31/01/15

l'alluvione del Polesine



L'alluvione del Polesine del novembre 1951 fu un evento catastrofico che colpì gran parte del territorio della provincia di Rovigo e parte di quello della provincia di Venezia (Cavarzerano), causando 84 vittime e più di 180.000 senzatetto, con molte conseguenze sociali ed economiche.

Prodromi dell'evento

Durante le due settimane precedenti all'alluvione, si verificarono intense precipitazioni distribuite su tutto il bacino imbrifero del fiume Po. Tali precipitazioni, pur non raggiungendo nelle singole aree del bacino tributario i picchi massimi di intensità storici, furono caratterizzate da un'anomala continuità temporale e distribuzione spaziale: infatti, non vi fu praticamente soluzione di continuità per l'intero periodo e l'intero territorio del bacino imbrifero ne fu interessato. Inoltre, la distribuzione spazio-temporale delle precipitazioni fu tale da determinare la sovrapposizione dell'onda di piena dell'asta principale a quelle dei singoli affluenti alle rispettive confluenze. Tale fattore, legato a un indice di probabilità estremamente basso, costituisce più di ogni altro la causa delle anomale condizioni idrauliche in cui è venuto a trovarsi il fiume Po in occasione del disastroso evento. Il verificarsi di tale improbabile circostanza fece sì che l'onda di piena si incrementasse progressivamente, scendendo da monte verso valle, in corrispondenza di ogni singola immissione dei numerosi affluenti, tanto alpini che appenninici.

In occasione delle precedenti ricorrenti intumescenze del Po (l'ultima importante delle quali era stata quella del 1926) le perturbazioni avevano colpito il bacino tributario - in modo più intenso e continuativo - solo su uno dei due versanti (quello alpino o quello appenninico) o solo su un settore di esso (l'alto, il medio o il basso corso). Lo sfalsamento dei tempi di corrivazione delle onde di piena dei singoli affluenti rispetto a quella dell'asta principale (statisticamente più probabile) in occasione delle precipitazioni della prima metà di novembre del 1951 non si diede ma, al contrario, si verificò la loro anomala coincidenza. Il risultato è stato quello di un insostenibile carico idraulico abbattutosi sui tronchi terminali dell'asta principale, con un interessamento particolarmente grave delle province di Mantova, Ferrara e Rovigo.

Mentre nei giorni del 12, 13 e nelle prime ore del 14 novembre l'onda di piena transitava nel mantovano senza il verificarsi di irreparabili esondazioni grazie anche alla tempestiva e massiccia realizzazione di interventi di contenimento, durante il passaggio della stessa tra le province di Ferrara, a sud, e Rovigo, a nord, avvenne l'irreparabile.

Le premesse della catastrofe

I presupposti della sciagura, al di là delle anomale circostanze idrologiche sopra sintetizzate, sono però da ricercare nel campo umano, ed in particolare in quello delle Amministrazioni pubbliche istituzionalmente competenti a prevenire ed affrontare la situazione. Non è possibile dire con certezza se si sarebbe potuta evitare la catastrofe che si verificò, ma è certo che una diversa gestione delle cose avrebbe potuto, se non scongiurare il disastro, almeno limitarne le conseguenze.

Sotto questo profilo non possono essere sottaciute le gravissime responsabilità delle tre istituzioni direttamente interessate, per competenza, dalla natura degli eventi: il Genio Civile di Rovigo ed i relativi diretti organi superiori cioè il Magistrato alle Acque di Venezia ed il Ministero dei Lavori Pubblici, la Prefettura e la Provincia, rispettivamente competenti per gli aspetti idraulici, quelli dell'ordine pubblico e del soccorso alle popolazioni e quello del coordinamento territoriale generale e delle funzioni logistiche.

Circa l'aspetto idraulico, è venuta completamente a mancare la fase della preallerta che sarebbe servita alle altre amministrazioni coinvolte, in primis quelle comunali rivierasche, a mobilitare uomini e mezzi per far fronte all'evento. Da un punto di vista storico, si tende ad attribuire tale sottovalutazione del fenomeno da parte del preposto Genio Civile a una mancata comprensione dell'eccezionalità dell'evento sotto il profilo propriamente idraulico, complice le anomale circostanze che sono venute a determinarsi sotto questo risvolto e di cui si è detto più sopra. L'onda di piena infatti, pur rivelandosi subito di entità considerevole, non appariva, dai dati idrometrici provenienti dalle stazioni di misura di monte, di carattere straordinario e sicuramente non fece presagire ciò che poi, nei fatti, si verificò.

Tale mancata previsione, comunque grave in relazione alla drammaticità della situazione venuta a crearsi nei giorni immediatamente precedenti all'alluvione nel mantovano ma anche figlia dei tempi per la carenza dei mezzi di comunicazione (i telefoni erano rari ed appannaggio quasi esclusivo degli uffici governativi) e soprattutto per la pressoché totale assenza dei mezzi di informazione di massa “in tempo reale” (esisteva solo la radio e non tutte le famiglie la possedevano), ingenerò un ritardo nella reazione di tutte le altre istituzioni coinvolte e del territorio in genere che si rivelò incolmabile, con la conseguenza che si poté poi unicamente rincorrere gli eventi.

Analisi delle cause

Già nelle prime ore del giorno 14 novembre, il colmo di piena iniziava ad interessare l'Alto Polesine. Gli abitanti di Melara, Bergantino, Castelnovo Bariano, Castelmassa, Calto e degli altri centri rivieraschi iniziavano una corsa contro il tempo nel tentativo di contenere le acque del fiume all'interno dei propri argini. Guidate dai propri sindaci in prima persona, sotto il coordinamento di tecnici locali, queste popolazioni intraprendevano un'immane opera di sovralzo delle sommità arginali mediante la costruzione di coronelle e soprassogli. Solo lo spirito di abnegazione e la consapevolezza che dalla riuscita o meno dei loro sforzi dipendevano le sorti del territorio, comprese quelle delle loro stesse case e terreni, ha fatto sì che il livello delle acque fosse contenuto dalle suddette opere tumultuarie.

L'operato di queste genti risulta tanto più stoico in considerazione del fatto che le dette opere di contenimento furono realizzate in condizioni particolarmente difficili. Vi era infatti carenza di uomini, materiali (con grande penuria dei sacchi necessari per il riempimento in terra e la formazione dei rialzi arginali) e di mezzi, in quanto non vi era ovviamente disponibilità di mezzi meccanici quali escavatori, bulldozer e autocarri e si operava con semplici attrezzi manuali, spesso portati da casa. Cosa ancor più grave fu la totale mancanza di un'organizzazione sovraordinata in grado di prevedere l'evento e organizzare le risposte adatte gestendo con razionalità la realizzazione delle opere necessarie. Ciononostante, per l'intera tratta dell'Alto Polesine, da Melara a Stienta la lama d'acqua, che ormai sovrastava in molti punti la sommità arginale, poté essere contenuta dalle opere di sopraelevazione realizzate, che raggiunsero in alcune tratte l'altezza 1,00 - 1,20 m. Anche la lotta contro i numerosi fontanazzi che costellavano la campagna al piede dell'argine fu vinta, grazie al sollecito circondamento di quelli principali.

Non altrettanto avvenne per il popoloso comune di Occhiobello, né per quello contiguo di Canaro. A differenza che per i paesi rivieraschi posti più a monte, la partecipazione della popolazione alle tumultuarie opere di contenimento fu alquanto scarsa e anziché il pervasivo spirito di abnegazione ed esaltazione che caratterizzò l'operato delle popolazioni di monte, si diffuse lo scoraggiamento, la paura ed il panico. Complice la notizia, rivelatasi poi falsa, che il fiume aveva rotto a Bergantino, alle ore 11 del mattino del 14 novembre i già sparuti e male assortiti gruppi di volontari che si trovavano ad operare sugli argini, quasi tutti cittadini di Occhiobello con pochissimi contadini, certo più idonei ad essere impiegati in tali generi di lavori, lasciarono gli argini al loro destino. Rimasero solo i più determinati, nel tentativo di difendere almeno il centro del paese.

Sulle ragioni della scarsa partecipazione degli abitanti di Occhiobello e di Canaro ai lavori di difesa, in particolare dei contadini, esistono diversi studi di natura sociologica che prendono in esame vari fattori. Tra essi figurano la differente composizione sociale che contraddistingueva le comunità di Occhiobello e Canaro rispetto a quelle delle limitrofe zone, con una fortissima componente di bracciantato agricolo, privo di proprietà e quindi meno motivato alla difesa del territorio, l'alta conflittualità politica e sociale che caratterizzò quegli anni e quei territori in particolare, finanche la supposta mancanza, in quella popolazione, dell'ancestrale empatia con l'elemento fiume dovuta al fatto che il corso del Po si attestò su quel territorio, a differenza che su quello alto polesano, solo dal XII secolo, a seguito della famosa Rotta di Ficarolo, avvenuta, secondo la tradizione, nel 1152.

Fattori idraulici

Oltre all'impossibilità di portare a compimento le necessarie opere di contenimento idraulico mediante sovralzo delle arginature, a giocare un ruolo decisivo sulla localizzazione delle rotte è stata certamente la specifica conformazione dell'alveo fluviale in quei siti nonché la presenza al suo interno di considerevoli manufatti. Il territorio di Occhiobello è infatti posto a monte di una strettoia in corrispondenza della quale erano e sono tuttora presenti, a breve distanza l'uno dall'altro, il ponte stradale sulla Strada Statale 16 ed il ponte ferroviario della linea Padova-Bologna. Entrambi questi manufatti di attraversamento hanno numerose pile in alveo, di notevoli dimensioni e ingombro trasversale. Tale riduzione della sezione di deflusso non può essere completamente compensata dall'aumento della velocità della corrente e viene pertanto a prodursi un innalzamento del livello idrico a monte.

Altra circostanza sfavorevole, seppur di importanza marginale, che viene richiamata dalla letteratura esistente quale concausa delle rotte, è la presenza dei forti venti di scirocco che soffiavano quel tragico 14 novembre. A tale fattore si imputa un incremento del livello dell'acqua in sponda sinistra, posta a nord rispetto al fiume, cioè in direzione di vento, pari a 20 ÷ 30 centimetri rispetto a quella destra.

Un ulteriore effetto negativo prodotto dai venti meridionali è stato quello di determinare l'innalzamento del livello di marea nell'Adriatico settentrionale, con la registrazione a Venezia, alle ore 8:05 del 12 novembre 1951, di + 151 cm sul livello del medio mare, riducendo così la capacità di ricezione di quest'ultimo e quindi la velocità di deflusso del fiume verso il mare.

Per ultimo, ma certo non meno importante quale causa del disastro, va sottolineato il fatto che alcuni tratti dell'argine sinistro avevano quota sommitale depressa rispetto al livello teorico di sistemazione, calcolato in modo da garantire un determinato franco arginale (pari a 1,00 ÷ 1,50 m) sulla quota della massima piena di riferimento, che allora era quella del 1926.

Le ragioni di detti mancati adeguamenti sembrano da addebitare alla carenza di fondi disponibili per finanziare i lavori; fondi più volte richiesti dal Genio Civile di Rovigo ma mai erogati in maniera sufficiente dal Magistrato alle Acque e dal superiore Ministero dei Lavori Pubblici.

Cronaca dell'evento

Già nel corso della mattinata del giorno 14 novembre 1951, in più tratti dell'argine sinistro del fiume Po, quelle a quota depressa, iniziarono le tracimazioni. Mentre alcune di esse poterono essere contenute grazie ai lavori tumultuari attuati dai volontari e dai cooptati, per altre il tentativo di contenimento, per l'estesa dei tratti interessati a fronte della scarsità di uomini disponibili, si rivelò ben presto disperato. Come detto sopra, si dovette riscontrare, complice la falsa notizia di una rotta a Bergantino oltre all'immaginabile paura e al panico prodotti dall'inizio dei sormonti, l'abbandono pressoché totale dei lavori di sopralzo arginale sulla tratta Occhiobello – Canaro. Giunti a questo punto, il tragico evolversi degli eventi era segnato: le acque tracimate, stramazzando lungo il corpo arginale, ne determinarono ben presto l'erosione sino al suo totale sfondamento.

Poiché le testimonianze dirette discordano, quella che segue è la ricostruzione cronologica degli eventi più accreditata.

Pur non esistendo un'univoca cronologia degli eventi, si riporta qui la sequenza oraria più accreditata secondo cui sono avvenute le rotte. La cosa certa è che le tre rotte si sono succedute in un brevissimo arco temporale. Peraltro, la quasi simultaneità degli eventi è una condizione necessaria del loro stesso verificarsi in forma multipla in ragione del altrove citato effetto svuotamento che la prima rotta determina e che avrebbe impedito un succedersi più dilatato delle tracimazioni successive. In altre parole, le rotte dovevano avvenire necessariamente in modo quasi simultaneo in quanto, viceversa, l'abbassamento del livello idrometrico in seguito al verificarsi del primo evento ne avrebbe evitato il ripetersi e l'intera esondazione sarebbe avvenuta da una sola bocca di rotta.

Alle ore 19.45 del 14 novembre, l'argine maestro del fiume Po ruppe a Vallone di Paviole, in Comune di Canaro. Alle ore 20.00 si verificò una seconda rotta in località Bosco in Comune di Occhiobello. La terza falla si produsse poco più tardi, alle ore 20.15 circa, in località Malcantone dello stesso comune. La massa d'acqua che si riversò con furia sconvolgente sulle terre del Polesine fu immane. Si calcola che la portata complessiva delle rotte sia stata dell'ordine dei 7.000 m³/s (6.000 m³/s secondo alcune stime, più di 9.500 m³/s secondo altre) a fronte di una portata massima complessiva del fiume stimata in quell'occasione in circa 12.800 m³/s.

In pratica, circa 2/3 della portata fluente, anziché proseguire la sua corsa verso il mare entro gli argini del fiume, si riversò sulle campagne e sui paesi. Come peculiare effetto di ciò si produsse, immediatamente dopo le rotte, un repentino decremento del livello idrometrico del fiume, riscontrato nelle stazioni di misura di monte e di valle: tale fenomeno si definisce “effetto svuotamento”.

Ebbe quindi inizio una catastrofe di enormi proporzioni le cui ripercussioni si riflettono sino ai nostri giorni, segnando per sempre la storia del Polesine. Fu essa infatti, per estensione delle terre allagate e per volumi d'acqua esondati, la più grande alluvione a colpire l'Italia in epoca contemporanea.

Gestione dell'alluvione

La gestione del “dopo” non fu migliore di quella del “prima”. Considerata la totale impossibilità, dati i mezzi e le risorse dell'epoca, di rimarginare subito le rotte, l'unica azione idraulicamente valida al fine di fronteggiare i loro effetti era quella di favorire il deflusso più rapido possibile delle acque verso il recettore finale, il mare. Ben conscio di ciò, l'allora Ingegnere Capo del Genio Civile di Rovigo, Ing. Mario Sbrana, si attivò immediatamente presso il Prefetto al fine di segnalare la necessità dell'apertura di idonei varchi sugli argini della Fossa Polesella che si opponevano, come primo ostacolo, al libero deflusso delle acque verso il mare. La Fossa Polesella era un corso d'acqua che metteva allora in comunicazione, ai fini della navigazione, il fiume Po, dall'abitato di Polesella appunto, al Canalbianco, all'altezza di Bosaro.

La specifica conformazione idrografica del Polesine avrebbe infatti consentito il convogliamento delle acque di rotta verso il mare delimitandone l'esondazione entro la fascia compresa tra l'argine sinistro del fiume Po, a sud, e quello destro del Canalbianco, a nord, risparmiando le restanti terre dall'allagamento. Come annunciato dall'Ing. Sbrana, già 7 ore dopo la rotta le acque di esondazione si attestavano sull'argine ovest della Fossa Polesella. Qui ha inizio un altro triste capitolo della gestione dell'alluvione del '51 con un'inverosimile querelle tecnico-istituzionale che lascia tuttora sbalorditi.

Il Prefetto, Umberto Mondio, insediatosi a Rovigo da pochi giorni (l'11 ottobre 1951), in arrivo da una città del sud, e quindi proiettato in un contesto ed in una situazione del tutto particolari e a lui sconosciuti, di fronte alla richiesta del dirigente del Genio Civile di “far saltare” la Fossa Polesella con l'uso di cariche esplosive, tergiversò. Il responsabile del Genio Civile, consapevole dell'urgenza di dare esecuzione a tale operazione e conoscendone la difficoltà pratica, chiese addirittura l'immediato bombardamento di quell'ostacolo da parte dell'aviazione. L'operazione, per l'opposizione del Prefetto (e non solo sua), non fu attuata. A complicare il quadro già difficile si era costituito una sorta di “partito del no”, assolutamente contrario al taglio degli argini della Fossa Polesella, formato dai sindaci dei comuni posti a est di detto corso d'acqua appoggiati dai relativi abitanti.

La tesi da essi sostenuta, che la Fossa potesse fungere da baluardo alle acque, era tecnicamente del tutto infondata ma, ciononostante, trovò una parziale sponda nelle decisioni del Prefetto. Egli infatti ritenne che un ritardo nel taglio della Fossa avrebbe consentito un più agevole sfollamento delle aree poste a Est che sarebbero servite al passaggio delle acque. Ciò nella realtà non avvenne in quanto le popolazioni, spesso capeggiate dai propri sindaci, si opposero con ogni mezzo all'abbandono delle case e delle terre.

Nel conteso dell'infuocato clima di contrapposizione politica che caratterizzava la realtà polesana, come quella italiana, a quell'epoca, si tende ad attribuire ad un'azione di capillare propaganda politica attuata dal Partito comunista italiano locale, l'atteggiamento assunto dalle popolazioni contro il taglio della Fossa. La resistenza al pur necessario e improcrastinabile intervento idraulico giunse al punto di vedere uomini armati sugli argini della Fossa e dello stesso Canalbianco (era ormai opportuno procedere anche al taglio dell'argine destro di quest'ultimo, a valle della confluenza della Fossa, per scongiurare il cedimento, poi puntualmente verificatosi, di quello sinistro) risoluti ad impedire il taglio finanche con l'uso della forza.

Il trascorrere del tempo in assenza del necessario taglio si rivelò quindi non solo inutile bensì gravemente dannoso. Le acque di esondazione infatti, non trovando alcuno sfogo verso il mare, furono costrette a rincollare verso monte raggiungendo località quali Castelnovo Bariano, Bergantino, Castelmassa, Salara ed altre dell'Alto Polesine che sarebbe restate invece immuni dagli effetti della rotta. Il livello delle acque esondate, confinate nel bacino determinato dall'argine sinistro del Po, da quello destro del Canalbianco e da quello occidentale della Fossa, sotto il continuo apporto delle rotte, non poté che aumentare sino a sormontare naturalmente quest'ultimo e a riversarsi comunque all'interno del suo alveo.

Questo le convogliò con furia inusitata verso il Canalbianco il quale, a causa dell'allora esistente sostegno di Bosaro, non fu in grado di farle defluire a valle con la necessaria rapidità.

Il rigurgito dell'onda di deflusso si proiettò quindi verso monte sino a raggiungere il vicino ponte ferroviario di Arquà Polesine, sulla linea Padova – Bologna, di cui erose il contornamento delle testate rompendo l'argine di sinistra.

Ciò aprì la strada alle acque verso Rovigo, centro naturalmente preposto alla gestione dell'emergenza e quartier generale di tutte le attività di coordinamento dei soccorsi, distribuzione degli aiuti e smistamento dei profughi. Ultimo baluardo a difesa del centro di Rovigo si rivelò l'Adigetto, traslato solo 15 anni prima dall'asse mediano della città alla circonvallazione ovest.

Solo il 24 novembre 1951 il Genio civile fu in grado, dopo ripetuti inefficaci tentativi, di aprire, con circa 5.000 kg. di tritolo, alcune brecce sufficientemente ampie sull'argine orientale della Fossa. La tardività di questo intervento fece sì che il Canalbianco, data l'incontenibile massa d'acqua che in esso si convogliava, oltre che ad Arquà, cedesse prima a Sant Apollinare poi a Villamarzana e quindi in località Retratto in comune di Adria inondando la città stessa, che all'epoca contava circa 35.000 abitanti, e che si trovò quindi completamente isolata.

Sulla strada finalmente aperta verso il mare, le acque trovarono come secondo consistente ostacolo trasversale gli argini del canale di navigazione Po – Brondolo che tutt'oggi mette in comunicazione il Po con la Laguna di Venezia, incrociando Canalbianco e Adige. Anche in questo caso le acque dovettero sormontare l'ostacolo senza l'aiuto di intervento umano.

Ciò produsse il loro rincollo verso monte nella porzione territoriale compresa tra il Canalbianco e l'Adige. Si assistette quindi all'allagamento del Cavarzerano e di tutta l'area nord orientale del Polesine e al rigurgito delle acque, attraverso gli alvei del canale di bonifica Botta Rovigata e del Ceresolo, che avevano invertito il loro corso, verso il capoluogo. Solo l'intervento del Genio civile, che ne fece saltare gli argini, impedì che le acque risalissero sino a ovest della Strada statale 16 Adriatica, sul rilevato della quale comunque le acque si attestarono.

L'ultimo ostacolo alla discesa delle acque esondate verso il mare fu costituito dalla linea delle dune costiere e degli argini a mare che separano le valli, le paludi e le basse terre del Delta dal Mare Adriatico. Anche in questo caso il superamento dell'ostacolo avvenne per rincollo delle acque e sormonto. Ciò ha causato, per l'innalzamento del livello dell'acqua, l'allagamento, oltre che di Rosolina, dei due grossi centri abitati di Contarina e Donada, oggi riunificatisi sotto l'antico toponimo di Porto Viro.

Le uniche porzioni del territorio polesano a non essere sommerse dalle acque sono quindi state l'area nord occidentale compresa tra il corso dell'Adige e quello del Canalbianco sino alla linea che li congiunge formata da Naviglio Adigetto – Canale Scortico, alcune aree (quelle poste a quota più elevata) dell'Alto Polesine a sud del Canalbianco e le isole del Delta ad eccezione di quella ove ricade l'attuale Porto Viro, invece inondata.

La chiusura delle rotte

In seguito al verificarsi delle rotte, per un periodo di circa 15 giorni, non fu possibile intraprendere alcun intervento riparatore; ciò sia a causa dell'impeto delle acque in fuoriuscita dai varchi arginali, che di fatto impediva l'avvicinamento dei mezzi natanti, che per la totale impraticabilità delle arterie viarie della zona interessata.

Solo in data 30 novembre, con notevole sprezzo del pericolo, i tecnici dell'Ufficio idrografico del Magistrato alle Acque furono in grado di eseguire i rilievi batimetrici delle bocche di rotta. In seguito a questa prima cognizione dello stato dei luoghi fu possibile affidare a tre diverse Imprese, una per ciascuna rotta, le opere di pronto intervento finalizzate ad arrestare la fuoriuscita delle acque e a innalzare progressivamente le soglie di rotta. I tre interventi furono affidati ad imprese di fiducia che garantivano idonee capacità tecniche ed organizzative; più precisamente, l'intervento in località Malcantone fu affidato all'Impresa Ing. Carlo Mazzacurati di Padova, quello in località Bosco all'Impresa Astaldi S.p.A. di Roma e quello in località Vallice all'Impresa Vittorio Marchioro di Vicenza. I lavori di somma urgenza consistettero nella chiusura dei varchi arginali mediante costruzione di coronelle in pietrame in asse alle arginature abbattute. Furono fornite 136.600 t. circa di pietrame per un volume dato in opera di 105.000 m³.

A completamento delle opere di primo intervento, fu realizzato uno speciale coronamento dei manufatti di interclusione mediante la costruzione di una gabbionata cellulare continua contro i pericoli di eventuale sormonto delle coronelle. Queste ultime opere furono affidate ed eseguite dalla Ditta C.E.F.A. di Bologna.

Il costo complessivo dei lavori realizzati in regime di somma urgenza fu pari a £ 767.312.739 (£ 300.000.000 per la rotta di Bosco, £ 279.138.112 per quella di Malcantone, £ 102.495.792 quella di Vallice, £ 85.678.835 per la gabbionata). Nel frattempo il Genio Civile di Rovigo provvedeva a redigere il progetto per la chiusura definitiva delle rotte. Esso fu presentato, a firma dell'Ing. Vincenzo Pavani, in data 25 dicembre 1951. Esso prevedeva, per le due rotte contigue di Malcantone e Bosco, la costruzione di un unico arco arginale in arretramento di circa 160 m rispetto al precedente asse arginale. Ciò consentiva la formazione di un ampio bacino di calma per le acque di piena tra le coronelle e il nuovo argine garantendo una protezione del nuovo manufatto dagli effetti erosivi della corrente. Il nuovo argine in località Vallice fu invece progettato e realizzato sullo stesso asse di quello abbattuto. In base al progetto, il rilevato arginale, per tutte e tre le rotte, venne costruito in tre successive fasi mediante la formazione di nuclei progressivamente più potenti ed elevati. Il rilevato fu animato da una palancolata in acciaio continua di altezza variabile da 8 a 14 metri. Il volume complessivo dei nuovi rilevati fu di circa 1 milione di metri cubi. All'unghia a fiume del nuovo rilevato fu prevista la costruzione di una berma di protezione in pietrame su cui posava la superiore scogliera di difesa spondale.

L'aggiudicazione dei lavori, per trattativa privata, avvenne in data 27 dicembre 1951 con affidamento degli stessi alle medesime Imprese esecutrici degli interventi urgenti e per un costo complessivo, a consuntivo, di £ 2.183.953.261 (£ 1.124.857.261 per Bosco, £ 755.096.000 per Malcantone e £ 304.000.000 per Vallice). I lavori, consegnati in data 5 gennaio 1952 furono ultimati in data 15 giugno 1952 a Vallice, 2 agosto 1952 a Malcantone e 6 settembre 1952 a Bosco. Occorsero complessivamente 320.000 giornate-operaio.

Alcuni dati salienti

Le tre bocche di rotta misuravano, ad evento concluso, 220 m quella di Vallone di Paviole, 204 m quella in località Bosco e 312 m quella di Malcantone.

Esse sono state attive dal giorno 14 novembre al 20 dicembre 1951, cioè per complessivi giorni 37.

La loro portata complessiva è passata dagli iniziali 7.200 m³/s. ai circa 1.500 m³/s. degli ultimi giorni di attività. È da far notare che il giorno 27 novembre, a ben due settimane dalle rotte, la loro portata era ancora di oltre 3.200 m³/s.

Il volume d'acqua complessivamente effluito dalle rotte è stato pari a 8 x 109 m³, ovvero otto miliardi di metri cubi.

Il massimo volume invasato sul suolo polesano, quello cioè accumulatosi sul territorio dal momento della rotta a quello dell'inizio dello scarico a mare, verificato il 21 novembre alle ore 13.26, è stato calcolato in 3,128 x 108 m³, cioè tre miliardi e 128 milioni di metri cubi.

La superficie allagata è stata di oltre 100.000 ha, pari a circa il 52% del territorio dell'intero Polesine, compreso il Cavarzerano (VE).

Il numero delle vittime umane è stato di circa cento, ben 89 delle quali nel solo episodio del cosiddetto "Camion della morte" che vide l'automezzo carico di fuggiaschi sorpreso dall'inondazione la notte del 14 novembre a Frassinelle. Recenti studi sembrano tuttavia attestare che non tutti gli 89 corpi ritrovati siano da collegarsi alla sciagura del camion. In frazione Passo del comune di Frassinelle Polesine è visitabile il sacrario di San Lorenzo, piccolo cimitero dedicato alle 84 vittime del "camion della morte".

Il numero dei profughi costretti a lasciare le proprie abitazioni fu compreso tra 180.000 e 190.000 unità.

Andarono perduti 6.000 capi di bestiame bovino. Incalcolabile il numero degli altri animali d'allevamento deceduti.

Dal 1951 al 1961 lasciarono in modo definitivo il Polesine 80.183 abitanti, con un calo medio della popolazione del 22%. Al 2001 abbandonarono il Polesine oltre 110.000 persone. In molti comuni il calo superò, dal '51 all'81, il 50% della popolazione residente.

Solidarietà

Un capitolo a parte merita la solidarietà, nazionale e internazionale, che si espresse nei confronti della popolazione polesana a seguito del tragico evento. Vi è da dire che subito al propagarsi della notizia della catastrofe, moltissime associazioni, partiti politici, sindacati, gruppi formali ed informali, privati cittadini di ogni condizione sociale e orientamento politico non mostrarono il minimo indugio ad attivarsi al fine di garantire la propria solidarietà e il proprio concreto aiuto alle popolazioni colpite. Complice l'ancora acceso ricordo delle tragiche circostanze e delle drammatiche condizioni di vita che contraddistinsero l'appena concluso evento bellico e la conseguente facile identificazione dei più nella difficilissima situazione, materiale e psicologica, in cui venivano a trovarsi gli abitanti del Polesine, la profusione di aiuti che l'Italia e il mondo elargirono fu straordinaria, commovente.

Essa si manifestò non solo nella raccolta di fondi e di beni a favore del Polesine ma anche e soprattutto nell'intervento diretto di moltissimi volontari che, abbandonate le loro case sicure, non indugiarono neppure un giorno a mettersi a disposizione, in prima persona, della macchina dei soccorsi. Inoltre, moltissime famiglie in tutta Italia aprirono le porte delle proprie case agli sfollati e ai profughi che poterono così trovare non solo un tetto sotto il quale rifugiarsi ma anche una solidarietà umana diretta, non filtrata né mediata da apparati burocratici, ma immediata e concreta, fatta di volti e di persone.

Più di un autore, in merito alla eccezionale solidarietà espressa nei confronti dei polesani, non tralasciò di sottolineare un tratto che potremmo definire etnoantropologico che caratterizzava proprio i polesani del tempo: un retaggio storico segnato da grande povertà sembra essere all'origine dell'estrema semplicità culturale e materiale, dell'inesistenza di malizia e sofisticazione, della grande genuinità ai limiti dell'ingenuità che fu tratto saliente di questa popolazione; ciò non fece che attirare la simpatia e la benevolenza di chi vi ebbe a che fare. Tantissimi polesani non fecero ritorno alla propria terra di origine anche perché i loro ospiti, specialmente nel triangolo industriale Torino – Milano – Genova, vollero tenerli con sé per lavorare nei laboratori e nelle fabbriche dell'emergente realtà industriale italiana.

Sul piano istituzionale, la prima entità ad attivare interventi di aiuto alla popolazione fu il Comitato Provinciale per l'Emergenza, immediatamente costituito e presieduto dal Presidente della Provincia Alfredo De Polzer. Ciò indusse il Prefetto di Rovigo, Mondio, che evidentemente si sentì scavalcato da tale intraprendenza, già pochi giorni dopo la costituzione del suddetto Comitato, a sopprimerlo, con la motivazione che ogni aiuto e intervento doveva passare, anche per questioni di ordine pubblico, attraverso il coordinamento della Prefettura. È in realtà evidente come, anche sul piano degli aiuti alla popolazione, si innescò una contrapposizione di carattere politico-ideologico: gli aiuti attivati dal Comitato per l'Emergenza avevano alla spalle la macchina organizzativa afferente al Partito comunista italiano, alle Camere del lavoro e alle principali organizzazioni sindacali. Quelli governativi rappresentarono invece la capacità di reazione e intervento della Democrazia Cristiana, strettamente fiancheggiata dalle ACLI e dall'associazionismo cattolico in genere.

Anche su scala mondiale si verificò un'analoga contrapposizione con una vera e propria gara di solidarietà tra Unione sovietica e paesi del blocco socialista, da una parte, e americani dall'altra. Tutti i convogli di aiuti in arrivo in Polesine portavano l'indicazione, a caratteri cubitali, della nazione donatrice. In quell'epoca di guerra fredda e competizione politica dagli esiti tutt'altro che scontati, tutto poteva servire a tirare acqua al proprio mulino. Tale competizione, più o meno politicamente interessata, nell'elargizione degli aiuti a livello nazionale e sovranazionale non deve comunque in alcun modo sminuire la vera e gratuita solidarietà, espressa nelle più varie forme, dalle popolazioni, quella italiana, europea e mondiale, mosse a ciò da autentici sentimenti di identificazione, condivisione e compassione.

Il prosciugamento delle terre

A fronte di una situazione così disastrosa e di una altrettanto disastrosa gestione della piena del fiume Po e del periodo immediatamente successivo all'apertura delle rotte da parte delle istituzioni preposte (Genio Civile, Prefettura e Amministrazione Provinciale), il prosciugamento delle terre rappresentò invece un capitolo positivo del dopo emergenza e consentì di recuperare a coltura in tempi record la maggior parte delle terre colpite.

Già nel giugno del 1952 fu possibile la semina di gran parte delle terre riemerse dalle acque a seguito del loro rapido prosciugamento e della loro bonifica dai potenti strati di sedimenti sabbiosi e limosi che in alcune aree le ricoprivano. Sotto questo profilo va dunque elogiata l'imponente opera attuata dai Consorzi di Bonifica territorialmente interessati (all'epoca ben 46, coordinati nei Consorzi di 2º grado della Bonifica Padana e della Bonifica Polesana), per la circostanza riuniti nel Consorzio generale per la Ricostruzione delle Bonifiche Polesane, nel ripristinare l'officiosità dei corsi d'acqua di scolo, gli impianti di sollevamento, nell'approntare nuove idrovore e nel sovrintendere alla realizzazione di quelle innumerevoli opere di tagli arginali e convogliamenti idrici che sono risultati necessari a favorire il più rapido deflusso delle acque esondate verso i ricettori finali.

La ricostruzione

Nel contesto delle considerevoli opere di riparazione, sistemazione e ricostruzione delle infrastrutture del territorio, delle abitazioni, delle attività produttive realizzate in Polesine al termine dell'alluvione, non possiamo tacere la grande opera di coordinamento e sprone attuata dal Commissario di governo On. Giuseppe Brusasca. Egli operò in Polesine dal dicembre del 1951 al febbraio 1956.

La sua presenza a Rovigo fu importante non solo per il carattere plenipotenziario della sua carica che consentì il superamento se non il travolgimento di tutti gli ostacoli burocratici che si frapponevano ad una rapida ricostruzione ma favorì anche e soprattutto la nascita di un clima collaborativo tra Prefettura e Amministrazione Provinciale, la prima espressione del governo democristiano, la seconda retta da una giunta formata da comunisti e socialisti.

Più in generale Brusasca seppe porre in primo piano il fare, contagiando e coinvolgendo con il suo attivismo tutte le altre figure fondamentali nell'attività di ricostruzione ed opponendosi ad ogni contrapposizione di tipo ideologico o anche solo idealista. Seppe mettere d'accordo le due anime politiche del tempo dimostrando in questo una grande intelligenza politica e mostrando altresì un notevole spessore personale.

Analogamente, il prof. Alfredo De Polzer, l'allora Presidente della Provincia, seppe appianare i contrasti che spesso scoppiavano in seno al Consiglio provinciale e favorire il dialogo tra opposti schieramenti. Anche questo, data la centralità di tale Ente nelle funzioni di gestione amministrativa e ancor prima politica del territorio (ricordiamo che all'epoca non esistevano ancora le Regioni), si rivelò essere fondamentale nel consentire la rinascita del Polesine dalle pesanti conseguenze dell'alluvione.

Conseguenze a breve e a lungo termine

Per meglio comprendere quelle che sono state le immediate e secondarie conseguenze dell'alluvione del 1951 sui territori colpiti è necessario contestualizzare l'evento. Esso infatti si verificò a soli sei anni dalla fine del sanguinoso II conflitto mondiale che aveva visto l'Italia soccombente e aveva lasciato il Paese in condizioni di grande indigenza e distruzione.

Il clima politico era estremamente conflittuale, con una fortissima contrapposizione tra DC, che all'epoca guidava il Governo centrale, e PCI che, insieme ad altre forze di sinistra, governava il Polesine e la maggioranza dei Comuni rivieraschi del Po. Un clima che avrebbe potuto favorire, come in certe questioni favorì, la speculazione politica fine a sé stessa, compromettendo il buon esito degli sforzi congiunti necessari ad affrontare la crisi prodotta dall'alluvione e a risollevare le sorti delle terre colpite. La querelle sul mancato tempestivo taglio della Fossa Polesella potrebbe essere portato come esempio dei gravi effetti negativi prodotti da questa dura contrapposizione politica.

Il Polesine, inoltre, come terra prevalentemente agricola, risentì in modo ancor più grave della inevitabile carestia prodotta dall'inaccessibilità delle terre allagate. Se le conseguenze a breve poterono essere affrontate con buon esito grazie alla rapidità con la quale si rimise a coltura la maggior parte delle terre e all'abbondanza degli aiuti giunti da tutta Italia, ma anche dall'estero, quelle a lungo termine furono forse più pesanti.

Moltissime delle famiglie polesane sfollate in seguito all'Alluvione del 1951 non fecero più ritorno. Complice una riforma agraria non ancora del tutto dispiegata, specie nel basso polesine, con il perdurare di ampie aree ancora a latifondo e una scarsa distribuzione della proprietà agraria, pochi polesani emigrati a seguito dell'Alluvione del '51 trovarono un valido motivo per fare ritorno alle proprie terre d'origine.

Altro fattore fondamentale nel processo di spopolamento che ha interessato il Polesine a seguito dell'alluvione fu senza dubbio il rapido processo in meccanizzazione che in quegli anni investiva il settore agricolo. In una provincia come quella di Rovigo, dove la percentuale della popolazione ancora impiegata in agricoltura era molto alta e il bracciantato molto diffuso, la brusca riduzione del fabbisogno di manodopera in questo settore dovuta all'avvento della meccanizzazione fu particolarmente impattante sul piano economico e sociale.

La curva dell'andamento demografico del Polesine vide nel 1951 il punto massimo, con l'inversione del trend positivo che l'aveva caratterizzata nel lungo periodo precedente. Solo nel decennio 1951 – 1961 la popolazione del Polesine si ridusse di oltre 80.000 unità. Lo spopolamento del Polesine, iniziato nel 1951, si è protratto sino ai nostri giorni e solo dal 2001, per la prima volta dopo il 1951, la popolazione polesana ha visto un incremento numerico.

Più esattamente, la popolazione della Provincia di Rovigo nel censimento del 1951 risultava pari a 357.963 unità a fronte delle sole 242.538 presenti nel 2001, con un decremento complessivo del 32%. Circa un abitante su tre lasciò il Polesine dopo l'inondazione anche se non esclusivamente a causa di questa. Nel 2007 la popolazione residente era pari a 246.255, con il primo aumento registrato in 50 anni.

Oltre alle problematiche oggettive che hanno interessato il Polesine a seguito dell'Alluvione del 1951, ad essere causa dell'abbandono di questi territori da parte delle sue genti è certamente stata la durezza delle condizioni di vita ancora qui perduranti, così strettamente legate all'attività agricola, all'epoca pressoché interamente manuale.

I processi di incipiente industrializzazione e conseguente urbanizzazione che riguardavano già in quegli anni le grandi città del nord insieme alla forte emigrazione verso altri paesi europei, favorì un rapido spopolamento del territorio provinciale.

Anche la vulnerabilità idraulica di questo estremo lembo di Pianura Padana è stato e forse è tuttora ostacolo, ancor più sul piano psicologico che su quello reale, al ripopolamento, all'attrazione di investimenti e al rilancio economico di questi territori che, va ricordato, appartengono pur sempre al Veneto, regione trainante del ricco Nordest.

Solo oggi, con il cessare dell'emorragia migratoria e la timida diversificazione economica dal settore primario, con la nascita di alcune realtà produttive nel settore della piccola industria, dei servizi e del turismo, il Polesine sembra in grado di affrancarsi definitivamente da un cinquantennio profondamente segnato dall'Alluvione del 1951 e dalla sue conseguenze.

fonte: Wikipedia

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