrino con i suoi dipinti di recentissima scoperta costituisce una importantissima testimonianza che, se letta nel suo corretto sviluppo e unitamente a quanto espresso dal resto del territorio sotto il profilo leonardesco e manzoniano può contribuire a creare un polo importante su cui rifondare un rilancio culturale, turistico e imprenditoriale importante di una vastissima zona, che vede coinvolti i territori compresi tra Milano, la Valsassina e l’Alta Valtellina, come da tempo mi adopero affinché si realizzi.
Questo ciclo pittorico presenta molte analogie con il ciclo della Casa del Pellegrino, tra cui le scene di caccia al cervo con l’utilizzo dei cani e soprattutto la presenza di due linci addomesticate, che lascerebbero intendere che quelli raffigurati a Civate non siano ghepardi bensì linci rosse, originarie delle Americhe, appunto.
Tra l’altro, curiosamente a loro è associato proprio un falco pellegrino, mentre il ragazzo a cavallo è Giovanni Bentivoglio, che accompagnerà Lorenzo il Magnifico e suo fratello Giuliano a Milano nell’aprile del 1465, in quel viaggio a cui fa riferimento Benedetto Dei citato in precedenza.
Nel ciclo di Benozzo Gozzoli, che ricordo essere del 1459, viene raffigurata non solo l’America del Sud, ma l’isola di Cuba e il lago Titicaca, nascosti tra una miriade di personaggi, alcuni dei quali sembrano risalire la cordigliera delle Ande.
Tra i personaggi ritratti, troviamo Francesco Sforza, Cosimo de’ Medici, Giovanni Bentivoglio, Malatesta, Este e Gonzaga.
Gli Este, imparentati con Malatesta, legano a loro volta grazie a Pisanello la propria immagine a delle rappresentazione delle Americhe (1440 circa), così come i Gonzaga di Mantova. Anzi, proprio Pisanello dedicherà una medaglia, nel 1447, a Ludovico III Gonzaga, legato a sua volta ai Malatesta per via di madre.
Sulla medaglia Ludovico viene ritratto a cavallo con un girasole rivolto verso il sole, simbolo che poi si legherà alla famiglia Gonzaga e comparirà anche su alcune monete del XVI secolo, sostituendo da quel momento la più tradizionale margherita, utilizzata nelle proprie imprese sin da Ludovico I.
Noterete come ognuno di questi particolari, apparentemente anacronistici se presi singolarmente, considerati uno accanto all’altro assumano i connotati di infinite tessere di un puzzle che descrive una realtà straordinaria, che solo il limite confinante di una conoscenza limitata e parziale relega tra i racconti fantasiosi.
Insieme alla ludwigia e ai girasoli, ci sono altri fiori raffigurati alla Casa del Pellegrino che sembrano certificare ulteriormente la volontà di chi ha disposto la decorazione di queste sale di voler quasi “annunciare” una visita nel nuovo mondo.
Sto parlando delle Solanaceae, una famiglia di angiosperme dicotiledoni di cui fanno parte pomodori, melanzane, peperoncini e patate.
Inizialmente queste piante non venivano utilizzate in cucina, ma avevano un utilizzo ornamentale e i suoi frutti si dice avessero proprietà afrodisiache; da ciò deriva il nome del pomodoro, che quando giunse nelle corti europee era chiamato “pomme d’amour”.
Non è un caso che nel ciclo pittorico in esame il cavaliere ne porge alla dama un rametto con alcuni frutti, in segno appunto del proprio amore per lei.
Addirittura, nel Casino di Caccia di Oreno le Solanacae vengono utilizzate per decorare tutte e quattro le pareti della sala, con intrecci vegetali probabilmente misti a Cucurbitacee (presenti invece nella parte bassa delle sale di Civate), utilizzate simbolicamente come augurio di fertilità.
Diviene ora più comprensibile il perché la città di Oreno sia da sempre il luogo in cui ogni anno si tenga una Sagre della Patata, accompagnata da manifestazioni in costume.
Tra i personaggi ritratti, troviamo Francesco Sforza, Cosimo de’ Medici, Giovanni Bentivoglio, Malatesta, Este e Gonzaga.
Gli Este, imparentati con Malatesta, legano a loro volta grazie a Pisanello la propria immagine a delle rappresentazione delle Americhe (1440 circa), così come i Gonzaga di Mantova. Anzi, proprio Pisanello dedicherà una medaglia, nel 1447, a Ludovico III Gonzaga, legato a sua volta ai Malatesta per via di madre.
Noterete come ognuno di questi particolari, apparentemente anacronistici se presi singolarmente, considerati uno accanto all’altro assumano i connotati di infinite tessere di un puzzle che descrive una realtà straordinaria, che solo il limite confinante di una conoscenza limitata e parziale relega tra i racconti fantasiosi.
Insieme alla ludwigia e ai girasoli, ci sono altri fiori raffigurati alla Casa del Pellegrino che sembrano certificare ulteriormente la volontà di chi ha disposto la decorazione di queste sale di voler quasi “annunciare” una visita nel nuovo mondo.
Sto parlando delle Solanaceae, una famiglia di angiosperme dicotiledoni di cui fanno parte pomodori, melanzane, peperoncini e patate.
Non è un caso che nel ciclo pittorico in esame il cavaliere ne porge alla dama un rametto con alcuni frutti, in segno appunto del proprio amore per lei.
Addirittura, nel Casino di Caccia di Oreno le Solanacae vengono utilizzate per decorare tutte e quattro le pareti della sala, con intrecci vegetali probabilmente misti a Cucurbitacee (presenti invece nella parte bassa delle sale di Civate), utilizzate simbolicamente come augurio di fertilità.
Diviene ora più comprensibile il perché la città di Oreno sia da sempre il luogo in cui ogni anno si tenga una Sagre della Patata, accompagnata da manifestazioni in costume.
Detto tutto ciò, possiamo ora rivolgere il nostro sguardo all’orso, ritratto sia a Civate e sia a Oreno, che ha fatto guadagnare all’autore di questi dipinti un giudizio negativo, questo a motivo delle dimensioni ridotte e dunque innaturali con cui è ritratto, soprattutto in relazione agli uomini accanto.
Abbiamo capito che i rimandi esotici contenuti non solo in questa camera, ma in altre camere o dipinti o medaglie dell’epoca rimanda idealmente al Sud America, più precisamente alle terre peruviane.
Ebbene, esiste sulle Ande un rarissimo orso, scientificamente rispondente al nome Tremarctos Ornatus, comunemente detto Orso dagli occhiali o orso andino, la cui caratteristica, oltre a essere l’unico orso del Sud America, è quella di essere estremamente piccolo.
Solo 75 centimetri alla spalla.
Ad oggi ne restano pochissimi esemplari, quasi tutti in cattività.
Così come restano pochissimi esemplari di Catagonus Wagneri, il Pecari del Chaco.
Il pecari è un animale originario dei territori sudamericani, che si distingue dal cinghiale europeo per pochissime ma basilari differenze, tra le quali si annoverano i denti dritti (e non arcuati e sporgenti del cinghiale) e soprattutto il fatto di avere tre dita anziché due negli arti posteriori.
Abbiamo capito che i rimandi esotici contenuti non solo in questa camera, ma in altre camere o dipinti o medaglie dell’epoca rimanda idealmente al Sud America, più precisamente alle terre peruviane.
Ebbene, esiste sulle Ande un rarissimo orso, scientificamente rispondente al nome Tremarctos Ornatus, comunemente detto Orso dagli occhiali o orso andino, la cui caratteristica, oltre a essere l’unico orso del Sud America, è quella di essere estremamente piccolo.
Solo 75 centimetri alla spalla.
Ad oggi ne restano pochissimi esemplari, quasi tutti in cattività.
Così come restano pochissimi esemplari di Catagonus Wagneri, il Pecari del Chaco.
Il pecari è un animale originario dei territori sudamericani, che si distingue dal cinghiale europeo per pochissime ma basilari differenze, tra le quali si annoverano i denti dritti (e non arcuati e sporgenti del cinghiale) e soprattutto il fatto di avere tre dita anziché due negli arti posteriori.
Questo è solo un piccolo assaggio degli infiniti risvolti che questi straordinari affreschi ci conducono a considerare, in un filone ancor più ampio che vede Leonardo legarsi indissolubilmente al territorio lariano, in ultima analisi anche a motivo proprio degli uccelli ritratti nella Casa del Pellegrino e al Casino di Caccia di Oreno (questi in particolare modo si legano a Galeazzo Sforza, che li usava spesso anche negli stendardi, associati proprio a un laghetto), di cui il falco pellegrino raffigurato in braccio ai protagonisti assume un ruolo fondamentale, ma non certamente nella direzione della caccia.
Il falco Pellegrino, oltre a essere il più veloce uccello esistente, è caratterizzato dal fatto che quando attacca le sue prede descrive una perfetta spirale aurea, o armonica, e non è quindi così remota l’ipotesi che il nome della casa che lo contenga, insieme alla Ludwigia, al girasole e all’orso andino, debba il suo nome proprio al falco ivi ritratto, e non ai visitatori in pellegrinaggio verso San Pietro al Monte.
Siamo abituati a pensare a Lecco e al territorio circostante come una realtà di pescatori, marginale alle vicende culturali, politiche e storiche del nostro paese e del mondo intero, che prima dell’avvento del Medeghino, un pirata che scorrazzava in lungo e in largo pirateggiando il lago, non avesse avuto una frequentazione culturale di rilievo.
Invece più scaviamo a fondo oltre i luoghi comuni e le ricostruzioni fantasiose, e più ci accorgiamo che questo territorio ha assistito in forma più o meno diretta alla più grande fase di sviluppo culturale, economico e politico nella storia moderna dell’uomo, dopo i fasti delle civiltà greche e antecedenti.
Oltre a tutto quanto in maniera sommaria e superficiale avete potuto intuire nel corso dei vari passaggi richiamati in precedenza, c’è un particolare che secondo me identifica molto bene quale fu il ruolo del territorio lariano di sponda sforzesca (e quindi ghibellina) nella determinazione dell’assetto economico e politico odierno.
Sul lato destro sono raffigurati due cani, uno bianco e uno nero, espressivi dell’Ordine dei Domenicani, che nelle vicende relative all’insegnamento nelle nuove terre e nella costituzione dell’ordine dei Gesuiti hanno avuto un ruolo fondamentale.
Ebbene, a metà del ‘400, in corrispondenza con i decori della Casa del Pellegrino, per volere di un domenicano molto potente che si trovava nelle grazie di Pio II, Tommaso da Lecco, si formò la Congregazione Lombarda dei Domenicani.
Questa Congregazione aveva poteri indipendenti, e annoverava tra le sue fila il convento milanese che si trovava dove oggi sorge Santa Maria delle Grazie, sito famoso per ospitare nel suo Cenacolo l’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e di fronte al quale si trova la casa degli Atellani, acquisita dopo il 1492 e già casa Landi, dal nome di un fedelissimo alleato di Ludovico il Moro. Questa casa è famosa per ospitare quella che si dice fu una vigna regalata dal Moro a Leonardo, ma solo i pochi che mi seguono da tempo sanno che conserva una mappa delle Americhe databile attorno alla metà del ‘400.
Territorio che, come detto in precedenza, ha visto nascere nel 1449 il potentissimo Ducato degli Sforza, in conseguenza della vittoria sui Veneziani nelle battaglie di Airuno e Calco, città quest’ultima che espresse diverse personalità importanti del governo, in affiancamento agli Sforza, come i conti Calchi ma soprattutto Cicco Simonetta, fondamentale nell’interregno tra la morte a seguito di attentato di Galeazzo Maria e Ludovico.
Tra l’altro, la figura di Ludovico il Moro ci invita a fare una ulteriore, doverosa riflessione, legata a tutto quanto raccontato in merito ai viaggi transoceanici.
Attorno al 1450, diverse sono le testimonianze attraverso le quali è possibile dedurre che vi fosse, in capo ad alcune famiglie rinascimentali tutte più o meno correlate tra loro da vincoli di parentela, una conoscenza espressa delle Americhe.
Le diverse rappresentazioni nascoste nei dipinti (di cui vi ho fatto un rapidissimo cenno) o nei manoscritti (interessante ricordare qui in relazione a quanto richiamato in merito al falco pellegrino, il manuale di falconeria appartenuto a Francesco Sforza, datato 1459) o ancora in bassorilievi (come è il caso della Ludwigia al Tempio Malatestiano, comunemente detta Rosa Malatestiana) o monete (siano esse commemorative, come quella di Pisanello inerente a Ludovico III Gonzaga con il girasole, o valutarie, come quelle legate a Pandolfo III e alla zecca di Brescia, in cui compare nuovamente la Ludwigia) lasciano chiaramente intendere in capo ai personaggi ad esse collegati non soltanto una conoscenza sotto il profilo teorico, legata magari a qualche mappa contenuta nella Geographia di Tolomeo, ma una reale attività esplorativa importante e pratica, di cui forse quanto rappresentato a Civate è la testimonianza di una partecipazione diretta di qualche marinaio locale, chissà, forse proprio uno tra il Maggi e il Casati.
Quello che alla luce di tutto ciò è più facile comprendere è proprio la caratteristica legata al pigmento della pelle di Ludovico Sforza, che gli vale l’appellativo di “Moro”, che non è certo legato alla coltivazione dei gelsi, come si tende a interpretare presuntivamente, ma più correttamente è testimonianza diretta di un meticciato derivante dalle attività libertine con cui i Signori dell’epoca erano soliti intrattenersi oltre al vincolo familiare.
Assumono tutt’altro rilievo, in tal senso, le frasi riportate dall’Anonimo Gaddiano o i disegni riportati sullo Sforziade di Cicco Simonetta che descrivono Ludovico e Bianca (ironia di una sorte infausta) , la sorella del Moro che andrà in sposa a un Sanseverino, inequivocabilmente scuri di carnagione.
A questo punto è legittimo pensare che anche il pigmento utilizzato per pittare di rosso la parete di queste due straordinarie testimonianze possa ricondursi a qualcosa che da quel momento in poi diverrà una preziosissima risorsa, paragonata per valore all’oro e all’argento.
Mi sto riferendo al fatto che fin dall'antichità gli Incas, i Maya e gli Aztechi ricavavano il rosso carminio o lacca di cocciniglia da un insetto, la cocciniglia, chiamata Dactylopius coccus che vive su varie specie di cactus, in particolare la Nopalea coccinillifera.
Curiosamente, pare che anche il farsetto indossato da Pandolfo Malatesta fosse stato tinto in questo modo, che garantiva una maggiore durata e luminosità al colore.
Basterà effettuare una analisi spettrometrica non invasiva sul pigmento (se già non è stata fatta in fase di restauro) per risolvere questa ulteriore curiosità, che se confermata aggiungerebbe indubbiamente concretezza a tutta la tesi sviluppata.
Per tutte queste considerazioni, quindi, che si innestano perfettamente con il percorso di rivisitazione storica, artistica e culturale del nostro territorio, segnatamente in relazione alle figure più imminenti del Rinascimento fiorentino e milanese, nonché del suo personaggio di maggior spicco, vale a dire Leonardo da Vinci, la casa del Pellegrino con i suoi dipinti di recentissima scoperta costituisce una importantissima testimonianza che, se letta nel suo corretto sviluppo e unitamente a quanto espresso dal resto del territorio sotto il profilo leonardesco e manzoniano può contribuire a creare un polo importante su cui rifondare un rilancio culturale, turistico e imprenditoriale importante di una vastissima zona, che vede coinvolti i territori compresi tra Milano, la Valsassina e l’Alta Valtellina, come da tempo mi adopero affinché si realizzi.
18/07/18
la rotonda dell'Appiani
di Paola Mangano
Uno dei primi lavori che Mauro Nicora realizzò al suo rientro da Firenze, e dopo aver aperto una propria ditta, fu il restauro degli affreschi di Andrea Appiani alla Rotonda della Villa Reale di Monza. Fu anche il primo incontro con la restauratrice Pinin Brambilla, committente di quel lavoro; incontro che si rivelò fruttuoso per molti anni a venire.
Oltre a un bravo restauratore la Brambilla cercava un ottimo decoratore perché il lavoro comprendeva la ricostruzione pittorica degli ornati presenti sulle candelabre, quasi completamente andati perduti, corrosi dall’umidità di risalita, da anni di trascuratezza e abbandono.
Siamo nel lontano, si fa per dire, 1986. In quegli anni solo i giardini del complesso della Villa erano aperti al pubblico ma già si pensava a una sua ristrutturazione e riqualificazione. Così, subito dopo il restauro della Rotonda, portammo a termine anche il restauro del Teatrino e di due soffitti affrescati nel secondo piano nobile della Villa.
Oltre a un bravo restauratore la Brambilla cercava un ottimo decoratore perché il lavoro comprendeva la ricostruzione pittorica degli ornati presenti sulle candelabre, quasi completamente andati perduti, corrosi dall’umidità di risalita, da anni di trascuratezza e abbandono.
Siamo nel lontano, si fa per dire, 1986. In quegli anni solo i giardini del complesso della Villa erano aperti al pubblico ma già si pensava a una sua ristrutturazione e riqualificazione. Così, subito dopo il restauro della Rotonda, portammo a termine anche il restauro del Teatrino e di due soffitti affrescati nel secondo piano nobile della Villa.
Una recente visita alla Villa Reale di Monza, oggi completamente restaurata e aperta al pubblico, ha suscitato in me la curiosità di reperire in rete qualche informazione supplementare rispetto alle poche direttive storiche da guida turistica che di solito vengono rivolte al vasto pubblico. Sorprendentemente, o forse no, scopro che non si trovano studi approfonditi a riguardo. Da qui l’idea di iniziare una ricerca focalizzata sulla Rotonda dell’Appiani che possa servire come spunto per ampliare ed esplorare il noto e l’ignoto.
Risalgono ai primi mesi del 1777 i disegni di pianta e di elevazione realizzati dall’Imperial Regio Architetto Giuseppe Piermarini per una casa di campagna che avrebbe dovuto essere sito di villeggiatura di Sua Altezza Reale l’Arciduca Ferdinando d’Asburgo-Este, quattordicesimo figlio di Maria Teresa d’Austria, governatore della Lombardia per venticinque anni durante i quali svolse una “insignificante attività politica” essendo “gran signore…innamorato degli agi e del lusso”. (1)
Secondo le intenzioni e indicazioni della madre Maria Teresa, Ferdinando non avrebbe dovuto interessarsi agli affari di governo ma dedicarsi unicamente agli obblighi di rappresentanza esibendo il proprio rango aristocratico. Tuttavia la competenza e solerzia con cui l’Arciduca sbrigò i suoi compiti di governatore unite alla reinterpretazione autonoma nel tenere la corte, sempre più corrispondente al rango di vero e proprio sovrano piuttosto che a un mero rappresentante dello stesso, gli valsero il riconoscimento di poter usufruire di adeguate strutture ove alloggiare e ricevere, insomma più consone al suo regale profilo.
E se all’interno della città di Milano Ferdinando acconsentì a dimorare in antichi palazzi, sebbene ristrutturati nel più puro stile neoclassico (palazzo Clerici e poi Palazzo Reale) per la sua regale abitazione di villeggiatura non sembrava volersi accontentare di acquistare una delle tante ville visitate e affittate in quegli anni nelle stagioni estive considerate inadeguate per le esigenze di corte. In verità queste ville avevano per lo più caratteristiche di centro campagnolo ed economico, dove il proprietario poteva controllare la produzione dei suoi fondi, e mal si confacevano al luogo di delizie estive che l’Arciduca aveva in mente, alla stregua di Versailles o Shonbrunn per intenderci. Così cominciò a prendere forma il progetto per una costruzione completamente nuova in un terreno in quel di Monza che Ferdinando e il Piermarini visitarono nel loro peregrinare alla ricerca della villa più adatta tra quelle disponibili attorno a Milano. Nella Bassa Lombardia, in Brianza, lungo i navigli, nella terra di Cernusco erano concentrate numerose ville della nobiltà milanese. Eppure l’architettura e le forme decorative erano ancora legate alle fantasie barocche e rococò che nella seconda metà del settecento suscitavano il biasimo dei teorici razionalisti, uno stile lontano da quella semplicità di struttura, di decoro, di funzione identificata dai fondamenti delle dottrine illuministe. Inoltre nessuna era sufficientemente ampia a contenere la complessità dei cerimoniali e l’elevato numero di persone di corte.
Secondo le fonti l’inizio della costruzione della Villa Reale di Monza risale al mese di maggio del 1777. Piermarini, concluso il momento progettuale, venne investito della pesante responsabilità di unico direttore dei lavori. Per espresso desiderio di Ferdinando la Villa doveva essere abitabile entro un termine di due o tre anni. I cronisti dell’epoca seguirono con grande attenzione le diverse fasi di lavorazione trattandosi di un fatto di notevole portata, non solo per il mondo aristocratico, perché investiva anche l’assetto urbanistico del territorio attraverso ampliamenti e costruzioni di strade e viali. Il Verri in una lettera al fratello Alessandro riferì con soddisfazione che “la strada da Milano a Monza è bellissima dopo che la corte vi ha scelto il luogo per farvi la delizia”.
In una stampa del 1780, la più antica veduta della Villa, sono visibili le impalcature alla costruenda ala settentrionale; ma già a settembre di quell’anno si tengono ricevimenti e feste da ballo. La Villa è completata.
Nel novembre di quello stesso anno Maria Teresa muore lasciando il trono al figlio Giuseppe II che, avendo manifestato già dieci anni prima un atteggiamento restio a favorire il decollo della Lombardia e a spendere troppi soldi nelle sue fabbriche, sospende l’assegno che la madre elargiva a Ferdinando. Sarà stato questo il motivo, cioè trovandosi in ristrettezze economiche, che sino alla morte del fratello (20 febbraio 1790) l’Arciduca non apportò sostanziali modifiche alla Villa?
Il fatto più rilevante della ripresa delle attività edilizie è la costruzione della Rotonda e della Limoniera o Agrumeria, documentate in un foglio di spese risalente al luglio del 1790. Ferdinando trovò nel fratello Leopoldo II, salito al trono alla morte di Giuseppe II, un nuovo alleato disposto a ripristinare l’assegno mensile necessario per far fronte alle spese della “nuova fabbrica di campagna vicino a Monza e per tutti li suoi annessi.”
La sollecitudine con cui si diede avvio ai lavori era giustificata dall’imminente ventesimo anniversario di matrimonio dell’Arciduca che ricorreva nel mese di ottobre del 1791, mese e anno in cui la Rotonda venne inaugurata. Non vi è dubbio che questa nuova sala abbia rappresentato un omaggio di Ferdinando alla consorte così come ci induce a pensare il soggetto del ciclo di affreschi di Andrea Appiani; Amore e Psiche.
Il progetto architettonico venne affidato ancora al Piermarini che scelse una pianta centrale sul tema dei ninfei; circolarità che esternamente si nota appena lungo l’andamento rettilineo delle facciate. Una breve curva, una presenza così timida da sembrare un risultato di necessità spaziale piuttosto che la precisa intenzione di distinguere il padiglione dalle attigue serre degli agrumi, da un lato, e dall’ala delle cucine, dall’altro.
Giuseppe Marimonti nelle sue Memorie storiche della città di Monza scritte nel 1841 così descrive la Rotonda: “Consiste in una sala di figura circolare, la quale situata all’estremità della serra dei limoni e dei cedri, per mezzo di un corritoio congiunge questa coi reali appartamenti. Nella volta e nelle lunette di questa vaghissima rotonda, v’hanno le mirabili pitture di Andrea Appiani, il quale fino d’allora, che era ancor giovinetto ed appena reduce da Roma, meritossi il soprannome di pittore delle Grazie. Dei quattro scompartimenti di cui nella parte interna consta la rotonda, quello verso il palazzo e l’altro verso le serre, son formati da due porte, mobili per mezzo di ingegnoso ordigno, che erano del tutto coperte da due grandi specchi; gli altri due sono occupati l’uno da camino, l’altro da ampia finestra. Lo splendidissimo fondatore usò talvolta ordinare che colà fosse servito il caffè, o che venisse radunata la conversazione della sera. E se incontrava d’avere qualche personaggio ignaro delle meraviglie del luogo, ad un segreto suo cenno faceva improvvisamente scomparire uno de’ grandi specchi, onde rimanendo aperta tutta la parete, offriva nella vastità delle serre tra i fiori, le piante più peregrine ed una musica soavissima, ora un banchetto, ora una festa villereccia, effettuando in tal modo una delle più gioconde scene de’ palagi incantati. E’ ancora fra noi viva la rimembranza delle lagrime di gioia che una tale sorpresa fece spargere alla principessa estense Maria Beatrice Riccarda, moglie dello stesso reale arciduca Ferdinando, nel 1780, il dì anniversario del loro matrimonio”. Va sottolineato che in base alle fonti a noi note il Marimonti si sbagliava circa la data di inaugurazione della Rotonda (2) mentre la descrizione deve essere veritiera e ce ne lascia conferma lo scritto di M. C. Mezzotti ne “Il cronista Monzese” di qualche anno prima (1838); “ La Rotonda, dal lato dell’agrumeria, ha una gran portiera, mobile per mezzo di una macchina ingegnosa; egli è appunto da questo canto che nell’occasione in cui l’arciduca Ferdinando vi condusse la sua augusta sposa, affettando di farle vedere i lavori pittorici di Andrea Appiani, e di farle ivi prendere il caffè, dopo un sontuoso pranzo c’era stato fatto in quel dì ad anniversario delle proprie nozze, tutto ad un colpo aprissi orizzontalmente e presentossi nella magnifica attigua “citroneria” una brillantissima festiva adunanza, con due scelte orchestre, una militare e l’altra civica, chiamate dalla vicina metropoli ed ivi a tal uopo silenziosamente paratesi. Eranvi eziandio 36 coppie di sposi ivi seduti al lauto banchetto, ed abbigliati all’antica foggia lombarda, chiamati parte dalla nostra città e parte dall’amena Brianza. Questo romantico teatrale convegno era stato foggiato dietro uno slancio d’immaginazione dal celebre Piermarini. Il buon gusto ed il lusso avevano gareggiato a rendere quel luogo come un soggiorno incantato. Tutto era bello, tutto era ricco, tutto era magnifico. Doppieri, luminarie in grandissima quantità, e allorquando, quasi per incantesimo, si schiuse la magica scena, le avvenenti spose ivi radunate, in dolce ed aerea cantilena intuonarono un grazioso inno accompagnato da dodici violoncelli, che fu meraviglia ad udire. Tale dolce sorpresa commosse sì sensibilmente e fu di sì caro gradimento all’arciduchessa ch’ella versò lagrime di gioia, e restò a fruire di quell’estemporaneo originale divertimento sino all’albeggiare del dì vegnente. Dopo il confortevole invito, alternossi la danza, per la quale eransi raunate molte belle graziose ed eleganti dame ed illustri cavalieri, che non isdegnando la meschianza contadinesca, condussero oltemodo lieta la notte.”
Del passaggio che permetteva di raggiungere le serre e la Rotonda al coperto, e per questo motivo chiamato “corridoio delle dame”, si sono perse le tracce essendo scomparsa completamente, in epoca non precisata ma ancora presente nelle planimetrie sia del 1829 che del 1850, l’originaria manica edilizia di collegamento tra il corpo nord della villa e la contigua Rotonda.
Anche il camino di marmo non esiste più perché “venne levato e trasportato a Parigi nei tempi che l’Italia era costretta con dolore a formare con le proprie opere i musei di quella città.” (3) Al suo posto si aprì un portone vetrato che affacciandosi nel retrostante passo carraio consentiva il transito delle carrozze. Lo stesso segreto marchingegno a contrappesi ideato da Piermarini che muoveva la porta scorrevole aprendosi sulla limonaia non funziona più.
Se non possiamo oggi ammirare la Rotonda nella sua originaria organizzazione scenica sfruttata dall’arciduca Ferdinando per colpire i suoi ospiti restano di grandissimo godimento gli affreschi dell’Appiani per l’appunto da noi restaurati nella metà degli anni ottanta del secolo scorso.
Fu comunque “l’Arciduca estimatore dei sudditi ingegni” che “fece a sé chiamare il dipintore Andrea Appiani, che benché a quei tempi ancora giovane, pure avea di già dato non equivoci segni di voler salire ad eminente grado nell’arte pittorica. Al cui invito egli oltremodo lieto annuendo, argomento scelse in quell’occasione alla fausta circostanza sponsalizia adatto; ed in poche giornate poiché somma era la fretta con che terminato si volea questo lavoro, egli vi dipinse a fresco le favole di Amore e Psiche con tanta filosofia di composizione e con tale leggiadria di contorni che chiunque anche oggidì recasi a vederla ne resta meravigliato tanta è l’intelligenza e la maestria con cui furono collocate le avventure dolci ed amorose del Nume che vuoisi un dì imperasse sul cuore degli uomini e sulla libertà degli Dei “ (4)
Sino a tempi recenti la data di esecuzione degli affreschi della Rotonda era concordemente segnalata come l’anno 1789, basandosi su quanto scrisse Giuseppe Beretta nel 1848 nella sua monografia dedicata all’artista:
“A parlar del merito di questi dipinti, convien osservar davvero, che Appiani spiegò un sapere veramente da franco artista……Appiani slanciò in quest’affresco un passo gigantesco verso l’arte perfetta, e riuscì tale nell’ammirazione delle società, che nessuno dubitò più del grado cui salirebbe in avanti…….I dipinti furono operati nell’anno 1789.” (5)
Probabilmente questa data fu accreditata unanimemente nel cerchio degli studiosi in quanto si presume che il Beretta facesse riferimento ai ricordi del padre che era stato intimo amico dell’Appiani tanto da avergli “…servito più volte per amicizia da modello pel dorso, pel volto, e le braccia del Giove,…”.
Ma come abbiamo visto più sopra, in base agli studi condotti negli anni ottanta del secolo scorso e che a tutt’oggi non hanno avuto smentita, la Rotonda venne edificata nel 1790, data in cui sono stati rinvenuti parecchi documenti che trattano di spese varie per la “sala nuova della Rotonda” in particolare uno datato 11 settembre per spese relative a muratori e manovali, uno 9 ottobre per le rizzate della strada adiacente e uno datato 6 novembre che fa riferimento al pagamento di serramenti e vetri.
Se vogliamo dar credito ancora al Beretta il 1791 fu per Appiani un anno di viaggi. In una lettera datata 20 marzo 1791 egli scrive da Firenze all’amico Giocondo Albertolli precisando che dopo questo soggiorno era sua intenzione “passar più oltre nel mio viaggio per Roma e Napoli”. Prima ancora aveva soggiornato a Parma rapito dall’arte del Correggio e a Bologna incantato dalla tavola di Santa Cecilia di Raffaello. (6) E’ lecito pensare quindi che fosse già in viaggio da parecchi giorni se non mesi; infine il Beretta ci informa del suo ritorno a Milano alla fine dell’anno 1791 quando ormai il ventesimo anniversario di matrimonio tra Ferdinando e Maria Beatrice era stato festeggiato (15 ottobre) nella Rotonda completamente finita. Gli affreschi dell’Appiani devono quindi collocarsi tra l’estate del 1790 e i primi mesi del 1791.
Ma possiamo veramente escludere che quell’anniversario di matrimonio festeggiato nella Rotonda sia stato il ventesimo e non il diciannovesimo? Benché la magnificenza della celebrazione così descritta dai cronisti dell’epoca ci induca a pensare alla ricorrenza dei vent’anni di matrimonio (che cadevano appunto nel 1791) io non escluderei una retrodatazione al 15 ottobre 1790 in quanto per quella data la Rotonda era verosimilmente finita. Anche se i documenti di pagamento dei lavori ivi svolti arrivano sino a novembre di quell’anno non significa che i lavori furono saldati esattamente alla fine della loro esecuzione. E poi mi risulta strano pensare che Ferdinando possa aver tenuto congelato nella massima segretezza alla sua stessa consorte per quasi un anno Rotonda e limoniera. Credo sia necessario approfondire gli studi per averne una certezza.
Infine un altro dubbio; in una planimetria della Villa datata 8 giugno 1791 Rotonda e Limoniera non compaiono (di questa planimetria esiste una copia in ASM, Fondi Camerali, p. a., cart. 311 e una in Racc. Cattaneo-Archivio Canonica, Manno-Svizzera). Il documento fa parte di un atto notarile stipulato tra l’arciduca Ferdinando e la Regia Ducale Camera di Milano e doveva illustrare la allegata relazione del “Pubblico Agrimensore Antonio Ferrario” ove si specificava la destinazione e l’uso, la misura, la stima, la provenienza di ciascuna particella segnata con il numero mappale. Pertanto Rotonda e agrumeto dovevano essere state considerate alla stregua delle altre strutture da giardino (serre, tempietto ecc…) non riportate nel disegno. Questo documento potrebbe anche essere la conferma che Rotonda e agrumeto non erano ancora finiti nonostante le note di spesa dell’anno precedente e confermerebbero quindi l’inaugurazione nel 20° anniversario di matrimonio dei granduchi in quell’ottobre 1791.
La situazione socio-politica di Milano e della Lombardia determinò le vicende della Villa Reale di Monza. Sul finire del secolo la famiglia arciducale abbandonò Milano per rifugiarsi a Venezia (maggio 1796). Con l’arrivo dei francesi le ali della villa furono occupate da un reggimento di ussari. Nel 1797 su diretto interessamento di un semplice cittadino, tale Domenico Palmieri, la villa diventò proprietà della Repubblica Cisalpina. Ma con una truppa di soldati accampata al suo interno ruberie, spoliazioni, danni e disordini erano all’ordine del giorno. Un primo passo per evitare il peggio fu compiuto dal generale Murat desideroso di avere una casa di campagna in quel di Monza. Alla fondazione della Repubblica Italiana nel 1802 con Napoleone capo dello Stato la villa diventa residenza estiva del vice presidente Francesco Melzi d’Eril. Nel 1805 Napoleone divenutò Imperatore di Francia; trasformò la Repubblica in Regno affidando l’incarico di Viceré a Eugenio di Beauharnais che prenderà alloggio nella Villa di Monza da quel momento detta Reale. Affiancato dall’architetto Luigi Canonica la ristrutturerà e ne apporterà significative trasformazioni.
Con la caduta di Napoleone i governatori austriaci continuarono la tradizione della villeggiatura e delle funzioni rappresentative nella Villa di Monza. L’architetto Giacomo Tazzini, succeduto al Canonica, continuò le opere già intraprese dai francesi.
Con l’annessione della Lombardia al Piemonte (1859) ed il costituirsi del Regno d’Italia la Villa entrò a far parte del folto numero di complessi reali sparsi sul territorio nazionale che Vittorio Emanuele II si trovò a dover mantenere. Vi risiedette soprattutto il figlio Umberto I con la moglie Margherita di Savoia che la arricchirono per conferirle maggior sontuosità regale. La maggior parte delle trasformazioni risalgono al 1895 ad opera del marchese Villamarina e dell’architetto Luigi Tarantola e poi ancora dall’architetto Achille Majnoni d’Intimiano.
Proprio nei pressi della Villa Reale Umberto I venne assassinato il 29 luglio del 1900. Da allora per la villa iniziò un lento declino, privata poco per volta di ogni oggetto e di tutti i mobili fino ad essere definitivamente chiusa e abbandonata. Dal 1923 al 1927 fu sede della biennale di Arti Decorative. Nel 1934 con Regio Decreto Vittorio Emanuele III fece dono di gran parte della Villa ai Comuni di Monza e di Milano, associati. Con l’avvento della Repubblica, l’ala sud è amministrata dallo Stato Italiano.
In questi ultimi anni la villa è stata oggetto di un progetto di recupero e valorizzazione ancora in corso che le ha permesso di entrare a far parte delle Residenze Reali Europee, sede di eventi e mostre.
fonte: https://passionarte.wordpress.com/
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Note
1) – F. Valsecchi, Dalla pace di Aquisgrana alla pace di Lodi, in Storia di Milano, XII, L’età delle riforme (1706-1796), Milano 1959
2) – Va segnalata anche una dettagliata planimetria della villa risalente al 8 giugno 1791 dove Rotonda e limoniera non compaiono ancora (ASM Fondi Camerali).
3) – G. Beretta, Due parole intorno alle ” memorie storiche della città di Monza” Milano, 1842
4) – G. Mazziotti, Almanacco di storia patria per l’anno 1838, Monza 1938
5) – Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848, pag.107/108
6) Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848, pag. 120
1) – F. Valsecchi, Dalla pace di Aquisgrana alla pace di Lodi, in Storia di Milano, XII, L’età delle riforme (1706-1796), Milano 1959
2) – Va segnalata anche una dettagliata planimetria della villa risalente al 8 giugno 1791 dove Rotonda e limoniera non compaiono ancora (ASM Fondi Camerali).
3) – G. Beretta, Due parole intorno alle ” memorie storiche della città di Monza” Milano, 1842
4) – G. Mazziotti, Almanacco di storia patria per l’anno 1838, Monza 1938
5) – Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848, pag.107/108
6) Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848, pag. 120
Bibliografia
– La Villa Reale di Monza, a cura di Francesco de Giacomi, Editore Associazione Pro Monza1984.
– Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848
– Guido Marangoni, La Rotonda dell’Appiani nella Villa Reale di Monza, GLI EDITORI PIANTANIDA VALCARENGHI, Milano 1923
– Memorie storiche della città di Monza, Anton-Francesco Frisi, Giuseppe Marimonti; Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana, Monza 1841: Tipografia di Luca Corbetta
– Dott. Mezzotti di Castellambro, Il cronista monzese, Almanacco di rimembranze patrie per l’anno 1838, pubblicato da Ferdinando Borsa, Cartolaio in Monza nella Corsia di S. Pietro Martire
– La Villa Reale di Monza, a cura di Francesco de Giacomi, Editore Associazione Pro Monza1984.
– Le opere di Andrea Appiani … / commentario per la prima volta raccolto dall’incisore Giuseppe Beretta, Milano : G. Silvestri, 1848
– Guido Marangoni, La Rotonda dell’Appiani nella Villa Reale di Monza, GLI EDITORI PIANTANIDA VALCARENGHI, Milano 1923
– Memorie storiche della città di Monza, Anton-Francesco Frisi, Giuseppe Marimonti; Antonio Cavagna Sangiuliani di Gualdana, Monza 1841: Tipografia di Luca Corbetta
– Dott. Mezzotti di Castellambro, Il cronista monzese, Almanacco di rimembranze patrie per l’anno 1838, pubblicato da Ferdinando Borsa, Cartolaio in Monza nella Corsia di S. Pietro Martire
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