08/06/17

la valle dove le vipere cadono dal cielo

Vipere in Val Grande - Fotografia di Filippo Spadoni
La prima volta che ho sentito parlare della Val Cavrì avevo da poco superato i vent’anni. Colui che raccontava le stranezze di quel luogo era una vecchia memoria della Valgrande. Oggi non ricordo il nome ma le fattezze, quelle si. 
Aveva superato i settanta, quasi sicuramente, e le fatiche della vita si potevano misurare sulle pieghe del volto. 
I capelli, bianchi e arruffati, coprivano una grande cicatrice sulla fronte. 
Le mani, grandi e scure, si agitavano nervosamente seguendo le mille parole che uscivano dalla sua bocca. Le movenze del corpo lasciavano trasparire i dolori degli anni. Beveva vino nero accompagnando un panino al salame. 
Mi sono avvicinato a lui con il rispetto che si deve alle persone che hanno lottato con la vita ed hanno vinto, o forse no, ma almeno ci hanno provato. 
Mi ha guardato con pregiudizio, perché venivo dalla città, e con lui avevo pochi punti in comune, o forse questo pensava prima che gli offrissi un altro bicchiere di vino. Ha provato a rifiutare, ma dopo una breve insistenza ha capito che era meglio così. 
Mi sono presentato ed ho notato in lui un cambiamento d’umore. Conosceva un certo mio parente che aveva lavorato con lui, quindi conosceva anche me. Si è fidato ed ha cominciato a raccontare. I minuti scorrevano veloci, le nuvole in cielo formavano strane figure, ed il sole cominciava a scaldare la nostra conversazione. 
Due ore dopo mi sono congedato con la promessa che sarei tornato da lui. Purtroppo non l’ho mai mantenuta ed oggi me ne pento. Ho preso l’auto e mi sono diretto verso casa; tre tornanti dopo avevo quasi dimenticato la sua richiesta di non andare in quel posto maledetto,  dimenticato da Dio e da buona parte degli uomini.
Ho fatto passare qualche settimana con la speranza che i colori migliori dell’autunno si facessero intrappolare nella mia macchina fotografica. Una domenica mattina mi sveglio, prima dell’alba, e parto alla ricerca del luogo dimenticato alla ricerca di emozioni. 
Arrivato all'alpe Ompio lascio l’auto e mi incammino. 
Dopo un'ora e mezza giungo a Corte Buè, dove incontro un cercatore di funghi che mi guarda con disprezzo, per  paura che potessi rubare il bottino della giornata.
Lo saluto e mi dirigo verso Orfalecchio. 


Vipere in Val Grande - Fotografia di Filippo Spadoni

Non avevo tempo di prestare attenzione alle bizzarrie degli uomini e del loro pensare. Dopo mezzora iniziano i problemi d'orientamento. La cartina mi indicava un sentiero che invece non esisteva più, aggredito dalla natura, che tornava sovrana e copriva tutto quello che era stato. Ho cercato di non perdermi d’animo, ma non ci sono riuscito e dopo breve tempo sono tornato sui miei passi risalendo per l’alpe da poco lasciata. Le fotografie erano ottime. Il mio umore non troppo, ci avevo provato ma non mi bastava. Tornando a casa pensavo alla prossima escursione alla ricerca della Val Cavrì. Ma la vita è strana e dopo breve tempo mi dimenticai di quel posto e delle sue leggende. Passano gli anni e con essi anche la mia voglia di conoscere e scoprire le storie dimenticate delle nostre valli. 
Ma i pensieri e le parole si possono dimenticare i luoghi no. 
Dieci anni dopo mi ritrovo, con un amico, in un rifugio vicino al confine svizzero dell’alta val Formazza. Non ho ancora capito come sia successo ma nelle mie mani finisce un libro che parla di vipere e serpi: racconta di quella valle dirupata, cattiva e pericolosa che si trova nel cuore selvaggio della Valgrande. 
Un brivido mi scorre lungo la schiena.
Come avevo fatto a dimenticare, a lasciare in un cassetto chiuso della mia memoria quel luogo e le sue leggende? 
Ne parlo con il mio vecchio amico, ma in lui non ritrovo la forza e la volontà che mi assalì molti anni prima. Decido di raccontare a lui tutto quello che trovo, a fatica, nella mia testa. Il tempo, come sempre, passa veloce ed io non riesco più a controllare le mie emozioni. 
L’amico mi guarda perplesso, chiedendosi come poter credere a tutte quelle storielle di montagna, ma la mia energia alla fine lo ha contagiato. 
E’ deciso la settimana seguente si andrà alla ricerca del luogo dove le vipere cadono dal cielo.
La settimana scorre tra il lavoro, la famiglia e la lettura degli appunti presi molti anni prima.
Finalmente arriva il sabato mattina.
Preparo con molta attenzione lo zaino. 
Esco che il sole è appena sorto.
Dopo venti minuti mi ritrovo con l’amico a fare colazione in un piccolo bar sulla strada per l’alpe Ompio.


Vipera in Val Grande - Fotografia di Filippo Spadoni
Le emozioni corrono, come la macchina che risale a fatica i tortuosi tornanti che ci separano dalla più grande avventura della nostra vita.
Sono debitore verso di lui e forse verso tutti coloro che ancora non conoscono le leggende della Val Grande, di quanto mi è stato raccontato dieci anni prima dalla vecchia memoria. Devo trovare la forza di iniziare.
Alla fine del 1800, quando ancora non era sorta la prima alba del novecento, le poche persone che caricavano gli alpeggi di quella strana valle la abbandonano d’improvviso.
Quale era stato il motivo di tale fuga?
Un mattino di fine estate i genitori si vogliono assicurare che il loro bimbo, da poco venuto alla luce, stia bene; si dirigono verso la piccola culla di legno che hanno da poco costruito con gioia e fatica, guardano il viso rilassato del neonato e sognano per lui una vita diversa rispetto a quella che gli possono garantire.
Spostano le copertine e con raccapriccio trovano una vipera attorcigliata intorno alla piccola caviglia. Spostano il serpe con un lungo bastone di legno stando attenti a non spaventare l’essere maligno, lo adagiano in un sacco, che avevano predisposto per la raccolta dei funghi, e con grande sollievo non trovano morsi di vipera sul corpo dell’inconsapevole bimbo. Escono di corsa dal casolare ed avvisano gli altri alpigiani.
La decisione che potevano prendere era una sola: abbandonare per sempre quei magri pascoli.
In breve tempo si allontanano da quel posto senza rimpianti.
Siamo ormai in vista del parcheggio dove lasciare l’autovettura.
Il sole sta combattendo la sua personale battaglia con il bosco.
Nel viso del mio amico non trovo più la tranquillità della settimana precedente: saranno anche leggende di montagna, ma le leggende cosa sono se non storie vere trasformate dal passare degli anni?
Lasciamo i sedili dell’auto ed iniziamo a camminare in una sorta di silenzio voluto.
Dopo circa due ore di cammino siamo in vista delle prime baite di Corte Buè: possiamo riposarci qualche minuto prima di imboccare il sentiero per Orfalecchio. Ci sediamo su un masso che sporge dalle rovine di un casolare, invaso dai castagni tornati padroni di quella zona dimenticata, così vicina ma anche così lontana da tutto quello che per noi rappresenta la tranquillità della vita quotidiana.
Dopo qualche risata, ed una buona sorsata di acqua fresca, decido di fare delle fotografie. Il luogo è magnifico: una novella Atlantide dove si ritorna ai silenzi primordiali, agli spazi incontaminati.
Riprendiamo il cammino verso la nostra meta, facendoci largo tra gli arbusti cresciuti troppo in fretta a causa delle abbondanti piogge di quella strana estate tropicale.
Ma cos’è successo agli alpeggi della val Cavrì dopo l’abbandono da parte di coloro che la caricavano?
Nei giorni seguenti la notizia era circolata per tutta la Valgrande. Molti boscaioli, che lavoravano poco distante, si erano rifiutati di risalire il crinale della montagna per raggiungere quel luogo ormai maledetto.
Colubro di Esculapio in Val Grande - Fotografia di Filippo Spadoni
Ma coloro che gestivano il taglio ed il trasporto del legname nei pressi di Orfalecchio erano ingolositi da quella valle lasciata libera a causa di una piccola vipera. Assoldano qualche lavorante per disboscare quella lunga lingua di terra. Non sanno ancora cosa gli aspetta.
Giungiamo ad Orfalecchio.
Il luogo non è come lo avevamo immaginato.
Il sole filtra tra i rami degli alberi, illuminando questo anfratto di vita perduta.
Facciamo fatica a pensare che sopra di noi correva un ponte sospeso ad oltre venti metri di altezza; non capiamo come poteva esistere una ferrovia che trasportava il legname dal cuore di questa valle sino a Mergozzo. Gli uomini sono in grado di compiere opere incredibili in luoghi assurdi
Troviamo quasi subito la grotta che serviva da mensa per gli operai. Nulla fa intuire quale fosse lo scopo. Occorre sapere per capire.
Ci sediamo e cerchiamo di vedere quale sia il miglior sentiero per la salita verso la val Cavrì.
Ci siamo ora tocca a noi.
Prima di ripartire riprendo il racconto della storia dei boscaioli all’amico impaziente.
Dopo l’abbandono da parte degli alpigiani i boscaioli, recuperati chissà dove, cominciano la perlustrazione della valle per capire da dove partire con l’abbattimento degli alberi. Dopo alcuni giorni di attesa partono per effettuare il lavoro per il quale sono stati ingaggiati. Capiscono immediatamente che non sarà facile, il pendio è ripido e le piante spesso nascondono i raggi del sole. Sono stati pagati in anticipo, non ci sono motivi per rinunciare. I primi alberi abbattuti non creano problemi, ma poco prima del mezzogiorno un boscaiolo viene morso al collo da una vipera caduta da un albero. Viene assistito e portato a valle. Il lavoro continua, deve continuare. Poco dopo la pausa per il pranzo un albero, che non aveva motivo di cadere, si abbatte su due boscaioli; gli altri accorrono per constatare le condizioni: lo spavento si trasforma in smarrimento quando, rimosso l’albero, scoprono che i due sono coperti di vipere nere, quelle dei rododendri.
Non sono stati risparmiati dai morsi.
Li trascinano a fatica poco lontano, decidendo di portarli a valle, insieme alle loro paure ed ai rimorsi per aver accettato quel lavoro.
Quello fu il primo ed ultimo giorno di lavoro per l’abbattimento degli alberi nella valle coperta di vipere che cadono dal cielo.
Trovato una sorta di sentiero, risaliamo lenti e sospettosi il crinale.
La fatica piega le gambe, ma la curiosità di sapere, vedere, conoscere quel luogo ci dona la forza per continuare l’ascesa. Finalmente davanti ai nostri occhi le baite diroccate dell’alpeggio.
Nell’ultimo tratto di salita non abbiamo parlato, i nostri occhi non si sono incrociati, abbiamo preferito camminare pensando a quello che poteva essere.
Gli alberi e gli arbusti si sono divisi i ruderi di quelle povere costruzioni. Dobbiamo cercare un luogo dove montare la piccola tenda che fungerà da rifugio per la notte.
Siamo arrivati dove volevamo. Tutto intorno il nulla.
Non riesco a comprendere il perché di quella vita di fatica, sudore e povertà, passata a caricare un alpeggio in una montagna cruda come nessun’altra.
Il sole si sta spegnendo oltre le cime della Valgrande, che ora ci appare selvaggia come mai o forse no. Il Pedum sopra di noi è un padrone silenzioso, in lontananza i corni di Nibbio appaiono più frastagliati che mai e le gole dell’Arca si colorano di riflessi rossastri.
Abbiamo camminato per ore alla ricerca di un luogo che forse non è mai esistito.
Davanti al miglior tramonto della nostra vita su un pensiero siamo d’accordo: alcuni luoghi non bisogna raggiungerli, bisogna solo avere coscienza che esistano.

Fabio Casalini

fonte: https://viaggiatoricheignorano.blogspot.it/

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