16/03/18

PPP - 27 - Mattei, Pasolini e Moro, tre martiri dei poteri occulti




La verità è l’unica forma di giustizia possibile. E’ la verità che fa giustizia”

Giovanni Moro, figlio di Aldo Moro


Un filo rosso unisce l’omicidio di Enrico Mattei, il delitto Pasolini e il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, tre eventi della recente storia italiana apparentemente slegati tra loro ma dietro ai quali c’è la longa manus dei poteri occulti, che hanno ordito una trama intessuta di collusioni, omertà istituzionali, depistaggi e insabbiamenti, di cui la principale vittima, oltre alle tre figure summenzionate, alle loro famiglie e alle persone che gli hanno voluto bene, è il popolo italiano. Mattei, Pasolini e Moro sono dei martiri ante litteram, le vittime sacrificali di una cospirazione che si snoda lungo due decenni, i decenni dello stragismo brigatista e dello stragismo di Stato, macchiatisi di sangue innocente. Tutte e tre queste figure cercarono, infatti, ognuno nel proprio campo di azione, di affrancare l’Italia dall’assoggettamento a poteri stranieri. Enrico Mattei tentò, e gli fu impedito, di dare al suo paese l’autonomia energetica attraverso la sigla di accordi bilaterali con i paesi arabi, accordi che nel progetto visionario dell’imprenditore avrebbero bypassato la dipendenza dell’Italia dalle Sette sorelle, le compagnie petrolifere che detengono ancora oggi il monopolio nel settore. Pasolini, dal canto suo, aveva compreso molto bene le dinamiche su cui si regge il potere. Cercò disperatamente di risvegliare le coscienze attraverso la denuncia dei piani sovversivi dei poteri forti, che in Italia si avvalevano della complicità di una parte della classe politica. Affidò al suo romanzo, Petrolio, uscito postumo, la verità che negli anni aveva pazientemente ricostruito sui meccanismi di funzionamento del potere, gli stessi che aveva messo in scena nel suo capolavoro cinematografico, Salò e le 120 giornate di Sodoma. L’intellettuale fu poi impegnato anche nello smascherare il Pensiero unico, che proprio negli anni ’70 stava iniziando a enuclearsi sotto forma del conformismo e della massificazione culturale. Fu messo a tacere per sempre. Aldo Moro, con la sua realpolitik, provò a liquidare Yalta attraverso l’inglobamento del PCI nel governo, seppure sotto forma di appoggio esterno. Tale operazione avrebbe creato, almeno in Italia, un superamento della Guerra fredda e la creazione di un terzo asse indipendente dai diktat delle due potenze egemoni, Stati Uniti e Unione sovietica. Questo disegno non poteva attuarsi: l’Italia, soprattutto per la sua posizione strategica di “capitale” naturale del Mediterraneo, non era libera – e ancora oggi non lo è – di gestire in autonomia la propria politica interna senza produrre dei contraccolpi che avrebbero inevitabimente destabilizzato gli equilibri internazionali. Questa eventualità era da scongiurarsi con tutti i mezzi, leciti ed illeciti. E fu il ricorso a mezzi illeciti che i poteri occulti scelsero come opzione per sbarazzarsi di Moro. Tale operazione doveva però risultare credibile all’opinione pubblica, ignara in gran parte della regia occulta che manovrava da dietro le quinte lo stragismo e il brigatismo: ecco perché furono coinvolte le Brigate rosse, il capro espiatorio perfetto. Va anche detto, ad onor del vero, che fu grazie all’effettiva partecipazione dei membri delle Brigate rosse se quella messinscena funzionò alla perfezione. La responsabilità dei leader brigatisti rimane, aggravata dal fatto che ancora oggi, dopo quarant’anni, essi continuano a sostenere la versione di comodo, quella della Brigate rosse come unica artefice del sequestro e dell’uccisione dello statista. Una versione che è stata di recente liquidata come favola dalla Seconda Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Aldo Moro, i cui Atti dimostrano senza ombra di dubbio che all’operazione parteciparono apparati deviati dello Stato e i servizi segreti delle principali potenze mondiali. Questo perché nel rapimento di Aldo Moro confluirono “miracolosamente” gli interessi di tutti i poteri occulti: Moro doveva morire. Le motivazioni di tale condanna a morte, a parere di chi scrive, non sono riconducibili solo ed esclusivamente alla politica interna spregiudicata che Moro portava avanti, mirante e includere nell’assetto governativo la principale forza comunista d’Europa. Un'altra motivazione, da alcuni analisti giustamente messa in evidenza, fu la politica economica attuata da Moro, in particolare l’emissione nel 1966 della cartamoneta da 500 lire, misura che infastidì non poco i potentati finanziari, poiché i biglietti di Stato da 500 lire a corso legale non erano sottoposti al prestito di Bankitalia e della Banca Centrale Europea. Ma ancora più pregante è la motivazione culturale e spirituale che spinse i poteri occulti a disfarsi di un cane mezzo sciolto come Moro. Ricordo qui una frase che lo statista amava ripetere ai suoi studenti universitari all’inizio di ogni anno accademico (Moro fu docente di diritto penale all’Università “La Sapienza”): “la persona prima di tutto”. Tale affermazione può essere interpretata come l’assunto programmatico su cui si fondò la politica di Aldo Moro, impregnata di profondo rispetto per la dignità della persona umana. Emblematica, da questo punto di vista, la riforma che Moro, in qualità di Ministro dell’Istruzione,  attuò nel ‘59 (ma la legge entrò in vigore solo a partire dal ’62) della scuola pubblica con l’istituzione della Scuola Media unica, con cui venne superata la concezione elitaria e discriminatoria  su cui si fondava la Riforma Gentile. Tale legge permise a tutta la popolazione, per la prima volta nella storia dell’Italia, di accedere a un’istruzione veramente paritaria e uniforme. Non è un caso se, negli anni successivi alla riforma della scuola, si ebbe un boom di iscrizioni agli istituti superiori da parte dei figli delle famiglie meno abbienti, un dato, questo, indicativo degli effetti riequilibranti che la Riforma del ’62 aveva prodotto. Questa fondamentale conquista civile e sociale fu merito di Moro, il quale ebbe a dichiarare nel ’61: “noi, sicuri di interpretare la coscienza della grande maggioranza della popolazione, affermiamo che la difesa della scuola pubblica significa difesa della Costituzione, del regime democratico, dell’avvenire civile di tutti gli italiani, nell’unità, nella libertà e nella pace”.

Ma l’umanità e anche l’afflato spirituale dello statista emergono in tutta la loro evidenza dalle lettere e dal Memoriale che egli scrisse durante i suoi 55 giorni di prigionia. Moro sapeva che la sua morte era stata già decisa, ma non per questo smise di credere nella giustizia umana, forte della sua convinzione in un’altra esistenza dopo la morte. Ecco uno stralcio molto toccante del Memoriale: “Questo paese non si salverà. La stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se non un nuovo senso del dovere. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali, come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo. Forse il destino dell’uomo non è realizzare pienamente la giustizia ma avere della giustizia sempre fame e sete”. Il senso del dovere a cui allude Moro è quello di salvare una vita umana, la sua, non in virtù del suo ruolo di Presidente del Consiglio, ma perché la vita di una persona, venendo prima di tutto, ha valore di per sé e non può essere ancorata a nessuna ragion di Stato o strategia di politica estera. E fu per questo motivo che Moro vide nei comunisti italiani non dei nemici da abbattere ma degli interlocutori con cui avviare un dialogo per il bene del Paese. Per lo stesso motivo Moro varò una legge di Riforma della scuola che garantì a tutti i cittadini italiani pari opportunità di istruzione e formazione. Credo che questi pochi esempi siano sufficienti a rivelare lo spessore spirituale di Aldo Moro, una persona certamente con dei limiti umani come tutti noi, ma che aveva una propria visione, una visione “alta” dei doveri dello Stato e dei diritti che esso doveva garantire ai suoi cittadini per una loro effettiva inclusione nei processi democratici. Ed è questa visione che fa di Aldo Moro un vero e proprio umanista, nel senso di erede dei valori dell’Umanesimo, che poneva al centro del microcosmo e del macrocosmo l’essere umano, con le sue potenzialità da sviluppare nel rispetto di altri essere umani. Oggi noi italiani non attingiamo più a quella visione. Oggi alla dignità delle persona umana, in Europa e nel resto del mondo, anteponiamo il profitto, la produttività e il puro calcolo. Per tale ragione abbiamo bisogno di aprire una nuova stagione dei diritti e delle libertà, non quelle effimere, le briciole che il potere dispensa sotto forma di nuovi diritti civili, che altro non sono se non un’estensione del profitto in settori creati ex novo per il mercato, ma quelle veramente fondanti la dignità delle persona, il diritto al lavoro e alle tutele sociali in primis. Quella stagione, iniziata negli anni ’60, venne bruscamente interrotta da una scia di sangue prodotta dalle stragi di Stato e dalla destabilizzazione interna. Come affermava un documento del ’75 della Trilateral Commission dal titolo La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie, – la TC è un organismo sovranazionale occulto, che detta l’agenda politica del mondo – in Italia c’era negli anni ’70 un “eccesso di democrazia”, che nell’ottica deviata dei suoi membri andava corretto. Come? Attraverso il ritorno delle masse alla passività e all’obbedienza. Nella concezione della TC a governare dovevano essere poche persone: giuristi, banchieri e politici di professione”. Il documento individua inoltre nelle istituzioni educative e formative dell’Occidente (scuola, università e chiese) le responsabili dell’eccesso di democrazia che aveva portato alla crisi della stessa. Una concezione della democrazia, quella della TC, agli antipodi delle frange più illuminate della stessa Democrazia Cristiana e del PSI, che invece in quegli anni lavoravano per un’implementazione della democrazia affinché i principi della Costituzione non rimanessero solo sulla carta.

Quale lezione apprendere dalla triste vicenda di Aldo Moro, di Mattei e di Pasolini? In sintesi questa: l’Italia non è mai stata un paese davvero libero. Tutte le volte che ha imboccato la strada giusta per diventarlo sono intervenuti i poteri forti nel bloccare il processo in atto. Questo avvenne con Aldo Moro e il suo progetto delle “larghe intese”, ma avvenne anche con Craxi e il suo progetto di sganciarsi dalla politica estera degli Stati Uniti. Un affronto del genere non poteva che essere pagato con la morte. Perciò Mattei, Pasolini e Moro devono essere ricordati alla stregua di martiri che hanno versato il loro sangue per questo paese, la cui coscienza è ancora ottenebrata. Certo, martiri laici, ma non per questo meno meritevoli dell’onore tributato abitualmente ai martiri della fede.  

fonte: https://federicafrancesconi.blogspot.it/

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