24/02/17

quei bambini usati come cavie per testare un vaccino: morirono in 28

SPINEA - «In quel maledetto marzo 1933 fummo utilizzati come cavie umane. Io sono sopravvissuto, tanti altri bambini no. Ma a tutti quei piccoli martiri non è dedicata nemmeno una targa».

Sono passati esattamente ottant'anni, ma il ricordo è ancora vivo nella mente di Adamo Gasparotto, che ora abita a Spinea e di anni ne ha quasi 86. Per gli storici locali e per gli anziani residenti del paese, quella del 1933 è ricordata come "La strage di Gruaro".

La storia, struggente, è documentata da molte ricerche storiche relative al periodo fascista. «Il prefetto e le altre autorità di allora, su indicazione del regime, scelsero i Comuni di Gruaro e Cavarzere per testare un nuovo vaccino contro la difterite - racconta Gasparotto -. Il nostro dottore era del tutto contrario, ma evidentemente c’era il bisogno di provare sul campo il vaccino. La puntura venne fatta a 253 bambini e ben 28 morirono nei giorni seguenti. Quasi sotto silenzio».

Tra quei 253 bimbi c'erano pure Gasparotto e la sua sorellina di tre anni: «Ci somministrarono quel vaccino all'ambulatorio comunale, ma tornati a casa ci sentimmo tutti male - racconta riportando le testimonianze degli adulti dell'epoca -. Si cadeva a terra e, mangiando, si rischiava di soffocarsi. Tutti piangevano, il paese era in apprensione. Alla fine ci dovettero ricoverare a Portogruaro, dove l'ospedale era pieno e vennero organizzati reparti di fortuna. Eravamo tutti terrorizzati, ogni tanto qualche bambino moriva e si capiva dalle urla delle mamme».

Gasparotto e la sorellina se la cavarono, e solo negli anni seguenti si chiarì quanto era successo: «Un contenitore di siero in un laboratorio di Napoli non fu fatto bollire - racconta Gasparotto -. Le fiale che finirono a Gruaro contenevano vaccino vivo, una sostanza letale».

di Gabriele Pipia

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20/02/17

Garibaldi e il saccheggio del Regio Banco di Sicilia




Il 27 maggio del 1860 data l’inizio della scientifica spoliazione e della rapina delle ricchezze e dei beni delle genti del Sud e dei siciliani Con l’entrata di Garibaldi a Palermo ha infatti inizio il saccheggio della tesoreria del Regio Banco di Sicilia . Del resto che cosa ci si poteva aspettare da un  predone che in Sud America era uso, grazie alle lettere di “ corsa” assaltare e depredare, per far  bottino, le navi imperiali brasiliane e spagnole.
Dell’enorme tesoro in lingotti d’oro  che allora il Banco di Sicilia conteneva e che fu saccheggiato da Garibaldi  ne è testimonianza il fatto che poco meno di un anno prima (nel 1859) i dirigenti del banco siciliano avevano commissionato ad alcune imprese edili il rafforzamento della pavimentazione del Banco stesso resa pericolante dall’enorme peso della traboccante cassaforte in cui appunto erano contenute ingenti somme di denaro e enormi quantità di lingotti d’oro. Ad alleggerirla in quel maggio del 1860 e a risolvere i problemi e i pericoli del sovrappeso  della cassaforte ci pensò,  alla sua maniera, Garibaldi rapinando il contenuto della cassaforte e depredando i palermitani e i siciliani dei loro risparmi.
Il tutto avvenne in occasione dell’incredibile e inspiegabile ingresso di Garibaldi in una Palermo presidiata da 24000 borboni e dopo la farsa della battaglia di Calatafimi, dove grazie al tradimento e alla corruzione (il prezzo del tradimento ammontò allora a 14000 ducati) del generale Landi ,3000 borboni batterono in ritirata di fronte a circa 1000 garibaldini male in arnese e nella quasi totalità inesperti all’uso delle armi. In quell’occasione, proprio quando i borboni in numero nettamente superiore e attestati in una posizione più che favorevole, si accingevano a sconfiggere facilmente i garibaldini, il generale  Landi , che già aveva intascato una fede di credito di 14000 ducati, un somma enorme per quei tempi equivalenti a 430 milioni di vecchie lire e 224 mila euro dei nostri giorni, diede ordine al proprio trombettiere, di suonare il segnale della ritirata, lasciando sbigottiti ed esterrefatti gli stessi garibaldini che, a quel punto, non credevano ai propri occhi. Come non credevano ai propri occhi gli stessi soldati borbonici che con rabbia e sdegno, loro malgrado, furono costretti a ubbidire. Scriverà poi Cesare Abba nelle suo libro “Da Quarto al Volturno” : “E quando pensavamo di avere perso improvvisamente ci accorgemmo di avere vinto e meravigliati dal campo stemmo a guardare la lunga colonna ritirarsi a Calatafimi”. E ancora , uno dei Mille , Francesco Grandi nel suo diario così riportava:”Ci meravigliammo non credendo ai nostri occhi e alle nostre orecchie, da come si erano messe le cose, quando ci accorgemmo che il segnale di abbandonare la contesa non era lanciato dalla nostra tromba ma da quella borbonica.” Più chiaro di così . Tanto potéa  Calatafimi il tradimento e la corruzione del generale Landi come possiamo rilevare da quanto riportato nei loro diari degli stessi garibaldini increduli testimoni dell’”inglorioso” evento.  Ma “l’intelligenza con il nemico” di Landi nella battaglia di Calatafimi non fu  certo pari a quella del generale Lanza a Palermo. Questi lo superò di gran lunga,nel modo come all’alba del 27 maggio agevolò l’entrata di Garibaldi a Palermo da  porta Termini, lasciandola deliberatamente sguarnita e non prendendo alcun provvedimento malgrado alcuni suoi ufficiali lo sollecitassero a fare uscire le truppe (che contavano ben 24000 uomini) acquartierate al palazzo reale per contrastare i circa 3000 garibaldini ( ai Mille si erano nel frattempo aggiunte alcune bande di picciotti molte delle quali condotte da noti mafiosi dell’epoca) che si accingevano a entrare in città. Lanza  lasciò deliberatamente il grosso delle truppe inoperose e poca resistenza poterono fare le 260 reclute che erano rimaste a presidio di porta Termini da cui, travolta questa scarsa resistenza, i garibaldini dilagarono in città rimanendone nei giorni successivi assoluti padroni poiché Lanza si ostinava a tenere inspiegabilmente (era evidente il tradimento e la connivenza con il nemico) le sue truppe acquartierate e inoperose nei pressi del Palazzo Reale. Nei giorni seguenti, fedele a un copione già stabilito e concordato, chiede per il giorno 29 maggio all’ammiraglio inglese Mundy, che si trovava con la sua nave ammiraglia Hannibal nella rada di Palermo la mediazione per la firma di un armistizio che verrà accordato e che si protrarrà sino al 3 giugno . Nelle more dell’armistizio, per accordare ulteriori  3 giorni  di proroga  Garibaldi, pretenderà la consegna di tutto il denaro del Regio Banco delle Due Sicilie. E come è facilmente arguibile, da copione già scritto, il Lanza acconsentirà facendo per questo nascere il legittimo sospetto, alla luce degli avvenimenti di quei giorni caratterizzati da tradimenti e corruzioni, che, nella divisione della torta del saccheggio del Banco, una fetta non indifferente andasse alla fine nelle  capienti tasche del generale borbonico.  Del resto, di qualche giorno a Calatafimi sulla falsariga della corruzione e del tradimento, lo aveva preceduto per cifre più modeste il generale Landi. La cronaca di quei giorni e della consegna di quanto contenuto e saccheggiato  dal Banco delle Due Sicile” e bene e dettagliatamente riportata nel libro di Lucio Zinna “il Caso Nievo”( che come si sa fu il vice intendente di finanza  della spedizione dei Mille). Zinna fa una  puntuale e interessante ricostruzione del caso Nievo e della sua misteriosa morte avvenuta  nel marzo del 1861, nell’affondamento del Piroscafo Ercule  a punta Campanella nei pressi di Napoli mentre stava portando a Torino  la rendicontazione della gestione amministrativa e finanziaria dell’impresa dei Mille comprendente anche,  si presume, la vicenda riguardante la “consegna” del denaro del Banco delle Due Sicilie preteso da Garibaldi all’atto dell’armistizio. Ma sfortunatamente tutto andò a fondo nel naufragio dell’Ercole e ogni notizia al riguardo si perse con la misteriosa morte di Nievo. Lucio Zinna nel suo interessante libro, così puntigliosamente e minuziosamente, ricostruisce  la cronaca del ” prelievo” fatto da Garibaldi a danno dei palermitani e dei siciliani al Banco delle Due Sicilie: “ Il primo giugno Francesco Crispi e Domenico Peranni (ultimo tesoriere di nomina borbonica,ben presto e per breve tempo Ministro delle Finanze della dittatura garibaldina)  ricevettero nel palazzo delle finanze, dallo stesso generale Lanza e in presenza di funzionari, la somme che vi erano custodite. Complessivamente 5 milioni 444 ducati e 30 grani. E poiché nella monetazione siciliana-spiega Zinna nella sua puntuale ricostruzione – un ducato,equivalente a dieci tarì, corrispondeva al cambio in lire italiane di 4,20, la somma complessiva ammontava a 22 milioni 864 mila 801 ducati e 26 centesimi pari  a 166 miliardi 962 milioni 738 mila 984 lire che tradotti in euro fa 86 milioni 229 058 e 44 centesimi.  Un importo complessivo costituito  dai depositi dei privati tranne 112 mila 286 ducati di pertinenza erariale. Una somma enorme equivalente a quasi metà delle spese sostenute nella guerra franco piemontese del 1859 contro l’Austria. E fu così che privati cittadini palermitani e siciliani si videro così spogliare di tutti i loro risparmi  ai quali Garibaldi  rilasciò una improbabile ricevuta con su scritto “ Per spese di guerra” con l’impegno  che il nuovo stato avrebbe restituito il prestito. Il foglietto contenente la ricevuta restò negli archivi a futura memoria. Il dovuto non fu mai restituito  ma distribuito ai garibaldini , alla copertura delle spese delle guerre sabaude e al ripianamento del debito pubblico dello stato più indebitato d’Europa che era allora il Piemonte per le enormi spese di guerra sostenute. I siciliani e i palermitani aspettano ancora di essere risarciti di queste rapine anche per questo la magica parola Risorgimento vorrà ancora oggi ,per loro significare, con i dovuti interessi, Risarcimento. Di questo prelievo indebito e forzato è difficile, trattandosi di un vero e proprio atto di saccheggio e di pirateria dei depositi bancari dei siciliani, trovarne traccia nelle cronache e nei libri del tempo. Ne fa cenno nel suo libro-diario “La Flotta inglese e i mille” l’ammiraglio sir Rodney Mundy, inviato, con la sua flotta, dal governo del suo paese, a scortare e  proteggere Garibaldi, che così debitamente riporta l’avvenimento : 1° giugno – Riferendosi alle clausole della convenzione firmata dal generale Lanza e dal sig. Crispi, segretario di stato del governo provvisorio, la Finanza e la Zecca reale passava agli insorti. Nelle casse furono trovate un milione e duecentomila sterline in denaro contante” (Corrispondente, in sterline, all’ingente somma così bene e minuziosamente descritta da Lucio Zinna)
Per non fare torto ai siciliani e ai palermitani, appena giunto a Napoli, Garibaldi non si fece parimenti scrupolo di depredare e usare lo stesso trattamento e gli stessi metodi di rapina alla capitale del Regno delle Due Sicilie. Il palazzo reale fu spogliato e depredato di tutto e così come avvenne a Palermo fu saccheggiato l’oro della Tesoreria dello Stato e tutti i depositi del Banco di Napoli requisiti e dichiarati beni nazionali  . Con un decreto del 23 ottobre, ben 6 milioni di ducati  equivalenti a 118 miliardi delle vecchie lire e a 90 milioni degli attuali euro provenienti da questi saccheggi furono poi divisi tra gli occupanti e i loro sodali. Furono pure requisiti il patrimonio e i beni personali di Francesco II di cui indebitamente si impossessò Vittorio Emanuele II . Più avanti il re di Sardegna si offrirà di restituirli al legittimo proprietario se questi avesse acconsentito a rinunciare al suo diritto al trono delle Due Sicilie. “La dignità non si compra” fu la lapidaria risposta del deposto ultimo re della dinastia borbonica in Italia ,definita “la negazione di Dio”, al re “galantuomo”che lo aveva depredato di tutto. E dire che di recente il ballerino cantante principe  Emanuele Filiberto di Savoia e suo padre Vittorio Emanuele, degni discendenti del re “galantuomo”, con la regale faccia tosta che li contraddistingue, rientrati dall’esilio pretendevano un cospicuo risarcimento per svariati milioni di euro per i danni subiti, a loro dire, dallo stato italiano. Avrebbero fatto bene i due ridicoli e patetici rampolli discendenti di casa Savoia a rileggere la Storia di quei tempi e rivisitare i massacri le rapine, le spoliazioni e i saccheggi perpetrati indebitamente dai loro avi a danno delle popolazioni meridionali e per questo, esse e non i Savoia, legittimamente destinatarie di risarcimenti mai bastevoli a compensare gli incommensurabili e inestimabili danni subiti.
Ma torniamo al generale Ferdinando Lanza. Dopo avere consentito a Garibaldi di depredare, nelle more dell’armistizio del 30 maggio, il Banco di Sicilia in cui si presume abbia avuto la sua parte di “bottino”,giusto il tempo di consentire saccheggio, firmerà appena sette giorni dopo (il 6 giugno) una disonorevole e umiliante capitolazione. Ben 30 mila borboni bene armati e in pieno assetto di combattimento (ai 24000 uomini accampati, che Lanza teneva inoperosi nel piano di palazzo reale, se ne erano nel frattempo aggiunti   6000 agli ordini di Bosco e Won Mekel rientrati a Palermo dopo il vano inseguimento alla colonna del garibaldino Orsini) si arrenderanno a poco più di 3000 tra picciotti e garibaldini male in arnese e scarsamente armati. Una  incredibile e assurda capitolazione che non trova alcuna elementare spiegazione in nessun manuale di strategia militare, se non giustificata dalla corruzione e dal tradimento dei generali Landi a Calatafimi e Lanza a Palermo. Scrive, a proposito di questa inconcepibile  resa, ancora Cesare Abba:  “Gli  abbiamo visti partire. Sfilarono dinanzi  a noi alla marina per imbarcarsi, una colonna che non finiva mai, fanti,cavalli, carri. A noi pare un sogno, ma  non a loro”  Era un sogno. I garibaldini ancora una volta, come a Calatafimi, non credevano ai propri occhi: avevano guadagnato una battaglia che, considerata l’enorme disparità in campo a loro  sfavorevole mai pensavano di poter vincere. Un  sogno per i garibaldini, un incubo per i soldati duo siciliani cui li aveva precipitati il tradimento e la corruzione dei propri generali.
Rientrato a Napoli,  Ferdinando Lanza finirà davanti alla Corte Marziale per alto tradimento  Non ci sarà il tempo di condannarlo per il precipitare degli eventi dovuti alla fuga da Napoli di Francesco II .  Il generale Lanza potrà così godersi il frutto delle proprie malefatte. Della sua “intelligenza con il nemico” negli avvenimenti di Palermo del giugno del 60 ne è riprova quanto avvenne poco meno di tre mesi dopo a Napoli. Il 7 settembre Lanza si recherà a palazzo d’Angri a rendere omaggio a Garibaldi e a complimentarsi per le sue “ vittorie” e ricordargli che  a queste vittorie lui aveva dato il suo determinante  e peculiare contributo.
Altrettanto bene non finirà invece al generale Landi. Vi ricordate delle fede di credito di 14mila ducati quale prezzo della sua arrendevolezza a Calatafimi? Ebbene nel marzo del 1861 quando si presenterà presso la sede del banco di Napoli per esigere il prezzo del”malaffare”, dai funzionari del banco si sentirà dire che quella fede di credito era taroccata . Il suo valore non era di 14 mila ducati ma bensì di 14 ducati a cui erano stati aggiunti truffaldinamente tre zeri. Ai dirigenti, che gli aprivano sconsolatamente le braccia, confesserà con rabbia di averla avuta personalmente da Garibaldi. Corrotto e truffato dunque , Landi, precedentemente degradato e posto in pensione, morirà per il dispiacere poco tempo dopo.
Saccheggi, spoliazioni, tradimenti corruzioni, truffe da Garibaldi ai Savoia questi gli ingredienti che caratterizzarono la conquista del Sud e portarono a una mal metabolizzata “Unità d’Italia”. Oggi, a distanza di 150 anni da quegli avvenimenti, nulla è cambiato. Con queste premesse del resto cos’altro  potevano pretendere gli italiani e le popolazioni meridionali che di questa mala Unità ne  pagarono e ne continuano  a pagare  le drammatiche e costose conseguenze.
Ignazio Coppola
http://www.complottisti.com/garibaldi-saccheggio-del-regio-banco-sicilia/

fonte; http://alfredodecclesia.blogspot.it/

quello che gli storici non dicono

La collaborazione tra nazisti ed ebrei e l’atteggiamento ipocrita dell’Occidente democratico

di Gianfredo Ruggiero

La Germania nazionalsocialista considerava pregiudizialmente gli ebrei come un elemento estraneo alla nazione. Durante la sfortunata Repubblica di Weimar (1919-33), quando la popolazione tedesca subì la più grande crisi economica e sociale della sua storia (a causa soprattutto degli enormi debiti di guerra imposti dalle potenze vincitrici del primo conflitto mondiale), molti ebrei, nonostante rappresentassero meno dell’1% della popolazione, raggiunsero nel settore economico-finanziario posizioni di alto livello e di considerevole benessere tali da essere additati, a causa della loro presunta cupidigia, come responsabili della stato di crisi in cui versava la Germania. A ciò si aggiungeva l’atavico antiebraismo cristiano, il nazionalismo esasperato e il mito della purezza ariana dell’ideologia hitleriana. 

L’origine ebraica di Karl Marx, il teorico del comunismo, e di parte della dirigenza socialista tedesca, contribuì a rafforzare tale convincimento su cui basò la sua azione Adolf Hitler che fin da subito adottò nei confronti degli ebrei una politica di restrizione dei diritti civili per spingerli a lasciare la Germania (judenfrei), anche attraverso il sostegno all’emigrazione. Quest’ultimo aspetto rispecchiava l’ideale della patria ebraica preconizzata da Theodor Herzl, fondatore del movimento sionista il quale, per quanto possa sembrare paradossale, concordava con i nazisti sul fatto che ebrei e tedeschi erano nazionalità distinte e tali dovevano restare.

Come risultato, il Governo di Hitler sostenne con vigore il Sionismo e l’emigrazione ebraica in Palestina dal 1933 fino al 1940-41 (1).

L’incoraggiamento all’emigrazione degli ebrei trovò però forti resistenze da parte della comunità internazionale e sfociò nel fallimento della conferenza di Evian del 1938, convocata da Roosevelt, dove i trentadue stati partecipanti avrebbero dovuto ognuno farsi carico di un numero di ebrei provenienti da Germania e Austria proporzionale alle loro dimensioni. L’unica nazione che si propose di accogliere rifugiati fu la Repubblica Dominicana che ne accettò circa 700, tutte le altre, con motivazioni più o meno plausibili, rifiutarono ogni forma di accoglienza (L’Italia fascista, invece, pur non avendo partecipato alla conferenza, da anni attuava una politica di ospitalità nei confronti degli ebrei).

L’atteggiamento ipocrita delle nazioni democratiche riguardo l’accoglienza degli ebrei è stato condensato in una frase di Goebbels che nel marzo 1943 poteva rilevare sarcasticamente:

« Quale sarà la soluzione del problema ebraico? Si creerà un giorno uno stato ebraico in qualche parte del mondo? Lo si saprà a suo tempo. Ma è interessante notare che i paesi la cui opinione pubblica si agita in favore degli Ebrei, rifiutano costantemente di accoglierli. Dicono che sono i pionieri della civiltà, che sono i geni della filosofia e della creazione artistica, ma quando si chiede loro di accettare questi geni, chiudono loro le frontiere e dicono che non sanno che farsene. E’ un caso unico nella storia questo rifiuto di accogliere in casa propria dei geni »(2).

Un episodio che testimonia il rifiuto dell’America ad accogliere gli ebrei riguarda la vicenda della nave St.Louis. Partita da Amburgo il 13 maggio 1939 con 937 profughi Ebrei, la nave era diretta a Cuba dove i migranti erano convinti di ottenere il visto per gli Stati Uniti. Sia Cuba sia gli Stati Uniti rifiuteranno però il permesso d’accesso ai rifugiati, obbligando così la nave a tornare in Europa.

Anche l’ipotesi di creare, prima nell’Isola di Madagascar e poi in Palestina, uno stato ebraico fallì per la forte opposizione di Francia, Inghilterra e Stati Uniti. Fallirono anche le trattative condotte Ministro degli Affari Esteri germanico Helmut Wohltat nell’aprile 1939 con il governo inglese per un insediamento ebraico in Rhodesia e nella Guinea britannica (3).

Nonostante la sostanziale indisponibilità, che rasentava il boicottaggio, delle nazioni democratiche la politica emigratoria del governo nazista proseguì con l’istituzione dell’”Ufficio per l’Emigrazione Ebraica” con sedi a Berlino, Vienna e Praga che aveva il compito di agevolare il trasferimento degli ebrei e dei loro beni in Palestina. Furono anche organizzati dei campi di addestramento in Germania dove i giovani ebrei potevano essere iniziati ai lavori agricoli prima di essere introdotti più o meno clandestinamente in Palestina (all’epoca la Palestina era un protettorato inglese che si opponeva con forza alla colonizzazione ebraica, nonostante nel 1917 si impegnò formalmente, con la dichiarazione di Balfour del 2 novembre, a costituire il focolare ebraico in Palestina).

Fatto singolare e che nei circa 40 campi e centri agricoli della Germania hitleriana gestiti direttamente dal Mossad in cui i futuri coloni venivano addestrati alla vita nei kibbutz, sventolava per la prima volta quella bandiera blu e bianca che un giorno diventerà il vessillo ufficiale dello Stato di Israele (4).

Per liberarsi della presenza ebraica favorendo l’emigrazione in Palestina, il governo tedesco stipulò con le organizzazioni sioniste il cosiddetto “Accordo di Trasferimento” noto anche come Haavara, in virtù del quale gli ebrei emigranti depositavano il denaro ricavato dalla vendita dei loro beni in un conto speciale destinato all’acquisto di attrezzi per l’agricoltura prodotti in Germania ed esportati in Palestina dalla compagnia ebraica Haavara di Tel Aviv.

certificata HAAVARA
Certificato di trasferimento di capitali ebraici dalla Germania alla Palestina

L’accordo di Trasferimento è stato sottoscritto il 10 agosto 1933 dal Ministro dell’economia del Reich Kurt Schmitt e dal rappresentante del Movimento Sionista in Palestina  Haim Arlosoroff che agiva per conto del Mapaï, il partito Sionista antenato del partito Laburista israeliano. A questa iniziativa politico-commerciale parteciparono personaggi divenuti in seguito molto noti come i futuri Primi Ministri David Ben-Gurion e Golda Meir (che collaborava da New York)(5).

Alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale, grazie all’ Haavara e ad altri accordi tedesco-sionisti, dei circa 522 mila ebrei presenti in Germania più della metà, 304 mila, poterono lasciare il paese con i loro beni superando il rigido embargo inglese. Alcuni di loro trasferirono in Palestina considerevoli fortune personali.

L’importo complessivo di danaro trasferito per mezzo dell’Haavara fra l’agosto del 1933 e la fine del 1939, fu di circa 139 milioni di marchi  (equivalenti a oltre 40 milioni di dollari). A cui si aggiungono ulteriori 70 milioni di dollari attraverso accordi commerciali collaterali. Grazie a questi trasferimenti e ai prelievi obbligatori imposti dal Movimento Sionista sulle transazion, furono costruite le infrastrutture del futuro stato ebraico in Palestina.

Lo storico ebreo Edwin Black sottolinea che i fondi ebraici provenienti dalla Germania ebbero un significativo impatto in un paese sottosviluppato com’era la Palestina degli anni ’30. Con i capitali provenienti dalla Germania furono costruite varie importanti imprese industriali, compresi l’acquedotto Mekoroth e l’industria tessile Lodzia. «attraverso questo patto, il Terzo Reich di Hitler fece più di ogni altro governo negli anni ’30 per sostenere lo sviluppo ebraico in Palestina» conclude Edwin Black(6).

Questa intesa portò successivamente ad un accordo commerciale tra Governo tedesco ed organizzazioni ebraiche con il quale arance e altri prodotti coltivati in Palestina venivano scambiati con macchinario agricolo tedesco(7).

Una immagine singolare che sintetizza meglio di altre la collaborazione tra nazisti tedeschi ed ebrei sionisti è la medaglia commemorativa coniata allo scopo dal Governo tedesco che reca su una faccia la svastica e sull’altra la stella di David.

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Medaglia commemorativa della collaborazione tra autorità tedesche e associazioni ebraiche sioniste durante gli anni trenta

Altra vicenda poco nota riguarda la nave passeggeri partita nel 1935 dal porto tedesco di  Bremerhaven con un carico di ebrei diretti ad Haifa, in Palestina. Questa nave, recava sul  fianco il suo nome, Tel Aviv, scritto in caratteri ebraici, e sull’albero sventolava la bandiera nazista con la croce uncinata. La nave di proprietà ebraica era comandata da un membro del Partito Nazionalsocialista(8).

Altro esempio della stretta collaborazione tra regime hitleriano e sionismo tedesco riguarda i gruppi giovanili ebraici come il “Bétar“ ed ai boy scouts sionisti cui fu permesso di indossare uniformi proprie  e di sventolare bandiere con simbolo dello Stato Sionista (cosa negata ad esempio ai gruppi giovanili cattolici, nonostante il Concordato).

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Manifestazione del gruppo giovanile ebraico tedesco Betar nel 1934

Intanto il governo britannico, da sempre ostile agli insediamenti ebraici in Palestina, impose delle restrizioni ancora più drastiche. In risposta a ciò, il servizio segreto delle SS concluse una alleanza con il gruppo sionista clandestino Mossad le-Aliya Bet  per portare illegalmente gli ebrei in Palestina. Come risultato di questa intensa collaborazione, vari convogli marittimi riuscirono a raggiungere la Palestina superando le navi da guerra britanniche pronte a colpire le imbarcazioni ebraiche. Nell’ottobre del 1939 era programmata la partenza di altri 10.000 ebrei, ma lo scoppio della guerra a settembre fece fallire il tentativo. Le autorità tedesche continuarono lo stesso a promuovere indirettamente l’emigrazione ebraica in Palestina negli anni successivi fino al 1941.

Una stima, seppur approssimativa, fissa in circa 800 mila gli ebrei che lasciarono i territori sotto il controllo germanico fino al 1941.

Con l’avvicinarsi della guerra ci fu la svolta e la posizione degli Ebrei cambiò in modo radicale. Il 5 settembre 1939, Chaim Weitzmann, futuro primo presidente dello stato di Israele, a nome dell’ebraismo mondiale si dichiarò parte belligerante contro i tedeschi e a fianco di Gran Bretagna e Francia (Jewish Chronicle, 8 settembre 1939). Questa vera e propria dichiarazione di guerra, che precedette l’identico atto del  marzo ’33, causò un inasprimento delle misure repressive contro gli ebrei e conferì ai nazisti una motivazione legale per la loro reclusione.WEIMAR_020

La prima pagina del quotidiano londinese Daily Expressi del 24 Marzo 1933: “L’Ebraismo dichiara guerra alla Germania, Ebrei di tutto il mondo unitevi”. “Il popolo israelita del mondo intero dichiara guerra economica e finanziaria alla Germania. La comparsa della svastica come il simbolo della nuova Germania fa rivivere il vecchio simbolo di guerra degli Ebrei. Quattordici milioni di ebrei sono uniti come un solo corpo per dichiarare guerra alla Germania. Il commerciante ebreo lasci il suo commercio, il banchiere la sua banca, il negoziante il suo negozio, il mendicante il suo miserabile cappello allo scopo di unire le forze nella guerra santa contro il popolo di Hitler”.

Il diritto internazionale, infatti,  prevede  la possibilità di internare i cittadini di origine straniera per evitare possibili azioni di spionaggio a favore dei paesi di origine (art. 5 della convenzione di Ginevra), cosa che fece l’America con i cittadini di origine giapponese: dopo averli spogliati di tutti i beni confiscandogli casa, attività e conti bancari, furono rinchiusi in campi di concentramento in condizioni disumane. Verso la fine della guerra nel campo di prigionia di Hereford, nella ricca America, i soldati italiani che rifiutarono di collaborare con gli alleati venivano volutamente sottoalimentati e lasciati morire di tubercolosi, senza cure, sotto l’acqua o il sole cocente, in mezzo agli abusi dei carcerieri che non esitavano ad uccidere al primo cenno di insofferenza. Prima di loro gli inglesi avevano internato, durante la guerra contro i Boeri,  oltre 100 mila donne e bambini nei campi di concentramento in sud Africa,  di questi  27 mila morirono di stenti, malattie e malnutrizione (crimini passati sotto silenzio).

Lo scoppio del conflitto pose fine alla politica tedesca di incoraggiamento al trasferimento degli ebrei verso la Palestina (nel 1942 restava in attività nella Germania un solo Kibbutz a Neuend(9).

Tuttavia, nei primi anni di guerra, i rapporti tra nazisti e organizzazioni ebraiche non furono del tutto interrotti, ma si spostarono sul piano prettamente militare in funzione anti inglese, anche se  l’influenza che ebbero sugli avvenimenti bellici fu praticamente nulla.

Agli inizi di gennaio del 1941 una piccola, ma importante organizzazione sionista, Lehi o Banda Stern (il cui leader Avraham Stern fu assassinato dalla polizia britannica l’anno successivo), fece ai diplomatici nazisti a Beirut una proposta formale di alleanza per lottare contro gli inglesi: la cosa che più colpisce è che uno di essi era Yitzhak Shamir, futuro primo ministro di Israele(10).

Con il proseguimento della guerra che richiedeva sempre più soldati al fronte e operai nelle fabbriche il governo tedesco abbozzò l’idea di utilizzare massicciamente gli ebrei nell’industria bellica. Dopo l’attacco alla Russia l’idea del lavoro forzato prese corpo e fu perfezionata nel corso della conferenza di Wannsee del  20 gennaio del 1942 con il definitivo abbandono della politica di emigrazione e l’adozione della cosiddetta “soluzione finale territoriale” (eine territoriale Endlösung) che sostituiva la politica del trasferimento con quella della deportazione di tutti gli ebrei nei campi di lavoro dell’est.

«Adesso, nell’ambito della soluzione finale, gli ebrei dovrebbero essere utilizzati in impieghi lavorativi a est, nei modi più opportuni e con una direzione adeguata. In grandi squadre di lavoro, con separazione dei sessi, gli ebrei in grado di lavorare verranno portati in questi territori per la costruzione di strade, e non vi è dubbio che una gran parte verrà a mancare per decremento naturale. Quanto all’eventuale residuo che alla fine dovesse ancora rimanere, bisognerà provvedere in maniera adeguata, dal momento che esso, costituendo una selezione naturale, è da considerare, in caso di rilascio, come la cellula germinale di una rinascita ebraica» (Dal protocollo di Wannsee del 20 gennaio 1942).

Gli studiosi dell’Olocausto hanno sempre sostenuto che il piano generale dell’ebreicidio nazista venne ideato nella riunione di Wannsee, ma Norbert Kampe direttore del Centro Commemorativo della Conferenza di Berlino, contesta questa tesi. Egli  afferma che la conferenza riguardò solo “questioni operative” e non fu in alcun modo una piattaforma di “processi decisionali”, confermato dal fatto che alla conferenza di Wannsee Hitler e i suoi ministri non erano presenti.

Dove erano situati grandi insediamenti industriali furono istituiti campi di lavoro, come per esempio la fabbrica di caucciù sintetico a Bergen-Belsen, la I.G. Farben ad Auschwitz, la Siemens a Ravensbrück, la fabbrica sotterranea delle V-2 di Mittelbau-Dora collegata al campo di Buchenwald.

Il compito di utilizzare al meglio i campi di concentramento come centri di produzione industriale fu affidato all’Ufficio Centrale di Amministrazione Economica delle S.S. diretto da Oswald Pohl.

Il lavoro coatto fu utilizzato anche dalla società di costruzioni Todt per il ripristino delle linee di comunicazione (strade, ponti ferrovie,) che venivano costantemente distrutte dai bombardamenti alleati. questi lavori, che richiedevano un’enorme massa di operai (più di 1.500.000 nel 1944), furono svolti in buona parte ebrei e prigionieri di guerra(11).

Un aspetto inquietante e poco dibattuto riguarda le linee ferroviarie da cui transitavano i convogli carichi di ebrei. Gli alleati sapevano fin dagli inizi del 1942 dell’esistenza dei campi di concentramento eppure, nonostante i massicci bombardamenti alleati che ridussero in macerie la Germania, le linee ferroviarie utilizzate dai tedeschi per trasferire gli ebrei nei campi di lavoro non furono mai attaccate, se non come effetto collaterale (come avvenne il 24 agosto del 1944 con il bombardamento della fabbrica di armamenti di Mittelbau-Dora che coinvolse il vicino campo di Buchenwald dove morì, per effetto delle bombe alleate, Mafalda di Savoia).

Come mai, mi domando, questi fatti sono sottaciuti se non del tutto ignorati anche dagli storici più autorevoli? Forse per non mettere in imbarazzo i cosidetti “paladini della libertà”?

Nel “Giorno della Memoria” esprimiamo la nostra piena solidarietà al popolo ebraico per la persecuzione subita e la ferma condanna ad ogni forma di discriminazione razziale. Questo però non deve indurci a sorvolare sulle pesanti responsabilità, condite di cinismo e ipocrisia, delle democrazie occidentali che vedevano, sapevano e volgevano lo sguardo altrove, rendendosi, perlomeno sotto il profilo politico e morale, complici dei carnefici.

Gianfredo Ruggiero

Note                                                                                                                      

1)    Il giornale ufficiale della SS, “Das Schwarze Korps”, dichiarò il proprio sostegno al Sionismo in un editoriale di prima pagina del maggio del 1935:

 « Può non essere troppo lontano il momento in cui la Palestina sarà di nuovo in grado di ricevere i propri figli che ha perduto per più di mille anni. A loro vanno i nostri migliori auguri ».

Gli ebrei sionisti a loro volta, nel settembre del 1935 dopo la promulgazione della legislazione razziale tedesca (leggi di Norimberga) che sancivano la netta separazione della comunità ebraica dal resto della nazione tedesca ponendo il divieto di matrimoni misti e altre pesanti limitazioni che andavano in tale direzione, dichiararono, attraverso un editoriale del più diffuso settimanale sionista tedesco, il “Die Judische Rundschau”:

« la Germania viene incontro alle richieste del Congresso Mondiale Sionista quando dichiara gli ebrei che oggi vivono in Germania una minoranza nazionale… Le nuove leggi danno alla minoranza ebraica in Germania la propria vita culturale, la propria vita nazionale. In breve, essa può creare il proprio futuro ».

 2)    Bernd Nellessen: “Der Prozesi von Jerusalem”, Düsseldorf/Wien, 1964, p. 201.

3)    Theodor Herzl, nella sua prima opera “Der Judische Staat” (Lo stato ebraico)  aveva  individuato, nell’isola di Madagascar il luogo ideale dove fondare lo stato di Israele. Questa ipotesi fu presa in seria considerazione dai nazionalsocialisti in quanto l’insediamento in Palestina, la patria ideale degli ebrei, avrebbe inevitabilmente portato ad un scontro con gli arabo-palestinesi (cosa che effettivamente avvenne a partire dal 1948). Tuttavia anche questa ipotesi fu in seguito accantonata a causa del netto rifiuto delle democrazie occidentali. La patata bollente ritornò, di conseguenza, nelle mani dei tedeschi che riprese l’opzione Palestina.

4)    Manvell e Fankl: “SS und Gestapo”.

5)    L’accordo di Trasferimento autorizzava i Sionisti a creare due camere di compensazione, la prima sotto la supervisione della Federazione Sionista Tedesca di Berlino, l’altra sotto la supervisione dell’Anglo Palestine Trust in Palestina. L’ufficio di Tel Aviv è stato chiamato Haavara Transfert Office Ltd.  Si trattò di un vero e proprio accordo commerciale che, fra l’altro, contribuì a rompere il boicottaggio mondiale anti-nazista organizzato contro la Germania. Le compagnie erano due: la Haavara, ebraica a Tel Aviv, e la Paltreu, tedesca a Berlino. Il deposito minimo era di 1.000 sterline inglesi presso la Banca Wasserman di Berlino oppure presso la Banca Warburg di Amburgo. Tom Segev in “Le septieme million”, ed. Liana Levi, 1993.

6)    Edwin Black: “The Transfert Agreement”, 1984; F. Nicosia: “Third Reich”; W. Feilchenfeld: “Haavara-Transfer”; Encyclopaedia Judaica: “Haavara”, Vol. 7.

7)    Questa sorta di baratto esteso a tutte le esportazioni/importazioni, cardine della politica economica nazista che contribuì alla ripresa della Germania dopo i disastri della Repubblica di Weimar, fu fortemente osteggiato dalle organizzazioni ebraiche non sioniste che, al contrario, sostenevano l’embargo dei prodotti Made in Germany.

8)    W. Martini: “Hebräisch unterm Hakenkreuz”, Die Welt , 10 gennaio 1975.

9)    Y. Arad: “Documents On the Holocaust”, 1981, p. 155.

10) http://holywar.org/Sio_Naz.htm.

11) Creata da Fritz Todt, l’organizzazione operò in stretta sinergia con gli alti comandi militari durante tutta la Seconda guerra mondiale. Il principale ruolo dell’impresa era la costruzione di strade, ponti e altre opere di comunicazione, vitali per le armate tedesche e per le linee di approvvigionamento, così come della costruzione di opere difensive: la Linea Sigfrido, il Vallo Atlantico e – in Italia – la Linea Gustav e la Linea Gotica.

Link

Falsificazioni fotografiche http://ita.vho.org/valendy/ugo.htm

campo di concentramento di Buchenwald: http://www.fncampoli.altervista.org/bw.htm

fonte: https://excaliburitalia.wordpress.com/

16/02/17

magie triestine





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3atto-icona
… tuttavia, se ne tacque, poiché non voleva suscitare del compatimento nei propri confronti. Nourhan chiese: «Anche se a Venezia ne abbiamo spesso parlato, non te l’ho mai chiesto, Gia; anche il tuo Maestro è veneziano come te?».
No, lui è di Trieste, una splendida città, dove natura, cultura e arte si mischiano in un mix che ti fa esultare l’anima. Giacché essa dista appena centocinquanta chilometri da Venezia, spesso io ci vado per rilassarmi. Sai, a viverci, pur bella, talvolta Venezia ti stufa; e specie quando piove, oppure è immersa nella nebbia. A Trieste, invece, non sai che cosa sia la melanconia. Se ti piace il mare, vi trovi le spiagge rocciose, come pure quelle sabbiose, a Grado, una splendida e rinomata località che dista appena quaranta chilometri da Trieste, prima della quale, trovi delle incantevoli oasi naturalistiche, come, ad esempio, l’Isola della Cona, oppure le foci del fiume Isonzo, storica linea di fuoco durante la prima guerra mondiale.
Se in un tal giorno, invece, preferisci la montagna, a due chilometri puoi trovare la famosa Val Rosandra, un’incredibile località, che, appena fuori dagli insediamenti industriali, ti appare d’incanto come una splendida località montana, con due erte catene rocciose collinari, che però sembrano essere montuose, entro le quali c’è pure una cascata che poi diviene un torrente. Su quelle scoscese pareti, è zeppo d’amanti dell’alpinismo i quali si esercitano nelle loro scalate. Lì, vi trovi pure i resti di un antico acquedotto Romano. Sapete, a ridosso della città, che si sviluppa su ben diciassette colli, vi è pure un vasto altipiano chiamato “Carso”: non vi dico quanto sia piacevole per gli occhi e lo spirito farvi delle escursioni.
E neanche parlo del famoso Castello e parco di Miramare, magione di Massimiliano d’Asburgo, arciduca d’Austria e imperatore del Messico. E mi fermo qui, perché sarebbe lungo da raccontare quale paradiso sia Trieste per chi ami la storia, l’arte e la cultura. E se la tua voglia è di sciare, d’escursionismo impegnato, oppure d’arrampicare, non hai che da percorrere pochi chilometri per trovarti nelle Alpi Giulie. A Trieste, io ci vado molto spesso, in particolare d’estate, quando sono in viaggio per arrivare sulle isole croate, dove c’è un mare d’incanto costellato da miriadi d’isole; un paesaggio davvero favoloso. Inoltre, incollata alla città, vi è la Slovenia, splendido Paese dove posso sbizzarrirmi tranquillamente con l’off-road, senza che nessuno venga a rompermi le ovaie, com’è invece in Italia, Paese zeppo di divieti di ogni tipo.
Se le fighe che ci trovi in quella splendida città sono da sballo e… molto aperte, e lo dico riferendomi alle loro cosce, tuttavia, c’è un’unica cosa che non mi va tanto dei triestini: la loro scarsa propensione al cambiamento, che si manifesta pure quando, negli uffici, sei in cerca di qualcosa. In quelle occasioni, il più delle volte ti senti dire, “No se pol!”[1].
É possibile che si tratti di un marcato, nostalgico retaggio della tradizione conservatrice austro-ungarica; ma, probabilmente, è proprio per questo, che la città e dintorni si sono mantenuti privi di efferati sconvolgimenti.
In ogni caso, riguardo alla mentalità conservatrice cui ho accennato, di là di tale tendenza, al centro di traffici grazie al suo porto, storicamente ricca di diverse etnie, Trieste ha sempre avuto una vocazione cosmopolita: pensate che, oltre a quelle cattoliche, vi sono ben quattordici chiese di religioni diverse. Sia detto senza offesa: ben altra cosa, rispetto al Paese mussulmano in cui ora ci troviamo; vero? Malgrado io non mi professi credente, mi piace pensare che anche questo sia un segno di civiltà, oltre che di libertà e democrazia.
Venendo ad argomento anche più interessante, ovverossia, il sesso, ebbene, a Trieste neanche si vedono per strada delle prostitute, poiché la mercificazione del loro corpo avviene esclusivamente negli appartamenti. E così, se non la sostanza, almeno il decoro di facciata è rispettato. A prescindere da questa nota di costume, non vi dico quali atmosfere si respirano, con riguardo al sesso più raffinato, per chi sappia capire dove si trova e come ci si debba muovere. Tutto avviene nei circoli chiusi di strette élite “culturali” a orientamento artistico, dove, per entrarci, devi essere presentato da amici, e mostrare di avere una mentalità molto, molto aperta. Naturalmente, quando ci sei, non è di sesso in senso stretto, che s’incomincia a parlare; ma questo diviene un’inevitabile conseguenza delle situazioni pregne di sensualità che di solito si vengono a formare, le quali fanno nascere un feeling seduttivo con qualche artista che ti piace; femmina, s’intende. In ogni caso, se devo essere sincera, io frequento tali compagnie soltanto sporadicamente, poiché, come avrete capito, a me piace dire pane al pane e vino al vino, e sono contraria a quei ghirigori cervellotici pseudo culturali, che, alla fine, si terminano a letto, certamente, ma con dei percorsi talmente arzigogolati, che, il più delle volte, ti fanno passare la voglia.
Per passare ad altro argomento, a tutto quanto ho detto, riguardo alle condizioni atmosferiche, devo aggiungere che, secondo me, Trieste è migliore di Venezia; infatti, non appena accenna a piovere, ecco che arriva la cavalleria: un vento impetuoso, che spazza via ogni cosa, smog compreso. Si tratta della famosa la Bora[2], a riportare l’azzurro nel cielo. Tuttavia, per chi non c’è abituato, l’esperienza può essere scioccante, perché questa arriva a soffiare persino a centosettanta chilometri orari, con dei picchi che sono arrivati a duecento dodici. E non vi dico quante buffe scene si possano vedere per le strade quando, insieme alla bora, c’è la neve e le strade divengono gelate. Mi raccontava il mio caro Maestro, che una volta, scivolando trasportato dal vento, quasi gli capitò di baciare un baffuto carabiniere! Infatti, con il cocktail bora-ghiaccio, non c’è verso, né di starsene in piedi, né di mantenere una direzione, tant’è, che la città è piena di catene, o simili appigli, cui afferrarsi».
Nourhan: «E perché, tanto bella e interessante come dici, non mi ci hai mai portata?».
«Amore: non mi sembra, che ci siamo fatte mancare qualche cosa; non ti pare? In ogni caso, quando ritorneremo a Venezia, e spero, insieme a Nahed e Rashida, senz’altro vi ci porterò: là ho delle amiche che sarebbero molto felici di ospitarci e di fare sesso insieme. Rashida, tu pensi che sia possibile che tu e tua moglie veniate da me per un lungo periodo? Come ti avrà raccontato Nourhan, nel casolare abbiamo tutto lo spazio e il confort che vogliamo… e pure il nostro luna park, in cantina».
Nourhan non lasciò a Rashida il tempo per rispondere, poiché, piena d’entusiasmo, perorò l’invito di Gia: «Come vi raccontavo per telefono quand’ero a Venezia, dovreste veramente vedere, consorelle care, che roba ha messo su in cantina Gia; e non soltanto lì. Godersi i supplizi in quel luogo tanto ben attrezzato, è qualcosa che non si può raccontare.
«Grazie per l’invito, Gia. Ci penseremo, ma dopo che la mia Nahed si sarà laureata» rispose Rashida, seguitando: «Di là dell’accattivante affresco che hai fatto su Trieste, il mio pensiero ritorna alle pene del tuo sfortunato Maestro; pover’uomo; quando si dice l’ingiustizia! In ogni caso, è l’eccezione, a confermare la regola, Gia; e certo, io non metto tutti gli uomini nello stesso mazzo.
Comunque, riferendomi a quelli che sarebbero da rieducare, nei casi che citavo, che non si può negare che…(Continua nel romanzo).
[1] No se pol, nel dialetto triestino significa: è vietato.
[2] Bora, è un vento continentale, secco e molto freddo, che può divenire furioso e turbolento. Nasce nell’altopiano Carsico, per poi tuffarsi nel mare Adriatico. La Bora è dovuta essenzialmente alla configurazione geografica molto particolare della città. Infatti, Trieste si colloca fra l’estremità di un mare relativamente caldo che s’inoltra nel continente, ed un elevato e freddo retroterra con un valico aperto sul golfo della città. Questa situazione produce le condizioni per la formazione di forti differenze di temperatura e di pressione atmosferica, per cui ne possono conseguire frequenti e intensi deflussi di masse d’aria dal retroterra al mare.