21/11/17

la folle guerra nel ventre delle montagne


Quanto segue è la sintesi “rapsodica” di un capitolo del mio libro “Nella valle del Boite”. Ho deciso di riportarlo qui in questa forma perché credo sia un modo, uno dei tanti possibili, per raccontare luoghi e vicende storiche che hanno sempre la necessità di essere mantenute vive nella memoria di tutti, in tutte le forme possibili.
La narrazione prende il via dall’arrivo in un albergo in val di Landro, quando alla registrazione dei documenti la signora che gestisce la struttura mi chiede come mai sono da quelle parti, e io rispondo che quei luoghi mi piacciono molto, e quando posso ci torno perché mio padre è originario di Cortina d’Ampezzo.
Saputo del genitore di quelle parti, rilegge il cognome sulla carta d’identità (e quanto al mio povero nome, in quali alberghi l’ho lasciato?) e dice: ah… Strano, non è un nome di qui.
No, è la risposta in effetti è di origine piemontese, però mio nonno già era qui.
Lei sembra fare un equazione che probabilmente ha già fatto tante volte. Eh già… allora è la grande guerra … ne sono venuti tanti qui, molti sono rimasti.


Eh già. La Grande Guerra.
Tanti, tutti, a difendere il Piave che mormorava. La Signora non conosce date e non può fare conti, e quindi non può sapere che la sua ipotesi non regge del tutto. Probabilmente talmente abituata, in forza della sua generazione, ad attribuire tutti gli arrivi da ovest alla prima guerra mondiale, avrà pensato che magari sia stato un bisnonno a spostarsi, in forza dell’esigenza della patria, per poi trovare una buona ragione, la sola vera buona ragione per spostarsi e cambiare vita da quando esiste l’umanità, un rapporto umano, una speranza, una promessa di una vita diversa dalle trincee che facilmente facevano dimenticare qualsiasi altra parte di mondo esistesse o si fosse anche già conosciuta.
(…)

Del resto basta fare qualche passeggiata anche di quelle più turistiche fra quelle meravigliose montagne per vederla, la grande guerra, e per passarci attraverso. E per rendersi conto di quale assurdità e di quale mondo insensato doveva essere. Sali su qualche grande cima, magari con una funivia, imbocchi un sentiero che strapiomba su pareti verticali, dove spazza un vento freddo anche in agosto e l’aria è di una pulizia quasi da togliere il fiato, e nei punti più impensati te le trovi lì. Le trincee.  Non solchi nella terra, che è più facile anche immaginare qualcuno che le scava, ma buchi nella roccia, camere intere, gallerie che entrano da una valle e sbucano in un'altra. Bucavano le montagne. A mano. Con un po’ di dinamite e poi picconi, martelli, mazzette. A mano. Una follia. Una follia ragionata e transnazionale (lo facevano gli italiani e lo facevano gli austriaci). Bucavano a mano le montagne per combattersi, per tenere le posizioni (rispetto a cosa?), per difendere un pezzo di roccia, un prato verde, uno spuntone di dolomia.Fra tutte le montagne dove ancora si vedono le tracce indelebili di queste follie ce ne sono alcune davvero impressionanti. Musei a cielo aperto, li chiamano. Li chiamano così perché sono state ricostruite alcune postazioni, nei luoghi esatti, con tanto di manichini dei soldati e tavoli e equipaggiamenti e suppellettili, per darti un’idea. E infatti l’idea della follia te la danno tutta.



Una di queste zone è a poca distanza da Cortina d’Ampezzo, sulla strada che sale verso il passo Falzarego. Da una parte c’è il Lagazuoi, montagna dal nome improbabile che si impenna dietro le Tofane dopo aver lasciato spazio ad una valle glaciale sconfinata, dall’altra le Cinque Torri, paradiso di rocce sfrangiate, Manhattan di pietra fragile e millenaria, palestra di alpinisti e rocciatori, luogo magico e perduto nel tempo e fra i boschi. 
Al Lagazuoi ci arrivi fin sotto, e ti trovi davanti una parete dritta e alta, senza niente in mezzo. Talmente senza niente che la funivia che ti ci porta in cima è fatta nel modo più semplice e spaventoso che possa venire in mente. Non ha piloni. Come fosse costruita da bambini che giocano con le costruzioni. Una stazione a valle, una a monte, un unico cavo teso fra le due, sospeso sull’abisso, e la cabina che viaggia fra l’una e l’altra come una molletta su un filo da bucato quando la mamma tira la corda per fare spazio agli altri panni.
Gioco di costruzioni un corno, naturalmente. Un capolavoro di ingegneria. Funzioni matematiche, delirio di curve catenarie per calcolare l’iperbole creata nello spazio da quel cavo e le sue oscillazioni e il peso delle cabine e la velocità e il comportamento in base al vento e chissà quanto altro ancora.


Mai come su quella funivia, se ti imbarchi per raggiungere in cabina la cresta del Lagazuoi, puoi almeno intuire cosa significhi davvero volare. Se non guardi sopra di te la morsa che tiene attaccata la tua scatoletta di metallo al cavo, intorno e sotto non hai altro che aria. Il vuoto. E giù, ma molto più giù, prati, rocce, alberi così piccoli che sembrano quelli di un plastico del treno, di quelli che si facevano una volta, costruendo tutto a mano. 
(…)
Mentre sali e ti guardi intorno affascinato e terrorizzato, le rocce della parete che scende sotto la cresta cominciano ad avvicinarsi, e se guardi bene vedi già i buchi. Le trincee. Ne vedi uno che si apre a metà di una parete impossibile. Come fa a stare lì? Capisci che è stato scavato dall’interno, ma dall’interno di cosa? Lì dietro c’è tutta la montagna intera, compatta, immensa. Da dove sono partiti, là dietro, a scavare, esplodere, togliere montagne di pietra per arrivare a sbucare proprio lì? E poi una volta arrivati? Un affaccio sul vuoto, di sicuro una postazione da avvistamento magnifica, ma nell’eventualità per sparare a cosa? Qualunque forma, vivente e non, è distante, immensamente distante. Forse bisogna cambiare un po’ i parametri di riferimento, non si può ragionare con la logica che avremmo oggi. Forse un secolo fa affacciato da lì sentivi qualunque rumore, anche a decine di chilometri, vedevi qualunque movimento, anche il più lontano e impercettibile. Altri silenzi, altri sguardi.
La migliore passeggiata che puoi fare da quelle parti, per scoprire insieme la magnificenza delle montagne e la sofferenza della prima grande guerra mondiale sulle nostre Alpi, è arrivare in cima al Lagazuoi con quella cabina sospesa nel vuoto, e poi scendere a piedi lungo il sentiero che passa sotto alla cresta e ritorna fino a giù.


Quando arrivi in cima e ti affacci dall’altra parte vieni investito tutto insieme dal vento più freddo che puoi immaginarti, anche in piena estate, e dai panorami più ampi e mozzafiato che ti possa capitare di vedere. Alla tua destra le Tofane ti mostrano la loro nuca (rispetto alla fronte che affacciano sulla valle di Cortina), davanti a te un vallone immenso con larghe chiazze di neve in qualunque stagione dell’anno. Più lontane, verso ovest, il Sella e la Marmolada con il suo ghiacciaio perenne, dietro di te, se ti volti verso l’abisso dal quale sei salito appeso al filo, il Civetta, il Pelmo, e sotto, quasi piccole e poco distinguibili perché le stai guardando dall’alto, le Cinque Torri. 
Quando ti sei ubriacato a sufficienza di aria, di spazi, di panorami e di forze della natura senza limiti, puoi cominciare a scendere lungo il sentiero che cala a destra, sotto la cresta principale. E lì comincia un’altra montagna, fatta di storia, di vite umane, di armi, di uomini al freddo e al gelo, di assurdità programmatica e lucida, di strenua difesa del tutto e del nulla.
Trovi quasi subito le prime gallerie. Puoi entrarci, soprattutto se hai una torcia perché naturalmente sono buie. Ed entri letteralmente dentro la roccia, perché nessuna di queste è una galleria naturale, sono proprio quelle scavate dai soldati a colpi di dinamite e piccone. Un lavoro pazzesco, svolto in condizioni che puoi facilmente immaginare, anche se sei un turista che arrivi lì con tutti i comfort possibili. Freddo, neve, vento, vestiti inadeguati, mani che si spaccano, schegge di roccia, esplosioni, armi che si inceppano, arnesi che si frantumano.


Fra quelle montagne ti rendi conto di quanto l’uomo possa aver lasciato un segno perenne in quegli anni feroci, e al tempo stesso di quanto le montagne vivano in un tempo totalmente diverso, tanto più lungo e più ampio nei suoi movimenti e nelle sue dimensioni da sentire quelle ferite niente più che come punture di zanzara sulla pelle di un dinosauro. Da queste parti la Grande Guerra non ha soltanto lasciato il segno, è proprio qui che ha avuto il suo vero svolgimento, le sue epiche battaglie, il suo epilogo e le sue conseguenze indelebili. La seconda guerra mondiale, tanto altrettanto terribile, ci è passata molto più di striscio. Non era un vero fronte di guerra, e quindi ha avuto la sua occupazione, le sue storie locali di fascisti, di ruffiani che fraternizzavano con i nazisti, di spioni e di partigiani, soprattutto quelli che si venivano a nascondere nei boschi e sui monti. Le famose staffette partigiane, donne bellissime e fatte di roccia che biciclettavano fra i monti, vengono da qui. Ma molto altro arrivava da più lontano, le follie del piccolo nuovo imperatore che da sbraitava da un balcone di Roma, le atrocità naziste in giro per l’italia. 
(…)


Nel pieno della Grande Guerra invece, le dolomiti d’Ampezzo divennero uno dei fronti più caldi, più strategici e più logisticamente folli dell’intero conflitto. L’esercito italiano avanzava da sud, a conquistare una valle dopo l’altra per raggiungere la Val Badia e la Val Pusteria, avamposti del Brennero, il vero punto di confine, come lo è ancora oggi. Ma lì, proprio dalle parti del Falzarego, si dovettero fermare.  Lì c’era il fronte austriaco.  Chissà quanti avranno visto su di un plastico con i trenini elettrici una tipica chiesetta alpina, bianca con il mattonato scuro agli angoli, con la forma svasata verso il basso, il tetto in legno. Talmente tipica da sembrare un modello immaginario. Chissà quante volte sarà capitato di vederla in una scatola di montaggio in un negozio di modellismo. Negozi che una volta erano molto più frequenti, ma dei quali ancora oggi qualcuno è sopravvissuto, per gli appassionati. Bé, è proprio lì. Al Passo Falzarego c’è proprio quella chiesetta. Vai a sapere se lei è il modello per tutte le riproduzioni venute poi, o se quella è stata costruita proprio tenendo in conto i modelli già famosi. Comunque è quella, perfetta. Di sicuro perché lì c’era una croce, un luogo dove pregare, e dove chissà quanti hanno pregato una volta arrivati lì. Per esserci arrivati vivi, per sperare di restare vivi dopo quello che lì li attendeva, o per altre migliaia di motivi, tutti validi e tutti giusti.

Lì, poco più avanti, o meglio ancora da lì in poi, c’era il fronte austriaco.

E lì si andò formando la più vasta e pazzesca contrapposizione di fronti di guerra che l’insaziabile voglia di combattimento dell’uomo abbia mai prodotto, almeno in questa parte di continente. 
Gli attacchi di superficie si rivelarono ben presto inutili e dispendiosi. Così si iniziò a scavare gallerie. Per sorprendere il nemico nel cuore del suo terreno, per scavalcare passaggi controllati e pericolosi. Per prendersi il territorio da sotto, come talpe, come clan di marmotte in lotta fra loro per il pascolo migliore.
Scavavano gli italiani, e scavavano gli austriaci. Dalle Tofane al Lagazuoi, oltre il Falzarego fino alla Marmolada. Tutte le dolomiti erano il fronte, e ad esplodere e scavare ci si intrecciava, ci si sorpassava, e si arrivava all’assurdo di luoghi come la Cengia Martini, proprio sul frontale a picco del Lagazuoi, dove gallerie italiane e austriache si scavalcano e si superano l’una con l’altra, lungo un fronte che non ha più un nord e un sud, ma solo le gallerie di un esercito intrecciate con quelle dell’altro.
Qui si realizzava l’altro stato permanente di sicurezza e angoscia contemporanee che questo sistema inevitabilmente comportava. Lo scopo principale delle gallerie era riuscire ad arrivare sotto il fronte avversario e farlo saltare. Così, insieme al senso di sicurezza che le grotte costruite con le proprie mani donavano, al riparo dal freddo e dai proiettili, era costante il terrore che da un momento all’altro i nemici facessero saltare in aria con la dinamite il tuo rifugio. Si viveva, in quelle grotte, sentendo i tonfi e i colpi dell’altro esercito che scavava, che chissà in questo momento dove si trovava, chissà se stava già piazzando una mina che fra poco ti avrebbe seppellito per sempre insieme alla roccia. E se proprio doveva saltare, che ti uccidesse sul colpo e non ti facesse la carognata di mantenerti vivo a morire di fame e di freddo dentro il cuore di una montagna.
Di fronte al Falzarego, il fronte delle Cinque Torri era l’altro punto davvero strategico della zona, perché una volta entrati nella logica della follia secondo la quale luoghi come questi potevano essere teatro di guerra, allora quello era davvero un punto strategico. Lo conquistarono gli italiani, all’inizio dell’estate del millenovecentoquindici. Lo mantennero e lo dotarono di attrezzature, telegrafo, postazioni. Da lì si dominava tutto il Lagazuoi, si potevano cogliere gli spostamenti, le aperture di gallerie, la disposizione dei nemici. Lì accadeva qualcosa che riuniva perfino la propensione all’arte con il genio militare, entrambi sublimi e scellerate virtù dell’uomo, come secoli prima aveva fatto Leonardo con le sue invenzioni truculente per le macchine da guerra dei Signori del Rinascimento. Lì fotografi e disegnatori passavano la giornata a riprodurre la montagna che avevano di fronte, per cogliere, giorno dopo giorno, ogni eventuale cambiamento in una cengia di roccia, in un costone, nella disposizione di un ghiaione. Perché un minimo cambiamento del paesaggio da un giorno all’altro, in un luogo che conosce i tempi geologici e non quelli umani, significava che l’esercito nemico aveva fatto qualcosa. Aveva magari aperto un nuovo tunnel, aveva spostato dell’artiglieria, stava predisponendo un nuovo fronte.
Nessuno potrà mai dire quanto quegli uomini abbiano penetrato la natura e le forme di quei monti fino all’inverosimile, fino alla nausea, fino a potersi accorgere anche solo ad uno sguardo se uno fra i milioni di sassi che li compongono aveva cambiato posizione, o era rotolato giù, o si era imbiancato per la neve.


Alle Cinque Torri portarono l’artiglieria pesante. Cannoni provenienti dalla marina che sparavano palle da trenta centimetri di diametro. Cannoni giganteschi, e c’è solo da immaginare cosa sia significato portarli lassù. Ora alle Cinque Torri ci arrivi con una seggiovia, volo meraviglioso e silenzioso fra gli abeti fino ad atterrare sul piano che si stende ai piedi dei grattacieli di roccia dove non mancherà mai qualche alpinista ad allenarsi aggrappato ai chiodi. Alpinisti veri, come i tanti che questi luoghi hanno prodotto, e alpinisti meno veri, aggrappati alle rocce più per moda e col sostegno della tecnologia che per l’autentica, rispettosa sfida alle montagne eterne che la scalata ha rappresentato per secoli.
Allora si saliva a piedi, si trascinavano a piedi, e con gli incredibili muli, i pezzi delle artiglierie destinati a puntare la montagna di fronte e a cannoneggiare il nulla.
La forza brutale dei cannoni era destinata ad avere la meglio sulle strategie e sulle protezioni, perfino su quelle naturali. A furia di colpi, mirati coi goniometri e messi a punto prove dopo prove e tonnellate di proiettili persi, l’esercito austriaco fu costretto ad abbandonare una delle sue postazioni privilegiate, il Forte tre Sassi sulla Valparola. 
Non fu così per il Lagazuoi. La sconfinata parete di roccia di fronte alle Cinque Torri conosceva solo le ere geologiche, e solo a quelle poteva sottostare. 
I due fronti restarono così in un arrocco permanente, intrecciati fra le gallerie, conquistando una roccia e perdendone un'altra, fino al novembre del millenovecentodiciassette, quando arrivò Caporetto.
La disfatta più proverbiale di tutta la storia patria pose fine drasticamente al gioco perverso in scena da anni sulle montagne dolomitiche. 
Anche a Caporetto fu questione di trincee. Lì, per alcune mosse da manuale del vincitore da un lato e da manuale del perdente dall’altro, il fronte italiano si trovò all’improvviso con il fronte austriaco alle spalle. Sorpassato mentre difendeva il nulla, e accerchiato nella posizione che doveva difendere. Per definizione, due fronti contrapposti che non sono più uno di fronte all’altro non sono più fronti. Divennero in una giornata un esercito circondato dall’altro, senza più riferimenti, senza un davanti e un dietro, e senza via di fuga.
Sui monti Ampezzani invece, la natura di guerra sotterranea che era stata fino a quel momento rappresentò anche la parziale salvezza. A seguito della disfatta, l’esercitò italiano si ritirò anche dal Falzarego lasciando le gallerie del Lagazuoi. E poté ritirarsi, protetto dalle stesse pareti di roccia che aveva scavato per infilarsi sotto il nemico. Gli intricati tunnel rimasero in mano agli asburgici, tanto che a loro si devono le dettagliate piantine delle gallerie di entrambi gli eserciti che ancora oggi fanno testo storico per comprendere il reticolato di trincee che quelle superiori e probabilmente indifferenti montagne dovettero subire.
Come vuole la storia, la Grande Guerra verrà poi vinta, e Caporetto e tutte le ritirate del diciassette verranno parzialmente cancellate da una grande vittoria nazionale e continentale.
Per la storia di queste montagne i vincitori e i vinti hanno invece poca importanza. Importa molto, piuttosto, l’immensità di queste rocce, il loro essere salite dal mare milioni di anni fa sotto spinte spaventose ed essersi innalzate verso il cielo nelle forme e nelle dimensioni più straordinarie e irripetibili, avere aperto le valli destinate ad ospitare i paesi e le cittadine, i pascoli, i boschi, i laghi aperti come occhi blu fra le cime, e di certo, perché no, anche avere sopportato la dinamite e le cannonate della follia umana per giungere fino a qui con le loro forme ancora intatte, con le discese verdi d’estate e innevate d’inverno (…).

Alessandro Borgogno

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

Alessandro Borgogno
Vivo e lavoro a Roma, dove sono nato il 5 dicembre del 1965. Il mio percorso formativo è alquanto tortuoso: ho frequentato il liceo artistico e poi la facoltà di scienze biologiche, ho conseguito poi attestati professionali come programmatore e come fotoreporter. Lavoro in un’azienda di informatica e consulenza come Project Manager. Dal padre veneto ho ereditato la riservatezza e la sincerità delle genti dolomitiche e dalla madre lo spirito partigiano della resistenza e la cultura millenaria e il cosmopolitismo della città eterna. Ho molte passioni: l’arte, la natura, i viaggi, la storia, la musica, il cinema, la fotografia, la scrittura. Ho pubblicato molti racconti e alcuni libri, fra i quali “Il Genio e L’Architetto” (dedicato a Bernini e Borromini) e “Mi fai Specie” (dialoghi evoluzionistici su quanto gli uomini avrebbero da imparare dagli animali) con L’Erudita Editrice e Manifesto Libri. Collaboro con diversi blog di viaggi, fotografia e argomenti vari. Le mie foto hanno vinto più di un concorso e sono state pubblicate su testate e network nazionali ed anche esposte al MACRO di Roma. Anche alcuni miei cortometraggi sono stati selezionati e proiettati in festival cinematografici e concorsi. Cerco spesso di mettere tutte queste cose insieme, e magari qualche volta esagero.


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